Alle cinque e trenta del mattino di sabato 16 ottobre 1943 i
tedeschi si recarono al ghetto di Roma e rastrellarono oltre mille persone.
Furono gentili e gli ebrei non sospettarono la sorte che li attendeva. Su quel
giorno ha scritto un libro memorabile Giacomo Debenedetti e uno di Fausto Coen
esce ora.Roma - Alle 5,30 del mattino di sabato 16 ottobre 1943, un
centinaio di soldati tedeschi forzarono con leve di ferro, o abbatterono con il
calcio dei fucili le porte delle case del Ghetto di Roma e ne «prelevarono»
gli abitanti ignari, immersi ancora nel sonno. Era il terzo giorno del «Succot»,
o festa delle capanne, che ricordava i quarant'anni di attraversamento dei
deserto del Sinai dopo la liberazione dall'Egitto, sotto la guida di Mosè.
Terrorizzati, stropicciandosigli
occhi, gli ebrei pensarono sulle prime che si trattasse di una razziadi
giovani maschi, renitenti alla leva: presto però, sbigottiti, si resero conto
che i tedeschi volevano tutti. Anche malati, vecchi, storpi, donne con bambini
in collo o incinte. Nello stesso momento, altri duecento soldati tedeschi
guidati da quattordici ufficiali e sottufficiali e trenta militi provenienti
dalle tristemente famose «Einsatzgruppen» (reparti specializzati in stragi di
ebrei) si irradiavano a caccia nelle 36 zone in cui la Roma di Herbet Kappler
era stata, per l'operazione, accuratamente divisa: e rastrellavano, casa per
casa, gli ebrei che abitavano fuori del Ghetto. Erano forti di elenchi preparati
con minuzia in anticipo da Theo Danneker, un «tecnico» mandato a Roma
appositamente da Eichmann (aveva dato il via ai rastrellamenti ebraici di
Parigi) con la solerte collaborazione dell'apparato fascista: il prefetto
Antonio La Pera, i commissari di polizia Gennaro Cappa e Raffaele Alianello la
Federazione Fasci dell'Urbe e altri. Alle 14 la razzia era conclusa. Il bottino umano consisteva
di 1259 persone fra donne (689), uomini (363), bambini (207). Vennero ammassati
nei locali dei Collegio militare in via della Lungara. I pochi non ebrei furono
subito liberati, riducendo il numero a 1022. I tedeschi furono eccezionalmente
«gentili». Spiegarono che il gruppo sarebbe stato mandato in Germania: gli
uomini perlavorare, le donne per
accudirli. Già durante la razzia avevano distribuito un «rassicurante»
foglietto di istruzioni in due lingue.Avvertiva
che gli ebreisarebbero
stati «trasferiti senza eccezioni»: consentiva di portare una valigetta,
consigliava di prendere tutto il denaro possibile, viveri per almeno 8 giorni,
tessere annonarie, raccomandava di chiudere a chiave la porta di casa e portare
con sé la chiave. Due giorni dopo, dalla Stazione Tiburtina, ammassati a gruppi
di 50-60 su 18 carri bestiame, gli ebrei venivano inviati ad Auschwitz. Solo
quindici adulti sono tornati dalla deportazione. Nessun bambino. Questo capitolo romano della tragedia ebraica dell'Olocausto
è tutt'altro che sconosciuto. Nel'62
Carlo Lizzani ne ha fatto un film: L'oro
di Roma con Jean Sorel, Anna Maria Ferrero, Gérard Blaine, Andrea Checchi.
Ilprimo a scriverne, nel '44, per
la rivistaMercurio diretta da Alba De Cespedes, era stato il critico Giacomo
Debenedetti. La sua, una cronaca-racconto «16 ottobre 1943», che Umberto Saba
paragonò alla «peste » di Manzoni, e che ora è in traduzione in Inghilterra
e Germania, divenne immediatamente un «classico» e fu ripubblicata otto volte
con prefazioni di Ottavio Cecchi e Alberto Moravia, e una postfazione di Natalia
Ginzburg. L'edizione più recente è da Sellerio, quest'anno. «Abbiamo chiesto
di tirarne tante copie, sperando che vada nelle scuole» mi dice la moglie del
critico, Renata Orengo Debenedetti. Nel suo appartamento sui tetti di Roma, vive
circondata dai 22.000 libri del critico, «che sono la mia gioia e la mia
prigione». Racconta: «Mio marito seppe tutto in seguito, da un testimone che
aveva un banco a Testaccio. Ma quel giorno era qui, e scampò per caso alla
razzia perché il tabaccaio gli disse: “Professore, non vada a casa, i
tedeschi stanno facendo una retata, venga dame”. E lo nascose nel
retrobottega. Dopo l'8 settembre, su insistenza di amici (avevamo i bambini
piccoli), ci eravamo rifugiati a Cortona. Partimmo da un momento all'altro, con
una valigetta. Era ancora caldo, avevamo abiti estivi. Poi cominciò a far
freddo, e Giacomo volle venire a Roma a prendere qualche indumento invernale.
