Patria indipendente
Gina Borellini, leggendaria figura della Resistenza, è deceduta in questi giorni
E “Kira” raccontava: «Così mi ferirono gravemente»
Coprì i compagni, una gamba amputata. Medaglia d’Oro e poi in Parlamento
di Daniele De Paolis
Il 2 febbraio scorso se n’è andata Gina Borellini, una delle pochissime donne italiane decorate dalla Repubblica con la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Sono infatti solo 19 le donne che ottennero l’altissimo riconoscimento per aver combattuto la lotta di Liberazione contro il nazifascismo, e per la maggior parte di loro si trattò di un tributo alla memoria. La partigiana “Kira” andò più volte a un passo dalla morte, suo marito venne fucilato, lei arrestata e torturata. Dopo l’8 settembre era stata staffetta e aveva dato aiuto ai militari sbandati, poi aveva scelto la via della montagna per unirsi alla Brigata “Remo”, che operava nella Bassa modenese. Era figlia di quella terra, ne aveva ereditato il carattere semplice ma deciso, l’intelligenza vivace insieme al coraggio e a una straordinaria umanità. Doti che emergono con limpidezza dalle parole con cui lei stessa ha ricostruito l’episodio in cui il 12 aprile 1945, durante uno scontro armato, venne gravemente ferita e perse una gamba. Quel racconto ve lo riproponiamo integralmente, assieme alla motivazione della sua Medaglia d’Oro (e delle altre 18 partigiane decorate). Fuori dalla retorica “ufficiale” che oggi forse fa un po’ sorridere, come il riferimento al “virile coraggio”, potrete comprendere la personalità di Gina e perché sarebbe poi rimasta per tutta la vita una donna della Resistenza. Il suo impegno continuò con la stessa passione anche nel dopoguerra in Parlamento, eletta dal 1948 nelle prime tre legislature della Repubblica. Presidente dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra di Modena, Gina Borellini dovette sostenere molte altre battaglie per far valere i diritti di chi durante il conflitto aveva pagato un prezzo enormemente alto. Soggetti divenuti improvvisamente deboli in un’Italia irriconoscente, attraversata da tentativi di restaurazione fascista. Gina Borellini fu anche una delle prime femministe del Paese, esponente dell’UDI, l’Unione Donne Italiane, e si batté con la determinazione che la caratterizzava per l’emancipazione e i diritti civili delle donne. Un suo intervento alla Camera dei Deputati smascherò l’ipocrisia di uomini politici dal passato oscuro, paladini della tradizione, Dio patria e famiglia: «Premiavano quelle numerose… distribuivano i premi di natalità… persino la fede dal dito alle spose hanno tolto… e poi le famiglie le hanno sterminate e dilaniate, in guerra e nei rastrellamenti». La partigiana “Kira”, che era nata il 24 ottobre 1919, si è spenta a 87 anni a Modena, città che non aveva mai abbandonato. Non c’è solo dolore nel darne la notizia ma anche la triste consapevolezza di aver perso una grande donna italiana.
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“Quando mancavano pochi metri a morire”
Ero entrata a far parte del GAP n° 3 da quando la Brigata Nera “Pappalardo”, di stanza a Concordia, mi aveva, insieme a mia sorella Maria, inopinatamente rilasciata (mentre mio marito lo avevano trasferito nelle carceri di Modena), per ripresentarsi pochi giorni dopo a casa mia con l’intento di arrestarmi di nuovo. Già dal marzo 1945 l’intensificarsi dei rastrellamenti, degli arresti e delle fucilazioni da parte delle Brigate Nere, gli scontri con fascisti e tedeschi avevano reso estremamente difficile e pericolosa la vita di tutto il movimento partigiano nella nostra zona e in tutta la pianura, rendendo pressoché impossibile ai partigiani continuare a vivere e ad operare nascosti in rifugi allestiti nelle stalle, nei fienili e nelle stesse abitazioni. I mezzadri, i coltivatori diretti, e non soltanto loro, che tante volte avevano sfamato e ospitato nelle loro case o nei loro fienili i combattenti, ora si trovano spesso nella impossibilità di continuare a farlo, poiché anche loro in molti casi venivano individuati e quindi subivano la stessa sorte dei partigiani e delle staffette. Questa situazione aveva imposto soprattutto ai GAP e alle SAP la necessità di cercare altre soluzioni, per giungere poi a costruire dei rifugi sottoterra nei campi – sotto erba medica, grano, ecc. – mentre verso la fine di marzo si organizzò