Patria indipendente

Partigiana tra i monti del Burano

 

di Walkiria Terradura

 

Ricordo quella notte di gennaio come un incubo: la nostra casa circondata dalla polizia fascista, i ripetuti colpi battuti sulla porta d’ingresso e le grida e le minacce con le quali ci intimavano di aprire. Mio padre, nonostante fosse stato avvertito di sospetti movimenti dell’OVRA da Perugia verso Gubbio e quindi di stare in guardia, non aveva raccolto il consiglio pensando che la neve caduta incessantemente per tutto il giorno e il gran freddo potessero costituire una remora anche per i suoi persecutori: inoltre gli avvertimenti pervenutigli negli ultimi tempi si erano rivelati spesso infondati, e sperava che fosse così anche quella volta. Invece quella notte i fascisti erano venuti: i colpi alla porta e le minacce divenivano sempre più pesanti ed era certo che ben presto sarebbero riusciti ad entrare. Si sentiva in trappola, ogni via di uscita gli era preclusa, né poteva pensare di fuggire dalle finestre prospicienti il parco Ranghiasci perché – anche da quella parte – la casa era del tutto circondata. Era furioso contro se stesso e ora non sapeva proprio cosa decidere. Decisi io per lui. Avevo improvvisamente ripensato alle nostre scorribande infantili nel sottotetto di casa e gli avevo ricordato di avergli detto più volte quanto fosse difficile, e talvolta quasi impossibile, penetrare da una soffitta all’altra. I Duchi di Urbino, in tempi ormai lontani, avevano deciso di unire tre fabbricati contigui al loro palazzo per ricavarne un unico edificio e infatti ben presto erano stati congiunti l’uno all’altro con delle sapienti soluzioni murarie e con delle grosse travi che ne assicuravano la staticità. Le soffitte dei tre fabbricati originali erano però rimaste disgiunte e si poteva accedere da una all’altra solo strisciando sotto quelle travi di congiunzione. Aiutai quindi mio padre ad infilarsi nella soffitta che speravo più sicura, a prezzo di acrobazie che ancora oggi ritengo quasi impossibili perché la volta della stanza era molto alta e non disponevamo neppure di una scala a pioli. Quando i fascisti riuscirono ad entrare in casa, resi furiosi dalla lunga attesa e dal freddo, lo cercarono ovunque, ma inutilmente, persino nelle cappe dei quattro camini di cui la casa era dotata. Pensarono allora di cercarlo in soffitta, l’unico luogo in cui inspiegabilmente non avessero ancora guardato: i fascisti però non conoscevano la storia di quell’antica costruzione e tanto meno le sue anomalie e penetrarono attraverso l’unica botola visibile, nella prima delle tre, dalla parte più estrema della casa, lontana dal punto dove mio padre era nascosto. E infatti non riuscirono a trovarlo. Dopo otto ore di ricerche, furibondi per l’insuccesso, finalmente se ne andarono. Quando tutto ritornò silenzioso e tranquillo mio padre ed io (che ero ormai ben conosciuta – e quindi in pericolo – per le mie idee ostili al fascismo, manifestate spesso, sia a scuola che altrove), ci mettemmo in cammino per Burano, una zona tra i monti da sempre dimenticata e negletta, intersecata qua e là da stretti sentieri percorribili a piedi o a dorso di mulo, una mèta che da sempre avevamo valutato e discusso. Qui, intanto, erano affluiti molti altri fuggitivi e ben presto nacquero le prime formazioni partigiane dell’alta Umbria e delle Marche. E anch’io divenni partigiana. Imparai ad usare le armi in attesa di adoperarle al momento opportuno. Samuele Panichi e mio padre, rispettivamente comandante e commissario politico di un gruppo appena costituitosi, individuarono ben presto alcune case abbandonate che con un po’ di perizia e tanta fatica, riuscirono a rendere abitabili; poiché in ognuna di esse vi era già un camino, non fu difficile predisporre anche una cucina dove preparare qualche pasto caldo. Un partigiano si offrì di fare il cuoco e gliene fummo grati perché pochi tra noi avevano predisposizione per tale lavoro ed oltre tutto era faticoso cucinare per trenta o più persone, anche se il pasto consisteva spesso in una sola minestra condita con un pezzo di lardo. Ben presto non fui la sola donna del gruppo: mi raggiunsero mia sorella Lionella, appena liberata dai fascisti dalle carceri di Perugia, Rosina Panichi, la solida e infaticabile