Patria indipendente
Quei giorni del 1945 a Parma
“Sì, mi hanno arrestato e torturato. Ecco come…”
di Armando Barone
Credo che il miglior modo da parte mia per celebrare, ancora una volta, l’appena trascorso 25 aprile, sia dare una testimonianza del mio arresto e delle torture da me subite a Parma nel marzo del 1945. Sono passati sessantadue anni, ma il ricordo è sempre terribilmente vivo. Sono momenti che hanno inciso profondamente sulla mia vita, facendomi capire a quali forme di aberrazioni possa arrivare una dittatura. A parte le sciocchezze dei vari De Felice, Della Loggia e Pansa, specie di quest’ultimo, tutto preso dal dramma del sangue dei vinti dell’immediato dopoguerra, quei cittadini di Parma poco distratti – che, passando per via Cavestro, alzando lo sguardo per leggere la lapide, che, anni fa, è stata murata sull’edificio che ospita l’università di Parma, a ricordo di molti partigiani e patrioti, nelle cui cantine erano stati rinchiusi e torturati – forse penseranno o si ricorderanno che c’è stata una Resistenza contro la barbarie nazifascista. La stessa strada è dedicata a Giordano Cavestro, il partigiano ventenne fucilato dai tedeschi autore di una bellissima lettera, scritta pochi istanti prima della sua morte, che è stata degnamente ricordata da Piero Calamandrei nel suo famoso libro Uomini e città della Resistenza. Il mio arresto da parte dei fascisti era avvenuto il mattino alle 10 del 5 marzo mentre uscivo dalla scuola che si trovava vicino a casa mia. Chi mi aveva arrestato era un losco figuro di Parma di cui mi sfugge il nome e che fu poi fucilato dopo la Liberazione. Fui condotto immediatamente nella sede degli uffici amministrativi dell’Università di Parma e rinchiuso in una fetida e squallida cantina. Per dormire c’era per terra un po’ di paglia e per le necessità fisiche una vecchia latta che aveva contenuto delle acciughe sotto sale. Nella cantina eravamo in quattro: io, un commissario di pubblica sicurezza di cui mi sfugge il nome, un certo Camuti, impiegato al palazzo dell’agricoltura, ed un povero cristo afflitto da tracoma. Nessuno parlava. Verso l’imbrunire avrebbero dovuto cominciare gli interrogatori. Difatti verso le otto di sera un brigatista nero venne in cantina a prelevare il Camuti. Egli era un uomo sui cinquant’anni, molto incerto ed indeciso nelle sue scelte. Dopo qualche minuto che il Camuti si trovava di sopra nell’ufficio della brigata nera si erano cominciate a sentire delle urla disumane. Erano iniziate le prime torture. Le urla durarono una ventina di minuti per poi gradualmente affievolirsi fino a cessare del tutto. Poco dopo mezzanotte il Camuti fu riaccompagnato nella cella dallo stesso brigatista che lo aveva prelevato. Le sue condizioni erano pietose: non un essere umano, ma un ammasso di sangue che di tanto in tanto urlava di rabbia, dolore e rassegnazione. Ci guardammo ammutoliti pensando a quella che sarebbe stata la nostra sorte. Chi sarebbe stato il prossimo? Poco dopo, sempre lo stesso brigatista prelevò me. Afferrandomi violentemente per un braccio mi condusse sopra al primo piano in una grande sala nel cui mezzo c’era un tavolo quadrato attorno al quale sedevano un certo Maestri, un impiegato della Provincia, un tipo piccolo ed insignificante dallo sguardo poco rassicurante, torvo e vendicativo. Accanto a lui sedeva il boia, un certo Cavatorta, uomo corpulento dallo sguardo completamente assente ed ottuso. Incominciato l’interrogatorio, il Maestri voleva sapere da me cose alle quali ero completamente estraneo. Alle mie risposte negative volgeva lo sguardo al Cavatorta, il quale cominciò a prendermi a calci ed a schiaffi. Più mi mantenevo nella negativa, più egli sfogava contro di me tutta la sua forza bruta. Ad un certo momento mi legò mani e piedi, raggomitolandomi per passarmi in mezzo alle gambe un ferro alle cui estremità erano fissati alcuni fili della corrente elettrica. Ogni qualvolta io negavo, sempre ad un cenno del Maestri, dava la scossa elettrica da farmi sobbalzare come se il cuore mi volesse scoppiare. Tra i tanti nomi che il Maestri voleva sapere c’era anche quello del latinista professore Ferdinando Bernini che io allora non conoscevo affatto e che si era dato alla