il trasferimento sull’Appennino di molti partigiani, staffette e collaboratori della Resistenza fra i più compromessi. Per la montagna partirono anche le mie sorelle Zita e Maria. Nel GAP allora eravamo in 18, di cui tre polacchi e un austriaco, rifugiati in un buco sottoterra costruito appositamente di notte dai partigiani stessi nel podere dove lavorava a mezzadria la famiglia Ferrari Giuseppe, residente a S. Possidonio, via Secchia. Anche la vita del rifugio diventava sempre più pesante: i tedeschi in ritirata perquisivano le case e razziavano tutto quanto trovavano, mentre i fascisti imbestialiti, vedendo prossima la loro fine, ogni giorno facevano rastrellamenti minuziosi, per cui a noi era sempre più raramente possibile il contatto con le famiglie per ottenere informazioni, cibo e anche acqua per lavarci. La notte fra l’11 e il 12 aprile 1945 i gappisti uscirono per una azione; in rifugio rimasi io, perché indisposta, e il polacco “Pantofole”, il quale asserì che si sentiva male. Passata la mezzanotte, quando i compagni rientrarono e riferii loro che il “Pantofole” era uscito dal rifugio adducendo i dolori al ventre, sul momento la cosa non suscitò perplessità; ma non vedendolo rientrare dopo breve tempo, nell’esaminare la situazione si formularono le ipotesi più diverse: era stato arrestato? era andato da una delle nostre famiglie? Non ultima quella che ci avesse tradito andando alla Brigata Nera. Sono state, quelle, ore di forte tensione. Alle ipotesi si intrecciava la ricerca di cosa fare e dove andare; presso le nostre famiglie era impossibile; improvvisare altrove un altro rifugio, scavare un buco capace di accogliere tante persone in poco tempo era illusorio; anche uscire comunque dal rifugio non era molto raccomandabile. Infatti già alcune settimane prima, costretti a lasciare il rifugio dove eravamo allora, non trovando altro, andammo di notte a rifugiarci in un fienile all’insaputa del contadino e al levar del sole ci trovammo con un gruppo di tedeschi nel cortile della casa colonica in azione di rastrellamento. In quella circostanza la cosa finì bene e per puro caso. Intanto era stata disposta l’uscita di compagni, in gruppi alterni, per perlustrare la zona e se era possibile effettuare una verifica presso le nostre famiglie per rintracciare “Pantofole”. Al mattino del 12 aprile, alle ore 6 circa, uno del gappisti del gruppo in perlustrazione, Gandolfi “Micio”, passando vicino al rifugio ancora aperto disse: «compagni, ci sono i fascisti; uscite presto! “Pantofole” ci ha tradito, è una spia, sta arrivando assieme ai fascisti». Anche il contadino avvertì che i fascisti della Brigata Nera “Pappalardo” erano andati a cercare suo padre accompagnati da “Pantofole”. Come sapremo successivamente il compagno Bettoni, mio fratello Tonino e gli altri del gruppo, videro in lontananza la Brigata Nera avanzare fra gli alberi, e mentre “Micio” riusciva ad avvertire noi, gli altri partigiani aprirono il fuoco per attirare l’attenzione dei fascisti, nell’intento di facilitare la nostra uscita dal rifugio. All’interno del rifugio il comandante Armando Borsari dispose perché si uscisse uno alla volta. Mi pare che fu “Ciccio”, un altro polacco, ad uscire per primo. Non appena mise fuori la testa dal rifugio udimmo i primi colpi. Dopo “Ciccio” seguirono gli altri in ordine di posto. Di spazio ve ne era ben poco in quel rifugio: in piedi non era possibile starci, e muoverci tutti insieme era ancora più difficile. Venne il mio turno, ma nella confusione non mi riuscì di trovare una scarpa. Se ne sarebbe servito poi colui che mi colpì per portarla in giro al paese, quale prova a suo vanto, come mi dissero poi, per aver visto direttamente, Elsa Mucchi ed altre compagne. Fuori era veramente un inferno, le pallottole fischiavano da tutte le parti. I compagni usciti per primi sparavano con l’unico fucile mitragliatore che avevano e con le altre poche armi, mitra e fucili, rispondendo così all’invito dei fascisti di arrenderci. Eravamo pochi contro tanti (in circa 200 sono stati valutati i componenti della Brigata Nera), in una campagna spoglia. In quelle condizioni non fu possibile resistere molto. Alcuni compagni continuarono ancora a sparare senza muoversi per facilitare la ritirata degli altri. Il fuoco aumentava di intensità, i fascisti si erano avvicinati ancora di più, sparavano e urlavano