figlia di Samuele, Iole, una ragazza proveniente dalla Repubblica di San Marino, e infine Rita, la giovanissima sorella di un partigiano di Mercatello. Anche se all’inizio i compagni ci guardavano con sospetto (di cui non c’era da stupirsi, considerata la cultura maschilista dell’epoca) presto si convinsero che anche le donne erano all’altezza dei compiti che il difficile momento richiedeva. Furono molto sorpresi dalla nostra abilità nel raccogliere informazioni – che si rivelarono preziose – specie dai fascisti che sostavano con i loro convogli nelle cittadine dei dintorni, e cioè se vi si trovassero di passaggio o per organizzare azioni punitive contro i ribelli. Come parte integrante del gruppo anche noi donne avemmo, come era logico e giusto, i nostri turni di guardia: nelle sere più rigide sentivo il freddo penetrarmi nelle ossa e speravo che arrivasse il cambio prima del previsto, ma tale mia speranza restava sempre delusa. Alle donne spettava anche il compito di andare in pattuglia e anche se meno pericoloso, ma certamente più faticoso, pure quello di recarsi alla sorgente a rifornirsi di acqua potabile per le esigenze del distaccamento. Durante il rastrellamento del maggio ’44 in cui truppe alpine tedesche specializzate nell’attività antiguerriglia ci braccarono per 15 giorni senza riuscire ad agganciarci, tranne in rari casi che si risolsero in tragedie, vivemmo giorni di vero terrore perché gli attaccanti sparavano per ore su tutto e su tutti. Durante le fughe da un luogo all’altro, un giorno, verso l’imbrunire, mia sorella ed io fummo sorprese dai tedeschi nella casa di Costante a Cai Belli. Non fummo riconosciute, anche se avevano al loro seguito numerose spie, ma vivemmo ugualmente ore di indicibile ansia sino al giorno dopo, quando infine se ne andarono altrove. Comunque l’aver vissuto per ore sotto i loro occhi attenti che scrutavano ogni nostra mossa e che ascoltavano con sospetto anche le poche parole che ci scambiavamo, fu per me un incubo che mi portai dietro per anni La V Brigata Garibaldi “Pesaro”, di cui facevano parte anche tanti umbri perché operava ai confini tra le due regioni, Umbria e Marche, contava cinque battaglioni. Io appartenevo al 5°. Quando il mio distaccamento divenne più numeroso, fu necessario costituire delle squadre di sei o più elementi. La mia squadra, che chiamammo “il Settebello”, era composta da sette partigiani: Oreste, Carlo, Silvio ed io provenivamo da Gubbio, Gildo e Valentino da paesi vicini e Amedeo dalla Francia. Valentino era un ex militare e provetto guastatore e faceva saltare in aria, con rara maestria, i ponti che gli Alleati o il nostro Comando gli indicavano. Quando fu necessario decidere chi dovesse assumere la responsabilità della squadra io feci il suo nome perché mi sembrava il più adatto proprio per la sua esperienza di soldato, ma egli invece propose il mio. Tutti si dichiararono d’accordo e io ne fui molto sorpresa perché non immaginavo di godere di tanta stima e fiducia. Per solennizzare l’avvenimento Gildo mi regalò una pistola belga di medio calibro e nel consegnarmela mi disse: «Non è il dono più adatto, ma sono scusato dalle circostanze. Avrei voluto regalarti dei fiori, ma ormai siamo fuori da queste regole di galateo e del resto,in questa stagione, è impossibile trovarne. È certo però che a primavera, galateo o non galateo, coglierò per te i più bei fiori di campo». E rise, certo per il pudore di ciò che aveva detto, del tutto in contrasto con il suo carattere ruvido e scontroso, alieno da ogni galanteria. Tenni quell’arma sempre con me sino a quando fui costretta a consegnarla alle autorità competenti, in rispetto alle leggi promulgate dopo la fine della guerra: avrei tanto desiderato tenerla in ricordo di Gildo che non ho più rivisto perché colpito a morte dai tedeschi al passaggio del fronte, a pochi chilometri dalla libertà. Un giorno Valentino ed io ci trovavamo nei pressi della cittadina di Apecchio per incontrarci con alcuni GAP locali, quando vedemmo sopraggiungere tre camion tedeschi, con sei militari a bordo, e cioè due per ogni cabina di guida. Erano appena entrati nel paese quando li vedemmo iniziare la manovra per tornare indietro. Certo avevano saputo che il ponte su cui avrebbero dovuto