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 Psicologia Contemporanea 

Dopo la pubblicazione dell'articolo La colpa da sopravvivenza: l'ombra lunga dell'Olocausto, di Paola Di Blasio («Psicologia contemporanea», 166, 2001), molti insegnanti, soprattutto di scuole medie superiori, hanno sollecitato questa rivista a delineare un percorso utile ad affrontare con i loro studenti i temi legati alla tragedia dell'Olocausto. Volentieri aderiamo all'invito, presentando in queste pagine alcune nozioni fondamentali, scientificamente consolidate, che consideriamo premesse indispensabili per ulteriori approfondimenti non soltanto su quell'evento mostruoso che fu l'Olocausto ma anche, più in generale, sulla violenza umana.


La lezione dell’Olocausto. Quello che i giovani devono sapere  

di Francesco Robustelli 

L’Olocausto è in assoluto uno degli eventi più terribili della storia dell’umanità, che pure è un susseguirsi di eventi terribili. Ritengo che nell’analisi dell’Olocausto non ci si debba limitare a considerare solo certe specifiche circostanze storiche, certamente importanti, ma si debba anche concentrare l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali della natura umana. Cercherò di fornire alcuni suggerimenti in proposito, dando particolare rilievo a ciò che può favorire l’educazione delle nuove generazioni.

La questione della “diversità”

Vivere con gli altri significa sempre, inevitabilmente, vivere con individui diversi da noi. Diversi per sesso, per età, per condizione sociale, per tipo di personalità, per gruppo etnico, ecc. Di fatto, diversi siamo spesso anche noi stessi nei vari periodi della nostra vita ed è un’esperienza abbastanza frequente quella per cui, nella comprensione di come eravamo nel passato, incontriamo difficoltà analoghe a quelle che riscontriamo nella comprensione degli altri. Questo significa che la diversità è una delle categorie fondamentali dell’esperienza umana e la conoscenza dei suoi vari aspetti e delle sue dinamiche è indispensabile per avere rapporti interpersonali ragionevoli. Non a caso negli ultimi decenni tante ricerche psicologiche sono state dedicate allo studio dell’empatia, cioè della capacità di immedesimarsi negli altri, sia sul piano cognitivo che su quello affettivo. La ragione per cui i paesi industrializzati si pongono con sempre maggior impegno (e con sempre maggiore preoccupazione) il problema della convivenza multietnica è ovviamente costituita dalla forte immigrazione che negli ultimi tempi si è avuta dai paesi del terzo mondo. Ma è indispensabile insistere sul fatto che, da un punto di vista psicologico, affrontare il problema della convivenza multietnica significa affrontare il problema della convivenza umana pura e semplice, cioè il problema dei rapporti interpersonali, che tanta importanza hanno nella nostra vita. I giovani devono sapere che l’appartenenza ad un’etnia diversa non è altro che una delle tante variabili che contraddistinguono la diversità.

La cosiddetta “razza”

In ogni cultura ci sono delle concezioni generali che si cristallizzano, resistono tenacemente ad ogni analisi razionale e si perpetuano per secoli, a volte per millenni. Nel nostro caso si tratta dell’antisemitismo. L’antisemitismo ha avuto due versioni, una di carattere religioso e un’altra di carattere biologico. La versione di carattere religioso considera gli ebrei colpevoli di aver ucciso Gesù Cristo. Non spenderò molte parole su questo tipo di antisemitismo, ormai superato, ma vorrei semplicemente far rilevare l’assurdità del ritenere, per esempio, un bambino ebreo di dieci giorni responsabile di quello che hanno fatto alcuni suoi antenati mille o duemila anni prima. Altro che patologia mentale! La versione biologia dell’antisemitismo, sorta nell’Ottocento, si basa sul concetto di razza. Gli ebrei costituirebbero una “razza demoniaca”, contraddistinta da una “malvagità innata”. Qui ci sono da fare due semplici considerazioni. Da un lato, la genetica moderna è arrivata alla conclusione che la specie umana non può essere divisa in razze. E, poiché non esistono razze umane, di conseguenza non esiste neppure la razza ebraica. D’altro lato, nessuno psicologo sano di mente si sognerebbe mai di sostenere che la malvagità possa essere considerata una caratteristica umana innata, cioè determinata biologicamente. Pertanto, ai giovani dobbiamo assolutamente far sapere che la versione biologica dell’antisemitismo, cioè la sua versione razziale, non ha nessun fondamento scientifico.

