Patria indipendente

Figlia del tenore Nicola ucciso alle Ardeatine, ora è Presidente dell’ANFIM

Rosetta Stame, con l’ostinazione di sempre alla ricerca di giustizia

L’ultima visita a Regina Coeli. Partirono per le Fosse alle due del pomeriggio. La premonizione della Tosca

 

di Daniele De Paolis

 

«Io c’ero quel pomeriggio, quando portarono via mio padre dal carcere di Regina Coeli. Ho visto tre camion coi teloni abbassati, ma si capiva che erano strapieni perché ai lati erano rigonfi. Anche il cortile era zeppo, i tedeschi sembravano impazziti. Spianavano il mitra e urlavano “Kaputt! Kaputt!” a chiunque di noi osasse muoversi». È il 24 marzo 1944, Rosetta ha sei anni ed è la figlia del tenore Nicola Ugo Stame, messo in fila assieme ad altre 334 persone e trucidato alle Fosse Ardeatine, da lì a qualche ora. «Noi familiari, quasi tutte donne, madri e mogli con i bambini, come me e mia mamma, siamo stati costretti ad assistere impotenti alla loro partenza. Quando i camion si sono messi in marcia ho gridato. Ho chiamato forte mio padre e forse lui mi ha sentito, perché ho visto il tetto di uno degli automezzi che si sollevava. Non posso essere sicura che fosse lui, ma a me è sembrato che cercasse di rispondermi, di salutarmi per l’ultima volta». Nel recente Congresso, Rosetta Stame è stata eletta Presidente dell’ANFIM (Associazione Nazionale tra le Famiglie Italiane dei Martiri caduti per la libertà della Patria) che, a partire dal “Comitato 320” costituito all’indomani della Liberazione di Roma dai parenti delle vittime dell’eccidio ardeatino, ha raggruppato nel tempo i congiunti dei tanti italiani caduti nelle stragi perpetrate lungo la Penisola dalla barbarie nazifascista. «Mia madre, Lucia Zauli, era una delle vedove che diedero vita a quel nucleo originario – racconta Rosetta –. Oggi, dopo la scomparsa di Giovanni Gigliozzi, che per oltre trent’anni ha guidato con coraggio e determinazione la nostra Associazione, tocca di nuovo a una donna raccogliere quel testimone». La moglie di Nicola Stame collaborò anche con la commissione medica, guidata da Attilio Ascarelli, incaricata del riconoscimento delle salme. «Il dottor Ascarelli fece un lavoro straordinario, considerando i pochi strumenti che aveva a disposizione a quei tempi e le misere condizioni in cui furono rinvenute le spoglie dei caduti. E, quando si rese conto da alcuni dettagli che si stavano dissotterrando i resti di mio padre, ebbe la delicatezza di allontanare mamma con un pretesto». Nicola Stame, come gli altri, fu ucciso con dei colpi di arma da fuoco alla nuca, esplosi da distanza talmente ravvicinata che il capo si separò dal corpo. Tenore lirico drammatico al Teatro dell’Opera di Roma, apparteneva al gruppo “Bandiera Rossa” - Movimento Comunista d’Italia e, richiamato nell’arma dell’Aeronautica, all’indomani dell’8 settembre si occupò di mantenere i contatti tra le formazioni partigiane che operavano a Roma e le forze alleate ferme sul litorale a sud della Capitale. «Al ritorno da una di queste missioni, il 24 gennaio 1944, papà fu fermato in piazza Mignanelli e condotto prima a via Tasso, dove fu torturato, e poi al 3° braccio di Regina Coeli. Probabilmente fu seguito, perché era noto come antifascista». Stame, infatti, era stato già arrestato dai fascisti nel ’39, prima della dichiarazione di guerra di Mussolini. «Mi ricordo che diceva sempre che era impossibile entrare in guerra con quattro aerei, sempre gli stessi, che volavano da un aeroporto all’altro. Quando lo presero la prima volta, i fascisti fecero irruzione al Teatro dell’Opera mentre si provava la Turandot di Puccini, gli chiesero la tessera del PNF e, siccome non l’aveva, lo portarono via. Negli anni seguenti, poi, ogni tanto tornava a casa con qualche bernoccolo in testa». La tenacia nel difendere le proprie idee e gli ideali di libertà, il rifiuto davanti alle ingiustizie, a qualunque costo, con orgoglio, anche se si è costretti a pagare in prima persona, sono caratteristiche che Rosetta ha ereditato da suo padre. «L’ultima volta che lo abbiamo visto, mia madre con le mie due sorelle più piccole e me, fu in una celletta del carcere. Era ridotto in condizioni penose, dimagrito di almeno venti chili, sembrava un barbone, al punto che io non lo riconobbi subito mentre avanzava nel corridoio con le mani legate dietro la schiena». La visita a Regina Coeli risale a due settimane prima della sanguinosa rappresaglia. «Ricordo benissimo che papà era consapevole