transitare era stato reso inagibile da un sabotaggio compiuto dai partigiani solo due giorni prima: quindi sarebbero passati tra poco a breve distanza da noi. Ero tranquilla anche se avevamo deciso di attaccarli, benché fossimo solo in due. Sapevo che la strada per Città di Castello, che spesso i tedeschi usavano in alternativa alla Flaminia perché meno soggetta agli attacchi aerei alleati, era in gran parte incassata tra i monti e difficile da percorrere se non a velocità limitata, essendo piena di curve: era quindi la strada ideale per gli agguati ai mezzi nemici, anche perché dopo l’azione dava la possibilità di ritirarsi rapidamente in luoghi impervi e sicuri. Vedemmo i camion venire avanti nella nostra direzione e, appena li avemmo sotto tiro, incominciammo a sparare. L’attacco fu per i tedeschi così inaspettato che solo alcuni di loro ebbero il tempo di imbracciare le armi e ce ne accorgemmo dal ridotto volume di fuoco con il quale risposero. Colpimmo in pieno uno di essi e lo vedemmo rotolare giù dalla cabina di guida, spinto dal camerata che gli sedeva accanto a cui certo impediva i movimenti di manovra. Ci furono altri feriti e dai camion, ormai immobilizzati, potemmo prelevare le armi e il materiale bellico che trasportavano, con l’aiuto di qualche civile e di alcuni carabinieri della locale caserma che erano da tempo nostri alleati e collaboratori. Decidemmo poi di andarcene prima che i tedeschi di stanza nella vicina Città di Castello, avvisati da qualche “simpatizzante”, giungessero in forze laddove era avvenuto l’agguato. Ci eravamo appena mossi per metterci al sicuro quando udimmo una nutrita scarica di mitraglia e dopo alcuni minuti infatti vedemmo i tedeschi appena sopraggiunti scendere dai loro automezzi e avviarsi nella nostra direzione. Io e Valentino ci spostammo di corsa e ci nascondemmo in un anfratto del terreno, in una specie di buca ricoperta totalmente da un groviglio di rovi e vitalbe, in cui ancora non so come riuscimmo a penetrare. Cominciarono a cercarci sparando e urlando incomprensibili comandi ai soldati che li seguivano. Cercarono a lungo e ovunque, finché li sentimmo parlare concitati quasi sopra di noi e tale fu la mia paura nel sentirmi così prossima ad essere catturata che come reazione sentii la lingua gonfiarmisi in maniera tale da non riuscire nemmeno a deglutire. Per nostra fortuna poco dopo desistettero dal cercarci e si ritirarono: stava sopravvenendo la sera e nelle loro carte topografiche la zona era contrassegnata con “Achtung Banditen” e non volevano quindi rischiare pericolose sorprese che il buio della notte avrebbe favorito. Facemmo allora saltare in aria il ponte ancora intatto e il paese rimase isolato e quindi al sicuro dalla reazione dei soldati nemici che non potevano certo penetrarvi con i loro carri armati e le loro autoblinde. La mia vita alla macchia fu una fatica continua per sopravvivere, una lotta impari in cui fui sorretta, come tutti, da una grande volontà di vittoria. Ho combattuto contro i tedeschi e contro i fascisti e sono orgogliosa di quella mia scelta perché so di aver contribuito anch’io a sconfiggere quelle dittature che allora soffocavano il mondo.

 

Il contributo delle donne italiane alla lotta antifascista durante il ventennio di dittatura e nella guerra di Liberazione

 

Dal 1922 al 1943 migliaia di donne furono arrestate e imprigionate per attività contro il fascismo e per la libertà: 124 donne furono condannate dal Tribunale Speciale a molti anni di carcere, 49 donne furono condannate da Tribunali Ordinari per attività antifascista, mentre 119 furono inviate al confino.

 

Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945:

• organizzate nei Gruppi di Difesa della Donna 70.000

• Partigiane combattenti 35.000

• Comandanti e Commissarie di formazioni partigiane e di Squadre di Azione Patriottica 512

• fucilate o cadute in combattimento 623

• deportate nei campi nazisti 2.750

• arrestate, torturate, condannate durante il periodo della Resistenza 4.635

• decorate di Medaglia d’Oro al Valor Militare (di cui 12 alla memoria) 19

• decorate di Medaglia d’Argento al Valor Militare 52

• decorate con la Stella d’Oro dal Comando delle Brigate Garibaldi 15

Patria indipendente, 11 marzo 2007

 

sommario