L’ignoranza, i pregiudizi e le tradizioni

La scienza ha un enorme prestigio nella nostra società. Ciò nonostante, una concezione antiscientifica come il razzismo continua ancora oggi a sopravvivere e, purtroppo, a prosperare. Perché? Quali sono i fattori che tengono in vita questa evidente contraddizione? Innanzitutto l’ignoranza. Non mi stancherò mai di ripetere che spesso le conoscenze scientifiche rimangono confinate negli istituti di ricerca e nelle pubblicazioni specialistiche e non vengono diffuse. Questo dipende in parte dallo scarso impegno sociale di molti studiosi e in parte dal fatto che i sistemi di potere che dominano la nostra società tendono a perpetuarsi soprattutto sul piano ideologico, cioè per mezzo della “solidificazione” delle idee, degli atteggiamenti, dei sentimenti, in modo da indurre negli individui una mentalità rigida, più o meno immutabile, che favorisca appunto l’accettazione degli stessi sistemi di potere. Poi ci sono i pregiudizi. Sarebbe utile far conoscere ai giovani i risultati della ricerca psicologica in questo campo. Oggi sappiamo che i pregiudizi derivano dal normale modo di funzionare dei nostri meccanismi cognitivi che, limitati nelle loro capacità e costretti a misurarsi con una realtà complessa, tendono alla semplificazione. La conoscenza di queste dinamiche può aiutare molto a contrastare la formazione dei pregiudizi e a non pensare, per esempio, che tutti gli individui appartenenti ad un determinato gruppo etnico abbiano le stesse caratteristiche psicologiche, prescindendo più o meno completamente da una concreta valutazione delle loro singole personalità. Infine, ci sono le tradizioni. In questo caso, il fatto più importante da prendere in considerazione è di tipo affettivo. Le tradizioni sono un aspetto del nostro legame con il passato. In particolare, ritroviamo nelle tradizioni idee, credenze, valori, che erano propri delle persone care che non ci sono più, per cui l’attaccamento alle tradizioni ci sembra un modo di sentirci vicini a queste persone. Ma, di nuovo, la conoscenza dei meccanismi psicologici che producono questo attaccamento può permetterci di prendere le distanza dalle tradizioni e di assumere un atteggiamento critico nei loro riguardi, senza per questo sentirci colpevoli verso chi non è più con noi.

L’esperimento di Milgram

Ignoranza, pregiudizi e tradizioni, tuttavia, non sono sufficienti a spiegare quell’evento mostruoso che è stato l’Olocausto. L’antisemitismo, pur pervasivo e radicato nella cultura tedesca dell’epoca, da solo non può spiegare il massacro dei sei milioni di esseri umani. Nei numerosissimi processi che sono seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, gli assassini degli ebrei si sono quasi sempre giustificati sostenendo che avevano ricevuto degli ordini e che, in quanto militari, sarebbero stati severamente puniti se non li avessero eseguiti. In molti casi si è trattato solo di un comodo pretesto per non essere considerati colpevoli. Esiste infatti un’ampia documentazione che attesta come spesso ai militari tedeschi incaricati di eliminare gli ebrei i superiori offrissero la possibilità di essere esonerati, ove trovassero questo compito troppo stressante sul piano psicologico. Ciò nonostante, erano pochi coloro che chiedevano di essere esonerati. E a questo punto bisogna far conoscere ai giovani un altro aspetto della natura umana, il fenomeno dell’obbedienza all’autorità. Tale fenomeno è stato studiato in particolare da uno psicologo americano dell’Università di Yale, Stanley Milgram. L’esperimento consisteva in questo: ai soggetti veniva spiegato che lo scopo dell’esperimento cui erano stati invitati era quello di chiarire il rapporto fra punizione e memoria. Veniva anche spiegato che alcuni di loro avrebbero svolto il ruolo di “insegnanti”, mentre altri avrebbero svolto quello di “allievi”. Gli “insegnanti” avevano il compito di leggere agli “allievi” svariate coppie di parole. Questi ultimi dovevano memorizzarle, in modo tale da riuscire poi a trovare, di fronte alla presentazione di una singola parola, e potendo scegliere fra quattro alternative, l’associazione corretta per riformare la coppia originaria. L’”allievo era legato ad una specie di sedia elettrica, con un elettrodo applicato al polso. Se sbagliava nell’associare la parola giusta a quella presentatagli, l’”insegnante”, che sedeva davanti ad una serie di interruttori, doveva somministrargli, come punizione, una scossa elettrica. Gli interruttori erano 30 e le scosse andavano da 15 a 450 volt. Lo sperimentatore informava l’”insegnante” che le scosse potevano essere estremamente dolorose, ma in ogni caso non producevano lesioni permanenti ai tessuti. Ad ogni sbaglio commesso dall’”allievo”, l’”insegnante” doveva aumentare il voltaggio della scossa. Arrivato all’ultimo interruttore, corrispondente a 450 volt, doveva continuare ad usarlo fino alla fine dell’esperimento. Lo sperimentatore gli spiegava, infatti, che quello studio «doveva assolutamente essere portato a termine, qualunque fosse la reazione dell’”allievo”». In realtà, l’”allievo” era un attore che, d’accordo con lo sperimentatore, commetteva appositamente molti errori, simulando poi (ovviamente senza ricevere alcuna scossa elettrica) varie gradazioni di sofferenza. Passava cioè progressivamente, a seconda del pulsante premuto dall’”insegnante”, da piccoli gemiti ad urla strazianti, fino al rifiuto vero e proprio di continuare le prove.