macchia. Spesso durante l’interrogatorio interveniva un certo Cortellini, facendo sfoggio di una pseudo-cultura, tutta fatta della più bolsa e stupida retorica fascista. Per lui io ero un traditore che aveva rinnegato la grande causa fascista, che aveva fatto dell’Italia una grande potenza a difesa dei valori della civiltà romana, sempre viva ed operante. Dopo un simile predicozzo anche lui invitava il Cavatorta a riprendere le torture che in genere consistevano sempre nelle scosse elettriche. Ma tutto era completamente inutile anche perché, come avevo già detto, quello che volevano sapere era da me completamente ignorato. In sostanza il loro interrogatorio era un insieme di rabbia, di odio e vendetta considerati fine a se stessi, che non avevano nulla a che vedere con quelle che avrebbero dovuto essere le mie responsabilità, e precisamente quelle responsabilità che a me erano del tutto estranee. In definitiva ero stato arrestato non perché responsabile di veri e propri fatti, ma perché ero un uomo libero che aveva fatto della libertà la propria ragione di vita. L’interrogatorio era finito verso le due del mattino. Quando fui riaccompagnato in cantina ero più morto che vivo. A stento mi reggevo in piedi e non facevo che orinare sangue. I miei compagni volevano conoscere i particolari del mio interrogatorio, ma io mi ero chiuso nel più assoluto silenzio: non avevo più nulla da dire. Avevo ubbidito alla mia coscienza di uomo libero ed indipendente. Raccontare loro quello che avevo subito e quello che avevo detto, lo ritenevo del tutto inutile. Ma il giorno dopo le cose erano completamente cambiate. Il commissario di pubblica sicurezza era stato liberato. Il Camuti era stato trasferito nelle carceri locali, dove successivamente sarei stato trasferito anch’io e rinchiuso in una cella d’isolamento in attesa dell’interrogatorio che avrei dovuto subire da parte dei tedeschi. Per rompere la monotonia avevo chiesto al direttore del carcere di avere in prestito una Divina Commedia con o senza note, ma egli mi rispose che non era possibile. E così per una settimana vissi nel più assoluto silenzio, incerto sulla mia sorte. Passavo il tempo in attesa di mangiare la solita sbobba calda ed insapore, dagli incerti ingredienti, facendo il bis verso le cinque del pomeriggio. Un giorno era venuto il prete addetto alle carceri per chiedermi se avessi bisogno di qualche cosa. Alla richiesta di avvisare i miei della mia situazione perché mi mandassero anche qualche cosa da mangiare, vigliaccamente mi rispose che non poteva favorirmi. Era un uomo che aveva paura della sua ombra. Dopo la fine della guerra gli rinfacciai tutto e lui cercò di giustificarsi balbettando inutili frasi di circostanza. Dopo una decina di giorni dal mio arrivo in carcere, fui trasferito in una cella comune dove incontrai alcuni miei compagni. Dopo venti giorni circa io ed un altro mio compagno di cella, Eugenio Giandebiaggi, fummo legati con uno spago e fatti salire su un camion assieme ad altri e fatti partire per il campo di concentramento di Bolzano. Si era caduti dalla padella alla brace. Il campo di Bolzano era quanto di più triste e disumano potesse esistere. Era diviso in blocchi arredati con letti a castello, dove si dormiva alla meno peggio. I morti erano il “condimento” di ogni giorno. In particolare le morti erano molto frequenti in un padiglione isolato dagli altri. I superstiti erano continuamente sottoposti alle pene dell’inferno. Forse noi stavamo un po’ meno peggio di loro. Il cibo consisteva in una gavetta piena di orzo bollito senza sale sia a mezzogiorno che alla sera. Per tutto il giorno ci davano una sola pagnotta nera come il carbone. Nel campo regnava il sospetto più assoluto. Invidia, odio ed egoismo si erano impossessati quasi di tutti gli internati. Diffidenza e sospetto erano le uniche armi della nostra difesa in attesa che un giorno o l’altro si potesse uscire da quell’inferno di vivi. Ma quando ormai tutto sembrava essere finito ecco arrivare la notizia della liberazione. L’armata tedesca dell’Alto Adige, si era arresa agli alleati. Da allora sarebbe cominciata una lunga via crucis che si sarebbe conclusa con il nostro arrivo a casa
Patria indipendente, maggio 2007