Patria indipendente

Una “spia” nascosta a Roma ai tempi di Kappler

E il maggiore Tompkins sempre insieme ai partigiani

È morto in questi giorni in America. Da sempre viveva nella Capitale

 

di Massimo Rendina

 

Peter Tompkins è morto il 24 settembre a Shepherdstown, non molto lontano da Washington. Il prossimo 29 aprile avrebbe compiuto ottantotto anni, da festeggiare a Roma – se il male, incurabile, non lo avesse stroncato – nella sua casa in piazza Ottavilla con sua moglie Maria Luisa e i suoi amici, dopo aver partecipato alle manifestazioni per la ricorrenza della Liberazione, il 25 aprile, come aveva fatto sempre da quando in quel giorno – sindaco prima Rutelli e poi Veltroni – cortei di cittadini, con i partigiani, raggiungono da Porta San Paolo, la piazza del Campidoglio. Nell’occasione (e così il 4 giugno, giorno della liberazione di Roma) il “maggiore Tompkins” prendeva la parola dal palco, il cappello marrone a larghe tese di tipo australiano, il volto incorniciato da una barba a pizzetto bianca, per ricordare che la missione dell’OSS, che egli comandava durante l’occupazione nazifascista della Capitale, non avrebbe ottenuto i risultati che la storia le riconosce, se non avesse potuto contare sulle donne e gli uomini della Resistenza romana. Particolarmente importante era stato il ruolo di Tompkins nella battaglia seguita allo sbarco di Anzio, svoltasi con alterne vicende, dopo un inizio quasi senza contrasti che faceva ritenere che gli angloamericani potessero raggiungere Roma in pochi giorni, se non in poche ore. La speranza fu vanificata dall’eccessiva prudenza del comandante della spedizione, il generale americano Lucas, e dalla reazione, davvero esemplare – secondo i manuali della strategia militare – del generale Kesselring, comandante delle truppe germaniche. Ne esamineremo più avanti le conseguenze, dopo aver fatto conoscere al lettore il giornalista e scrittore, allora ventiquattrenne, arruolatosi quale spia e sabotatore un paio d’anni prima, scegliendo l’Italia come destinazione per operare in territorio nemico, quando ancora l’OSS si stava formando. L’OSS (Office of Strategic Services) era appunto l’organizzazione, come dice la sigla, dei servizi segreti americani (dalla quale sarebbe nata la CIA) con vari compiti di spionaggio, per effettuare distruzioni infiltrando esperti in esplosivi oltre le linee, aiutare i partigiani con danaro e con aviolanci di armi e munizioni, indirizzarli sugli obiettivi e coordinarne l’attività di guerriglia specialmente nelle retrovie del fronte, e per stabilire contatti con le strutture politiche clandestine. L’idea era stata di un avvocato, William J. (Bill) Donovan, amico di Roosevelt che, approvandola – siamo nel dicembre del 1941, pochi giorni dopo Pearl Harbor – lo nominò, seduta stante, colonnello (e poco dopo generale di divisione). Tompkins ne accenna nei suoi libri Una spia a Roma e L’altra Resistenza (editore Il Saggiatore) dicendo che gli americani, contrariamente agli inglesi, non si erano dotati sino a quel momento di un servizio efficiente di spionaggio, nonostante il riarmo del Giappone, l’espansione aggressiva in Asia, e la sua alleanza con la Germania nazista e l’Italia fascista rappresentassero un pericolo per la pace nel mondo e una minaccia per gli Stati Uniti. Racconta poi diffusamente, con dovizia di particolari, le vicende che lo hanno visto protagonista della lotta di Liberazione, non solo per amore della libertà ma anche del nostro Paese. Si tratta di narrazioni basate rigorosamente sui fatti accaduti, ma scritte con il piglio del romanziere, rendendo difficile interrompere, tanto appassionano, la lettura (e anche la rilettura) una volta cominciata. Anche se i due libri sono stati a suo tempo recensiti su Patria indipendente e se appartengono, potremmo dire “ufficialmente”, alla storiografia relativa alla guerra di Liberazione, li segnaliamo per il loro valore storico, ma anche perché inducono a nuove indagini, riscontri, approfondimenti, confronti con altri testi e documenti d’archivio (solo recentemente liberati dalla secretazione). Diremo perché. Ma riprendiamo il filo del discorso sulla figura di Tompkins. Nato ad Athens (Georgia), trascorre l’infanzia e l’adolescenza in Italia con i genitori, una coppia di artisti – lei pittrice, lui scultore – che frequentano l’alta borghesia e alcune famiglie tra le più facoltose e conosciute della nobiltà romana, diventa amico fraterno del principe Camillo Caetani (con il quale frequenterà i corsi di Harward) che non ritroverà perché caduto in guerra. Parlerà quindi perfettamente l’italiano, conoscerà gente la più disparata e diventato, giovanissimo, corrispondente del