Patria indipendente

Un comandante alpino morto con i partigiani nella ex Jugoslavia

Tenente Giuseppe Failla: il ritratto di un eroe

 

di Ilio Muraca

 

Con Giuseppe Failla eravamo coetanei, entrambi allievi di Modena, stessa compagnia, stessa poltrona, identico corso, il 184°, il primo senza nome, dopo una secolare fila di nomi altisonanti. Così, indispettiti per non averne, noi allievi ce ne eravamo dati uno, sottovoce, quello di “Stalin”, un segno premonitore di instabilità per quelle turbolenze che comunemente si avvertono nell’imminenza di un temporale che per noi allievi, fu l’armistizio dell’8 settembre ’43. Failla era piemontese, mi pare di Torino, ed era diventato alpino per vocazione, dopo le dure prove per ottenere quella specialità. Ci salutammo per l’ultima volta a Parma, entrambi assegnati alla ex Jugoslavia. La destinazione l’avevamo trovata dentro una normale busta gialla, posta sotto il piatto, come si fa per le letterine di Natale. La Jugoslavia, insieme alle isole dello Jonio, con Cefalonia, e dell’Egeo, era l’unico fronte rimasto ove poter esprimere la carica di genuino entusiasmo che avevamo raccolto in Accademia. Tanto che quelli di noi che si videro destinati ai presìdi metropolitani, uscirono da mensa col muso lungo, quasi di sottecchi, come avessero tradito la causa per la quale erano stati nominati ufficiali. Ricordo ancora Failla, nelle poche ore di svago, alto, elegante, con la sua schietta parlata piemontese ed indosso la divisa confezionata con stoffa “Principe di Piemonte”, la più costosa ed ambita da noi allievi, ma che non avremmo mai più indossata, perché l’altra, da guerra, era già pronta nelle cassette d’ordinanza, con gli scarponi chiodati ed i calzettoni grigioverdi. Da Parma persi le sue tracce, fino al giorno in cui me lo ritrovai inaspettatamente davanti in Bosnia, smunto, emaciato, sorpreso di essere capitato in un battaglione partigiano di tutti italiani. Mi raccontò il suo dopo-armistizio, col battaglione Exilles, impegnato a scontrarsi coi tedeschi che dilagavano in Albania dalla Romania, verso la costa adriatica, tallonando la divisione “Perugia” alla quale l’Exilles era stato assegnato. Si era ammalato di tifo petecchiale, con mesi di ospedale, e mi mostrò anche il colpo di una baionetta su una gamba, un livido taglio bluastro infertogli da un tedesco che aveva abbattuto con la pistola d’ordinanza. Al battaglione gli venne affidato subito un plotone e finimmo nel bel mezzo di una offensiva germanica che ci avrebbe spinto dalla Bosnia sino al Montenegro, dopo centinaia di chilometri a piedi e scontri quasi quotidiani. Lo vedevo sempre avanti ai suoi uomini, con il suo fare equilibrato da alpino. Quel 12 luglio del ’44,  che per lui fu fatale, eravamo appena scampati ad un accerchiamento, con i tedeschi che ci inseguivano da vicino e noi che ricalcavamo le loro orme, in un carosello. Quel pomeriggio, Failla ebbe il compito di retroguardia. Toccò al suo plotone, perché il mio lo aveva già svolto nella mattinata. Dalla collina vicina sentivamo venire gli “urrà” dei tedeschi che avevano sloggiato i partigiani. Quello era il suo obiettivo. Lo vedevo tranquillo e determinato, con una coperta spiegata sull’erba, distribuire un pizzico di tabacco per ciascuno dei suoi, la magra razione dei giorni duri. Gli fu detto che lo avremmo atteso fino a sera, al riparo in un punto preciso del bosco. Failla richiamò all’ordine i suoi uomini, che si caricarono delle armi e dei loro miseri zaini, e si avviò, come sempre, alla loro testa. Dopo circa mezz’ora udimmo dei ripetuti spari, e pensammo al contatto avvenuto. Poi la lunga attesa, oltre il convenuto, fino all’imbrunire, momento propizio per la consueta, lunga marcia notturna, perché sapevamo che col buio i tedeschi non osavano attaccarci. Ma nessuno di loro fu visto tornare e Failla ed i suoi vennero dati per dispersi. Dopo molti giorni, da alcuni scampati, sapemmo della fine del loro comandante. Una fine piena di dubbi, per il luogo ed il modo, che avrebbe lasciato i suoi familiari in Italia in anni di angoscia, impegnati in vane ricerche, fino in Bosnia. Essendo io uno degli ultimi ad averlo visto da vivo, ebbi con loro vari incontri, a Firenze, dove il reggimento “Garibaldi” si era acquartierato al ritorno in Patria. Ma potevo dire loro ben poco oltre a quello che sapevo. Finalmente, un testimone di quel giorno, riemerso dalle nebbie del passato, dichiarò loro che il sottotenente Failla, nel risalire coraggiosamente la collina, era caduto in un agguato dei tedeschi che, dalla cima, aspettavano gli italiani. Le prime raffiche avevano provocato lo scompiglio nel plotone e due uomini erano caduti rotolando giù per il declivio. Failla, nel vederli spasimare per le ferite, si era precipitato in soccorso ma una nuova raffica lo aveva abbattuto sul corpo di uno di loro. Alla memoria di Giuseppe Failla venne concessa, dopo la guerra, la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Patria indipendente, 18 febbraio 2007

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