come dei forsennati. Non avevo fatto 150 metri, quando m’arrivarono chiare all’orecchio queste parole: «È lei! Sparate sulla donna!». Non fu tanto la frase a colpirmi quanto la voce di chi l’aveva pronunciata. Era la voce del capitano della Brigata Nera Falanga, colui che mi aveva arrestata assieme al mio compagno e che assieme a lui mi aveva torturata. Era lui, il seviziatore di partigiani, responsabile di tanti rastrellamenti, l’uomo che venti giorni prima aveva fatto fucilare mio marito, e che pure a me avrebbe riservato la stessa sorte se non fossi riuscita a fuggire in tempo. In mezzo agli spari mi arrivò il grido concitato di un compagno: «A terra, Gina, buttati a terra!». Mi rialzai poco dopo e m’apprestavo a correre per sfuggire alla cattura dei fascisti. Ma non ebbi il tempo di fare un passo che una pallottola mi colpì una gamba. Subito ebbi chiarissima la sensazione di essere ferita gravemente; la mia gamba era tutta una scheggia dalla caviglia al ginocchio. Caddi per terra senza riuscire più a rialzarmi. Sentivo i compagni chiamarmi a bassa voce, invitarmi ad alzarmi, a proseguire. Non sapevano che ero ferita. Un’altra pallottola passò fischiando poco distante da me e mi parve colpisse in pieno un compagno (Ganzerla) che, strisciando, si stava avvicinando. «Sei ferito?» chiedo. «No! Non sono ferito, la pallottola è passata di striscio sulla cassetta metallica delle munizioni che ho sulla schiena. Vieni, Gina, alzati vieni via». «Non posso, sono ferita» rispondo. Diversi compagni mi vengono vicino per portarmi aiuto, per portarmi via. Ma avrebbero dovuto trasportarmi a braccia; se l’avessero fatto i fascisti avrebbero sparato su di noi come al tiro a segno, poiché eravamo in aperta campagna senza possibilità di nasconderci. Dissi ai compagni di non perdere altro tempo, ché tanto era impossibile: «Cercate di salvarvi, fate ancora in tempo!». Io ormai ferita e in quello stato non potevo permettere che gli altri affrontassero un pericolo tanto grande. Così i compagni si allontanarono e io rimasi sola. La sparatoria continuava e il sangue usciva abbondantemente dalla ferita. Non potevo finire prigioniera di Falanga per la seconda volta e per giunta ferita. Troppo avevo sofferto nei venti giorni di prigionia per potermi rassegnare a cadere di nuovo nelle mani di quegli assassini. Ero orgogliosa di essere riuscita durante il carcere a sopportare le torture senza parlare e tradire i compagni; ma ora sarebbe stata la stessa cosa? Non potevo saperlo… Ero ferita… Questo pensiero mi tormentava. Riflettevo, e una cosa mi appariva sempre più chiara; non dovevo a ogni costo farmi prendere viva; molto meglio sarebbe stato morire. Guardai la mia rivoltella, mi rimanevano tre colpi; ricordai allora quello che chiedevo talvolta ai compagni, cioè se un colpo di quelli alla testa sarebbe stato sufficiente per morire subito. I compagni rispondevano di sì e ridevano. Allora sembrava uno scherzo, ma adesso il problema si poneva in tutta la sua tragicità. Sì! Era molto meglio morire, tanto loro non mi avrebbero certamente risparmiato, e la forza per farlo l’avrei trovata pensando a quanto mi avrebbero fatto soffrire i fascisti prima di finirmi. Avevo tre colpi: due per il primo brigante nero che si fosse avvicinato, l’ultimo per me. E tutto sarebbe finito. Intanto gli spari diradavano, segno che gli altri partigiani erano riusciti ad allontanarsi. Seppi dopo che tutti i compagni riuscirono a sottrarsi ai fascisti e a mettersi in salvo; una parte passando il fiume Secchia e gli altri dirigendosi verso Pioppa e poi raggiungendo Cavezzo. Sentivo ancora vociferare, da non lontano m’arrivavano le parole di una voce ben distinta: «Dev’essere qui, l’ho colpita io, non può essere sfuggita, la pallottola era esplosiva». Io me ne stavo sdraiata nel campo, col grano che appena mi copriva il corpo, senza muovermi per non dare ai miei inseguitori segno di me, pronta a mettere in pratica il mio proposito appena qualcuno si fosse avvicinato. Un gruppetto di fascisti era arrivato fino a trenta, venti metri da me, io riuscivo a vederli di tanto in tanto e a seguire i loro movimenti. All’improvviso un milite chiamò il capitano avvisandolo di aver scoperto il rifugio. «Andiamo, – disse il capitano – tanto non può andare lontano la donna; la troveremo facilmente». Ebbi un sospiro di sollievo! Se ne andavano, c’era