Per caso scelse, per venire, proprio quel 16 ottobre». Si trovava a Roma anche,
quel giorno, rifugiato» da Mantova dopo il 25 luglio il giovane FaustoCoen futuro direttore, per vent'anni, di Paese
Sera e storico del mondo ebraico; oltre che ultimo autore - in ordine di
tempo - di una storia del rastrellamento di cinquant'anni fa, che va in libreria
in questi giorni. Anche questa si intitola 16
ottobre 1943, ma c'è un sottotitolo: La
grande razziadegli ebrei di Roma (Giuntina,
pagg.154, lire 18.000). Si tratta di una ricostruzione fra storia e cronaca,
rigorosa ma di agevole lettura, ricca in egual modo di riferimenti storici,
militari, politici, diplomatici - e di testimonianze minute, che restituiscono
il clima umano e corale della vicenda. Inoltre traccia la storia della razziaanche dalla parte tedesca: mostra le differenti opinioni dei tedeschi,
appunto, in merito al «cosa fare degli ebrei» e le pesanti responsabilità di
Kappler. Infine, pone inquietanti interrogativi sul silenzio di Papa Pacelli. Mi
dice Coen, nel suo nitido studio di cui un'intera parete è occupata da un
archivio: «Ci sono momenti della vicenda in cui sembra chiaro che i tedeschi si
aspettassero una protesta del Papa. Al Collegio militare si precipitano a
lasciar andare i non ebrei; quanto alla destinazione, è probabile che in un
primo momento pensassero al campo austriaco di Mauthausen, dove gli ebrei
sarebbero stati ostaggi, e dunque trattati assai meglio che nei Lager della
morte. Per questo, io penso, i convogli stanno fermi a lungo alla Stazione
Tiburtina. Quando poi è chiaro che la reazione del Vaticano si limita aun contorto corsivo sull'Osservatore
romano, decidono per Auschwitz e la soluzione finale". «Il Vaticano era informatissimo su quel che i nazisti
facevano agli ebrei: dai nunzi (uno dei quali era Roncalli), dagli ambasciatori
inglese e americano; dai parroci in Polonia. Personalmente ritengo che Pio XII
fosse quasi paralizzato dal suo profondo anticomunismo: non poteva dirlo perché
i russi combattevano con gli alleati, ma pensava che il nemico vero fosse
quello, più del nazismo». Il libro mette anche in luce l'ingenuità, la sprovvedutezza
degli ebrei, il loro ottimismo malgrado tutto: non solo del popolo minuto, ma
anche dei leader. Coen «L'estorsione di Kappler dei 50 chili d'oro,
lo"scippo" dei preziosi libri e documenti della Comunità, precedenti
la razzia, invece di allarmarli li avevano rassicurati. Più di questo,
pensavano, non sarebbe accaduto in un'Italia in cui le leggi razziali del'38
erano state umilianti e offensive ma non letali».Questa stessa ingenuità, questa disarmata impreparazione
sono al centro di un altro libro che esce in questi giorni, su un diverso
capitolo della tormentata vicenda degli ebrei italiani in quel terribile ’43.
Si trattadi Hotel Meina di Marco Nozza, sottotitolo La prima strage degli ebrei in Italia, (Mondadori, pagg. 309, lire
32.000, prefazione Giorgio Bocca). In appendice, un inedito: «Il diario di
Becki Behar», una ragazzina ebrea turca (4 anni nel '43), figlia del
proprietario dell'Hotel Meina del titolo, ebreo turco a sua volta - ma la
Turchia era neutrale. Per giunta, nell'albergo erano ospiti console turco e
viceconsole. Meina è una delle ridenti comunità del Lago Maggiore che ospitò
una colonia di ebrei sfollati dalle città lombarde, e dove - mentre in quei
paraggi si consumavano gli ultimi fuochidella
gloria del Duce - arrivò la famigerata divisione delle «SS» Leibstandarte.
Cinquantaquattro ebrei morirono, senza che la comunità riuscisse ad «aprire
gli occhi». Fu la prima strage italiana di israeliti, i quali, malgrado
l'evidenza, non riuscirono a convincersi che quei soldati ipermaziali andassero
a caccia di vecchi, malati, bambini, donne. La credulità, la disponibilità al
macello da parte degli ebrei emergono dai pur diversi racconti di Giacomo
Debenedetti e di Fausto Coen. Il quale riferisce di un prigioniero del Collegio
militare che esce per andare a comprare le sigarette e poi, invece di fuggire,
vi fa ritorno. Così come risale sul carro bestiame un altro che a Padova è
saltato giù per cercare un po' d'acqua. «Perfino allora non sapevano e non
immaginavano», dice Coen. «Conoscevano la ferocia e l'odio dei nazisti, ma
pensavano che non mentissero, che fossero gente d'onore. E cosi, anche nei
momenti più drammatici, trasformavano la speranza in certezza».