L’obbedienza all’autorità

I risultati di questo esperimento furono agghiaccianti. La maggior parte degli “insegnanti” continuò le prove, cioè la somministrazione di scosse sempre più forti, fino alla fine, nonostante i lamenti, le suppliche o le proteste degli “allievi”. L’esperimento fu in seguito ripetuto con modalità diverse per analizzare il più esaurientemente possibile le motivazioni che erano alla base di un comportamento così sadico e impietoso. Le conclusioni della ricerca possono essere riassunte nel modo seguente. Lo sperimentatore era percepito dai soggetti come un’autorità, più precisamente come un’autorità legittima. Essa imponeva l’esecuzione dei suoi ordini non con mezzi coercitivi, ma con il suo prestigio, che in quel caso era il “prestigio della scienza”. Ma come era possibile che individui psicologicamente normali, poiché tali erano i soggetti dell’esperimento, si comportassero di fatto come dei sadici? Milgram sostiene che nel momento in cui un individuo viene inserito in una struttura gerarchica tende in generale a subire una radicale trasformazione della sua attività mentale, almeno per quel che riguarda le situazioni sociali. L’aspetto fondamentale di questa trasformazione consiste nell’obbedienza all’autorità. Mentre, come singolo, l’individuo è portato a controllare il proprio comportamento con la coscienza, secondo i propri principi morali, una volta inserito in una struttura gerarchica tale comportamento è regolato dagli ordini emanati dall’autorità. Non si tratta di un abbandono della moralità, ma di una sua trasformazione. Viene percepito come moralmente positivo non più un comportamento coerente con i propri principi, ma un comportamento coerente con gli ordini dell’autorità. Di conseguenza, l’individuo non si considera più responsabile delle proprie azioni. Dal suo punto di vista, responsabile è solo l’autorità che impartisce gli ordini. Se gli si chiede di giustificarsi, dirà che ha compiuto soltanto “il proprio dovere”. Naturalmente, ci sono differenze enormi fra l’esperimento di Milgram e il massacri degli ebrei, come lo stesso Milgram riconosce, ma sono d’accordo con lui quando sostiene che in entrambi i casi sono presenti certi elementi comuni e precisamente sono identici i processi psicologici fondamentali che mediano il fenomeno dell’obbedienza. Milgram riferisce di un “insegnante” della sua ricerca che, un anno dopo aver partecipato all’esperimento, affermava di aver imparato qualcosa di molto importante dal punto di vista personale: «Mi ha sgomentato», ha confessato a Milgram questa persona, «la mia capacità di obbedire e di continuare a aderire a un’idea centrale, quella di collaborare a un esperimento sulla memoria, anche dopo essermi reso conto che mi fissavo su quel principio a scapito di un altro, quello di non fare del male a una persona inerme che non ci ha offesi. Come mi ha detto mia moglie: “ Sei degno di Eichmann”. Spero che nel futuro sarò in grado di affrontare in modo migliore un simile conflitto di valori».