di rischiare la sua vita perché disse alla mamma: “Se non dovessi farcela, so a quale grande donna lascio le mie bambine”. Poi chiese di fargli avere pacchi con generi alimentari, ma tenendo presente che in cella erano in sei e tutto veniva equamente diviso, compresa la polvere per i pidocchi, da cui erano completamente infestati». Quel giorno, tra l’altro, era il compleanno di una delle sorelline di Rosetta. «Il secondino che ci sorvegliava, doveva essere un altoatesino, capì qualcosa dalle nostre parole e si allontanò ritornando con un bel pan di Spagna che posò sul tavolaccio che stava sotto una finestrella. Erano i tempi della borsa nera, noi avevamo dato via anche la biancheria di casa per portare qualcosa da mangiare a papà. Però io non volevo accettare nulla da quelli che tenevano prigioniero mio padre. Cercarono di convincermi, ma io quel dolce non lo mangiai». L’ostinazione ingenua di quella ragazzina di sei anni, “irriducibile” come solo i bambini sanno essere, è un attributo che Rosetta Stame ha conservato anche crescendo, quando per tutto il periodo dell’adolescenza rifiutò di credere alla fine di suo padre e, sulla scia dei tanti racconti di guerra, lo immaginava deportato in Germania ai lavori forzati e poi, sano e salvo, con una nuova famiglia chissà dove. Stessa testardaggine, quando, una volta, cacciò di casa Carla Capponi che andava spesso a trovare la sua famiglia. E ancora quando prese coscienza che il dolore non può essere solo commiserazione – «perché così non si sopisce mai» – e trasformò la sua rabbia privata in azione. «Stavamo andando in macchina e rinfacciai a mia madre di non avermi fatto dare l’ultimo saluto al mio povero papà quando lo ritrovarono. Lei ebbe uno scatto impetuoso, mi fece fermare e, tra le lacrime, mi rivelò che sollevando un lembo della sua camicia per baciarlo, aveva trovato il vuoto. Il torace schiantato dalle percosse, se fosse sopravvissuto, mio padre non avrebbe potuto più cantare». Dopo l’estradizione dall’Argentina di Erich Priebke, uno dei responsabili del massacro delle Cave Ardeatine, colui che, lista alla mano, regolava il flusso delle esecuzioni, Rosetta Stame è stata uno dei testimoni chiave al processo contro il Capitano delle SS. Fu lei ad alzarsi in piedi e ad urlare che non accettava la sentenza quando, in primo grado, Priebke fu condannato a quindici anni di reclusione e, per effetto di attenuanti e condoni, il boia nazista stava per tornare libero. «A quei tempi mi era stato affibbiato il ruolo della nuova gappista, che non vuole dimenticare né perdonare. Priebke in una sua autobiografia, pur riconoscendo la tragedia familiare che avevo subìto da bambina, mi ha dipinto come un’esaltata». Nel 2003, Erich Priebke l’ha addirittura querelata perché in televisione lo aveva definito il “torturatore” del padre e Rosetta è stata condannata ad un risarcimento di 3.000 euro per diffamazione. «Ma nel procedimento d’appello contro questa sentenza vergognosa ho portato le prove di quello che avevo affermato nell’intervista: due documenti degli Anni 50, conservati dall’ANFIM nel caveau della Banca di Roma, in cui il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e la Presidenza del Consiglio, nel conferire la Medaglia d’Argento al Valor Militare a Nicola Ugo Stame, scrivono a chiare lettere che mio padre subì atroci sevizie in via Tasso, dove Priebke operò in prima persona, come è stato accertato grazie a numerose testimonianze». Rosetta Stame in questi anni ha accompagnato spesso gruppi di studenti in visita al Sacrario delle Fosse Ardeatine, in occasione dell’anniversario della strage e durante tutto l’anno scolastico. «Il dolore per l’atroce morte di mio padre oggi è finalmente sopito. E quando risento la sua voce col pensiero, la mente corre all’unica occasione in cui ho potuto vederlo sulla scena, al Teatro dell’Opera. Era la prova generale della Tosca di Giacomo Puccini, mia madre mi aveva portato facendomi promettere che non avrei detto nulla alle sorelline più piccole e che sarei stata buona e zitta. Guardai e ascoltai tutta la rappresentazione quasi senza tirare il fiato, papà interpretava Cavaradossi. Al momento della sua uccisione, però, mi sono spaventata e ho urlato forte per l’angoscia. Papà quella volta era vivo e, in camerino, mi prese in braccio e riuscì a calmarmi. Ricordare quegli istanti, oggi, è per me una gioia e una sofferenza».

Patria indipendente, 8 aprile 2007

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