Patria indipendente

Una strana colonia di rastrellate straniere

Chi erano quelle donne recluse ad Alberobello?

Il mistero mai chiarito fino in fondo. Furono armate e spedite in Dalmazia. Era il gennaio del 1947

 

di Vito Antonio Leuzzi

 

La Puglia, una delle prime regioni ad essere liberate, fu utilizzata dagli alleati, all’indomani dell’8 settembre 1943, come una immensa retrovia per i problemi logistici connessi alle operazioni militari sul fronte Adriatico e su quello dei Balcani. Un ininterrotto flusso di profughi si riversò nella regione. Tra i primi a dirigersi verso Bari, anche per le notizie diffuse da Radio Bari e Radio Londra, gli ex internati dei campi di concentramento disseminati tra Puglia, Lucania, Calabria, Molise, Abbruzzo e Lazio. Nel corso della guerra, tra il 1940 ed il 1943, nelle regioni meridionali furono deportati migliaia di jugoslavi dei territori annessi (le nuove province italiane di Lubiana, Spalato, Cattaro) o delle vecchie province italiane di frontiera (Fiume e Gorizia) ritenuti “persone pericolose per le contingenze belliche” che furono collocati assieme a oppositori politici, antifascisti, ebrei, zingari, testimoni di Geova e pentecostali. Per accogliere un massa sempre più numerosa di profughi tra il 1943 e il 1946 si utilizzarono ex campi di concentramento di Manfredonia (ex macello comunale), delle Isole Tremiti (ex colonia penale per gli antifascisti ed ex campo di concentramento sin dalla guerra di Libia), di Alberobello (masseria Gigante), di Pisticci e Ferramonti Tarsia (colonie confinarie costruite dalla ditta Parrini) e diverse località delle costa salentina, tra cui Santa Maria al Bagno e Santa Maria di Leuca. Nel contesto della sistemazione dei rifugiati dell’altra sponda dell’Adriatico si evidenzia l’organizzazione di consistenti nuclei femminili, tra cui le ex internate slave, che furono addestrate nei campi profughi di Altamura-Gravina e di Manfredonia ed inviate sulla costa dalmata, nei primi mesi del 1944, per missioni molto rischiose. La loro permanenza nella località dell’Alta Murgia barese ed in Capitanata è ricordata da alcuni testimoni anziani perché per la prima volta si assisteva al passaggio nelle strade delle due città, di donne organizzate in formazioni militari, armate di tutto punto. Il flusso di profughi stranieri soprattutto ebrei, tra i quali molti sopravvissuti ai campi di annientamento nazisti, s’intensificò tra il 1946 ed il 1947. In Puglia per la loro accoglienza furono approntati a Bari (campo profughi Torre Tresca, ex campo di concentramento militare) e nel Nord-barese (Palese, Trani, Barletta) altri campi gestiti prima dall’UNRRA e poi dall’IRO. Agli ebrei stranieri si aggiunsero profughi jugoslavi, albanesi, polacchi che non condividevano il nuovo corso dei regimi comunisti, ed italiani rimpatriati da diverse località del Mediterraneo (isole dell’Egeo e dello Ionio) e dalle zone di confine con la Jugoslavia (Istria e Dalmazia). Tra le diverse vicende dei profughi stranieri s’impone all’attenzione il trasferimento nell’ex campo di concentramento fascista ad Alberobello di oltre cento donne (alcune con neonati o bambini piccoli) di diversa nazionalità: slave, greche, albanesi, polacche, ungheresi, tedesche che, trovate prive di documenti dopo la liberazione, furono internate a Fossoli. Il loro arrivo nella città dei Trulli nel gennaio del 1947 (furono trasferite nell’agosto successivo nel campo profughi di Fara Sabina in attesa del loro rimpatrio o dell’emigrazione all’estero) mobilitò l’intera stampa nazionale allertata dal “calvario infinito di queste sventurate”. Nel reportage di Manlio Spadaro, “Ad Alberobello le recluse attendono l’ignoto”, pubblicato il 18 e 19 gennaio di quell’anno sul quotidiano La Voce, si legge: «Provenienti da campo di Fossoli vanno nella notte nera fredda verso Alberobello. È una spettrale stazione sperduta nella neve e nell’oscurità sotto un cielo basso e torbido, per queste “signorine” indolenzite, battenti i denti pel freddo, nervose, capitate lì nel cuore della notte sotto un vento gelido. Al di là del cancello della stazione c’è un frastuono di autocarri e di camionette i cui fari spazzano la neve in un pulviscolo tumescente. Squittano l’auto del Questore di Bari che va su e giù. I carabinieri della scorta si scambiano le consegne con quelli del campo [...] E così la scuola Agraria di Alberobello invece degli studenti amanti dell’agricoltura, ha visto una strana colonia di rastrellate straniere e chissà per quanto tempo ancora continuerà ad ospitare in numero sempre crescente questi relitti di guerra. Le nuove ospiti menano una vita da detenute. Passano il loro tempo nelle camere leggendo, schiccherando, scrivendo ai loro cari lontani o passeggiando – non oltre il tramonto – nei viali recintati. Alcune lavorano per espressa domanda in cucina, e sono retribuite. Quelle invece che passano tutto il giorno sdraiate in ozio sulle brandine, chiuse in una ostinata rivolta, sembrano tanto infelici e depresse. Il rovello della vita coatta, le isola in un odio che quasi le sfigura [...] A guardarle tutte insieme queste ragazze, si affacciano alla mente gli spettacoli di colore della guerra che tutti abbiamo visto e che vanno scomparendo dalla memoria. Ognuna di esse ha una storia, è un palpitante romanzo, e un monito [...]». La vicenda delle “recluse di Alberobello” ispirò nel 1949 il film del regista ungherese Geza von Radvany, Donne senza nome-Le indesiderabili (titolo dell’edizione francese Femmes sans nom), con la sceneggiatura di Corrado Alvaro e Liana Ferri e l’interpretazione di noti attori tra i quali Simone Simon, Francoise Rosay, Valentina Cortese, Irasema Dilian, Gino Cervi e Mario Ferrari. La vicenda dei profughi in Puglia, con un dopoguerra anticipato rispetto al resto del Paese, in particolare degli ebrei scampati alla furia nazista che si erano trasferiti in questa regione, in attesa di poter raggiungere la Palestina, aveva ispirato un anno prima (1948) un altro film, Il grido della terra di Duilio Coletti, con la sceneggiatura di Carlo Levi, interamente girato all’interno del campo IRO di Palese, alle porte di Bari. All’indomani dell’8 settembre 1943, l’opera di accoglienza costituì tra luci ed ombre, uno dei tratti peculiari della società meridionale nel difficile processo di transizione dal fascismo alla democrazia, dalla guerra alla pace (Cfr. La Puglia dell’accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel ’900, a cura di Vito Antonio Leuzzi e Giulio Esposito, Progediti, Bari 2007).

Patria indipendente, 11 marzo 2007 

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