La struttura gerarchica

Nelle strutture gerarchiche, quindi, e tutte le attuali società umane sono strutture gerarchiche, la maggior parte degli individui tende a interiorizzare profondamente la tendenza a obbedire. Particolarmente impressionante è questo fenomeno nei militari. In genere, i soldati tedeschi che non approfittavano dell’opportunità di essere esentati dall’orrido compito di massacrare gli ebrei, lo facevano perché solo in questo modo, per mezzo di un’obbedienza incondizionata, si sentivano “veri uomini”, saldi, affidabili, efficienti, anziché deboli, vigliacchi, inetti e come tali oggetto di disprezzo da parte dei loro superiori e dei loro compagni. Milgram precisa anche che l’interiorizzazione della tendenza a obbedire non si ha solo negli stati autoritari, come la Germania nazista. Infatti, la struttura gerarchica c‘è anche negli stati cosiddetti democratici. Come esempio delle conseguenze dell’obbedienza all’autorità nei militari americani, cita il massacro perpetrato dai marines nel 1968 nel villaggio vietnamita di My Lai, dove un tenente ordinò al suo plotone di uccidere alcune centinaia di persone (uomini, donne e bambini). Ē impressionante la descrizione del massacro, che ricorda fin nei dettagli i tanti massacri perpetrati dai militari tedeschi nei ghetti europei. Ma altrettanto impressionante è il fatto che un’indagine scientifica effettuata dai due studiosi statunitensi, Kelman e Lawrence, sulla reazione del pubblico americano al processo relativo a questo massacro, il 51% degli intervistati dichiarò che avrebbe senz’altro obbedito se avesse ricevuto l’ordine di uccidere tutti gli abitanti di un villaggio vietnamita. Ē importante che i giovani abbiano la possibilità di analizzare a scuola il fenomeno dell’obbedienza all’autorità. Lo scopo di questa analisi deve essere quello di dimostrare che in nessuna situazione un individuo può venir meno al suo impegno morale e, più in generale, che in nessuna situazione un individuo può permettere che qualcun altro pensi al posto suo. Ē a questo punto che va introdotto un altro concetto elaborato dalla psicologia e strettamente collegato a quello dell’obbedienza all’autorità, ma di portata più generale, il concetto di individuazione.

L’individuazione

Il termine “individuazione” ha vari significati nel campo della psicologia. Io qui lo uso nel suo significato di “autonomi dell’individuo nel gruppo di cui fa parte”. L’individuazione non va confusa con l’”individualismo” nel suo significato negativo, come tendenza a soddisfare i propri bisogni senza tener conto di quelli degli altri, insomma come egoismo. L’individuazione è un tratto della personalità fortemente positivo. La “personalità individuata sente il valore della socialità, tuttavia non subisce la pressione del gruppo fino ad avere un atteggiamento acritico nei riguardi degli orientamenti e dei valori del gruppo stesso. La personalità individuata è dunque una personalità matura, che si sente legata al suo gruppo, ma ragiona col proprio cervello. Il contrario dell’individuazione è la “deindividuazazione”, cioè la condizione di chi subisce passivamente la pressione del gruppo, di cui condivide acriticamente orientamenti e valori. La personalità deindividuata era la norma nelle società primitive, dove le tradizioni costituivano per tutti un punto di riferimento granitico, che non poteva assolutamente essere messo in discussione. Sarebbe tuttavia un grave errore pensare che deindividuazione sia una caratteristica esclusiva delle società primitive. Basti pensare alla Germania nazista, apparentemente uno degli stati più evoluti della terra, in cui la deindividuazione aveva raggiunto un livello altissimo. In questo senso l’esempio dell’Olocausto è significativo. Milioni di tedeschi passivi di fronte all’antisemitismo che permeava la loro cultura e di fronte all’autorità criminale che faceva leva su questo antisemitismo. Per le personalità deindividuate i pregiudizi sono verità assolute, di cui è impensabile dubitare, e la razionalità è una condizione mentale sconosciuta e inimmaginabile. Non c’è bisogno che faccia rilevare quanto sia importante che la scuola favorisca al massimo nei giovani il processo di individuazione. Il comportamento di generalizzata acquiescenza del popolo tedesco nei confronti dell’Olocausto può essere un ottimo punto di partenza per raggiungere tale obiettivo.