ancora una speranza di salvezza. Ma come fare? bisognava trovare aiuto, la casa più vicina era a più di un chilometro di distanza. Dovevo salvarmi; a tre chilometri c’era mio figlio in casa di mio padre, il mio Euro di appena cinque anni, gia orfano del padre. Era terribile pensare che anche la madre poteva venirgli a mancare in quel momento. Il pensiero di mio figlio mi tormentava. Insieme mi sembrava di riudire ancora la voce di mio marito: «Se uno di noi cadrà l’altro dovrà continuare la lotta». La lotta non era finita. Intorno a me era ritornato il silenzio, i fascisti se ne erano andati. Allora presi la rivoltella, me la misi in tasca e mi tolsi la cintura della giacca cercando di allacciarmi l’arto per fermare o rallentare possibilmente l’emorragia. Sentivo le forze diminuirmi. Il carcere, la vita dura del rifugio, il dolore per la perdita del mio compagno, la notizia di mio fratello Luigi di sedici anni in carcere: tutto ciò aveva influito duramente sul mio fisico. Il sangue se ne andava abbondantemente dalla ferita, eppure dovevo tentare di fuggire. Cominciai a trascinarmi carponi verso la casa sperando di trovare qualcuno che mi desse aiuto. Fu un tragitto faticoso e difficile; a volte non riuscivo a trovare la forza per continuare, cercavo di rassegnarmi ad aspettare la fine. Ma non potevo rinunciare a vivere, riprendevo un po’ di coraggio e ricominciavo a strisciare. Arrivai finalmente nei pressi della casa che avevo intravisto all’altezza della frazione di Bellaria. C’era un viavai di persone sulla strada, e io facevo segno con la mano non avendo la forza di chiamare. Passò circa mezz’ora prima che qualcuno si decidesse ad avvicinarsi. Ma ecco che già qualcuno viene verso di me e domanda: «Chi sei, un partigiano o un repubblichino?». «Sono un ferito – rispondo io a bassa voce – venite avanti». « Bene – dice lui continuando a camminare lentamente – chiunque tu sia, sei ferito…». Era un vecchio dalla barba bianca, di nome Antonio Ferrari, amico di mio padre. Mi aveva visto crescere, e visibilmente commosso disse: «Sei tu Gina in queste condizioni? Sta tranquilla ti porterò a casa mia, vado a chiamare mia figlia». Ritornò con la figlia, mi mise sopra un tagliere e mi portò a casa sua. Mandarono a chiamare il medico, ma lui non volle venire perché aveva paura, era appena uscito dal carcere dove i fascisti l’avevano rinchiuso con l’accusa di aver curato un partigiano, ed era vero. Le ore passavano e io soffrivo maledettamente. Bisognava andare in un ospedale con urgenza, ma con che mezzo? Macchine non ce n’erano, bisognava trovare un cavallo e un biroccio. Non fu facile trovarne, perché i tedeschi avevano requisito tutti i mezzi di trasporto. Comunque, alla fine fu trovato un biroccio e su quello partii verso l’ospedale di Carpi. Impiegammo molto tempo per arrivare; il cavallo, guidato da due donne (Gina Marchetti e Zelinda Cazzuoli), s’impauriva e non voleva più andare avanti con gli aerei che volavano a bassa quota. Ad aiutarci sul ponte Pioppa, perché il cavallo imbizzarrito scalpitava, intervenne spontaneamente un lavoratore del posto, Edmondo (o Edgardo) Malagoli di Rovereto, il quale insieme con le due donne mi accompagnò all’ospedale. Dopo aver superato il posto di blocco all’ingresso di Carpi, dopo sei ore dal combattimento, sul lettino della sala operatoria, credetti finalmente di essere al sicuro. Ma qualche cosa ancora doveva accadere. I fascisti tornati alla loro caserma erano riusciti a rintracciarmi. Non ascoltarono il professore il quale fece osservare che non potevo essere interrogata prima dell’intervento chirurgico. Volevano sapere quello che non erano riusciti a sapere da me, prima. Fui di nuovo interrogata, ma questa volta potei manifestare tutto l’odio che nutrivo per quei banditi. Era sera quando mi svegliai dopo essere stata operata; mi ricordai a fatica di tutto quello che era successo e ancora non sapevo di aver subìto l’amputazione della gamba. Ho desiderato morire quando me ne accorsi; non credevo di trovare la forza per sopravvivere. Il mattino del giorno 22 sono stata svegliata da una intensa sparatoria, mentre vedevo ricoverare dei feriti. I partigiani liberavano Carpi dai fascisti e dai nazisti ed io quel mattino ai piedi del mio letto in ospedale al posto dei fascisti ho trovato dei partigiani.
Gina Borellini “Kira”
Patria indipendente, 11 marzo 2007