Il problema della coerenza

Ho sempre pensato con stupore ai militari tedeschi che prestavano servizio nei campi di concentramento. Terminato il loro orario di lavoro, questi uomini tornavano alle loro case, alle loro famiglie, giocavano con i loro figli e se li coccolavano, senza pensare che i loro bambini erano come quelli ebrei che, durante la giornata, avevano portato nelle camere a gas. Come era possibile? Come potevano l’antisemitismo, l’obbedienza all’autorità, la deindividuazione, produrre una situazione psicologica così assurda, così mostruosa? Verrebbe facilmente da pensare che si trattava di pazzi. Ma sarebbe una spiegazione semplicistica. In realtà, erano in genere individui, per così dire, normali. Amavano la loro famiglia, avevano degli amici, andavano in chiesa, leggevano, si dedicavano ad attività sportive…E allora? Si pensa di solito che la mente umana sia costituita da un insieme organico, integrato, di elementi cognitivi coerenti fra di loro. Di modo che, per esempio, un individuo non pensa che la mela sia un frutto e nello stesso tempo che sia un animale. Ma la psicologia ci insegna che le cose non stanno così. Se da un lato c’è indubbiamente nella nostra mente una generale tendenza alla coerenza, altrettanto indubbiamente questa coerenza spesso non viene raggiunta. La ricerca psicologica ha evidenziato le strategie che gli esseri umani mettono in atto per neutralizzare la tensione che deriva dalla consapevolezza di una contraddizione. La strategia fondamentale consiste nell’isolare, per così dire, le idee che sono in conflitto, in modo che non comunichino tra di loro, in modo da evitare il loro confronto. Si creano così dei “compartimenti stagni”. Per esempio, si può tenere in compartimento l’idea dell’amore per il prossimo e in un altro l’idea dell’obbedienza all’autorità, o della natura diabolica e subumana degli ebrei, senza far comunicare, o almeno senza far comunicare adeguatamente, tra di loro i due compartimenti. Detto in parole semplici, si rinuncia a ragionare fino in fondo.

Il significato della razionalità

L’irrazionalità può essere rilassante. Gli psicologi parlano di dissociazione, oppure di dissonanza cognitiva. Bisogna spiegare bene ai giovani questo fenomeno. Bisogna spiegare bene che dobbiamo fare in modo che le varie parti che costituiscono il nostro Io comunichino fra di loro. Dobbiamo abituarci a parlare con noi stessi. L’analisi dell’Olocausto permette di capire certi aspetti fondamentali della natura umana. In particolare, l’Olocausto è un esempio di genocidio. La sua analisi, quindi, è particolarmente adatta a far capire quegli aspetti della natura umana che sono importanti per quel che riguarda qualsiasi tipo di convivenza multietnica. Di fatto, tutti i fenomeno psicologici che ho descritto sono interconnessi e tutti riguardano, direttamente o indirettamente, lincapacità di ragionare. La scuola deve far capire ai giovani che la razionalità  spinge all’apertura nei riguardi degli altri, dei diversi, e al confronto con loro. Questo significa, naturalmente, che tutto ciò che è diverso vada accettato. Ma significa che dobbiamo sforzarci di analizzare e valutare il diverso con lucidità, obiettività e onestà, con un costante atteggiamento critico anche nei riguardi del nostro sistema di orientamenti e di valori.


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Francesco Robustelli è incaricato di Ricerca presso l’istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR. Ē stato Research Associate presso l’Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University di New York e di docente di Psicologia comparata presso l’Università “La Sapienza “ di Roma. Ha condotto ricerche nel campo della psicologia comparata, della memoria, dell’apprendimento, dei rapporti fra evoluzione biologica e culturale, degli atteggiamenti nei riguardi della morte, dell’aggressività e del disagio psicologico dei pazienti nel servizio sanitario pubblico. Ē il rappresentante per l’Italia di una rete internazionale dell’UNESCO per l’educazione contro la violenza. Con la collaborazione di Camilla Pagani e Dario Salmaso ha creato un sito web dedicato alle tematiche relative alla violenza. Il sito è aperto a tutti, in particolare a studenti e insegnanti:

http://wwwistc.ip.rm.cnr.it/seville/.

Francesco Robustelli, “La lezione dell’Olocausto”. Da “Psicologia Contemporanea”, n. 170,

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