New York Herald Tribune, molti intellettuali e giornalisti. Saprà muoversi agevolmente per le vie di Roma quando vi giungerà fortunosamente (dalla Corsica, lasciato, di notte, da un mezzo navale sulla costa prossima all’Argentario, in Toscana, e poi condotto su un’auto sfuggita al controllo dei posti di blocco tedeschi) la mattina del 21 gennaio 1944, a poche ore dalla “operazione Shingle” (sbarco di Anzio), ovviamente con un nome falso e documenti contraffatti, e il timore, che non lo avrebbe mai abbandonato durante la missione, di essere riconosciuto da qualcuno (un amico, un conoscente, una persona già incontrata per caso) passato al servizio dei collaborazionisti fascisti e degli occupanti. La storia dell’occupazione nazifascista della Capitale è del resto emblematica quanto a numero di coloro che praticavano il “doppio gioco” e di delatori. Le ricerche di Silverio Corvisieri (si legga il suo libro Il re, Togliatti e il gobbo, editore Odradek) che si spingono sino all’immediato dopoguerra, fanno sì che le intuizioni e le convinzioni di Tompkins assumano una sconcertante attendibilità. Un’altra preoccupazione lo avrebbe però condizionato rendendolo particolarmente guardingo: la certezza, dimostratasi poi fondata, che anche tra gli agenti dell’OSS vi fossero degli infiltrati appartenenti ai servizi fascisti di Salò. Proseguiamo con ordine, riprendendo la vicenda dal momento in cui Tompkins, lasciata Roma e raggiunta l’America già nel 1941, intuendo che di lì a poco Germania e Italia sarebbero entrate in guerra con gli Stati Uniti (11 dicembre 1941), avvicina Donovan ed entra nella pattuglia dei primi agenti segreti, rilevando subito nello staff organizzativo, gravi deficienze, oggetto di critiche vieppiù severe che egli amplierà nel prosieguo di tempo, soprattutto per quanto riguardava la scelta degli agenti. Questo atteggiamento sarà oggetto di ritorsioni, nel dopoguerra e per molto tempo, non solo da parte dei quadri dell’OSS, ma anche da parte degli alti ambienti militari degli Stati Uniti che gli negheranno gradi, riconoscimenti e decorazioni più che meritati. Tompkins è però in buona compagnia nel denunciare le incapacità e gli errori dovuti alla presunzione di taluni appartenenti ai vertici dell’OSS (ma salvando Donovan e altri suoi diretti collaboratori). Quanto scrive, ad esempio, Donald Downes nella prefazione alla prima edizione di Una spia a Roma lascia davvero perplessi se non allibiti. Downes non era uno qualunque. Consigliere di Roosevelt alla Casa Bianca, professore nell’università di Yale, era a capo del gruppo OSS aggregato al corpo di spedizione sbarcato a Salerno il 9 settembre 1943, all’indomani dell’annuncio dell’armistizio. Si sarebbe dimesso dopo pochi giorni non approvando il sostegno degli Alleati a Vittorio Emanuele III e a Badoglio. Afferma tra l’altro: «In Peter Tompkins la mancanza di fiducia e di rispetto nei superiori immediati dell’OSS era giustificata dalla confusione, dall’inesperienza e dalla incompetenza degli ufficiali più alti dei servizi informativi che operavano presso il quartier generale delle forze alleate». Tra gli agenti reclutati – aggiunge – «c’erano scarti della Marina e del Dipartimento di Stato, playboys, rampolli cretini di famiglie ricche e politicamente importanti e così via. Peter lo sapeva benissimo ed è comprensibile la sua rabbia nel trovarsi a rischiare la vita per un’organizzazione incapace di trarre profitto dal suo sacrificio». Un altro motivo che induce a riflettere sullo scarso rilievo dato dai dirigenti dell’OSS all’attività di Tompkins prima, durante e dopo, la missione compiuta a Roma, e sulla ostilità verso di lui mai venuta meno in tanti anni da parte del Pentagono e del Dipartimento di Stato, va ricercato nelle posizioni politiche che dividevano i membri dell’organizzazione spionistica e di appoggio ai partigiani. Occorre rifarsi anche alla complessa situazione di allora, ai rapporti degli Alleati (non concordi tra loro) nei confronti del governo italiano riformatosi a Brindisi dopo l’8 settembre, diventato “cobelligerante” dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (e pertanto non alla pari con le nazioni impegnate nel conflitto). Basti dire che la Resistenza italiana aveva suscitato, sin dalle prime battaglie di militari e civili contro l’aggressione tedesca seguita all’armistizio – emblematica quella di Roma – la netta avversione di Vittorio Emanuele III (in certo modo “perdonato” e sostanzialmente sostenuto da Churchill) timoroso che il movimento popolare armato, diretto dai partiti politici in maggioranza contrari alla monarchia (sia per il tipo di regime sia per le complicità con il fascismo), segnasse la fine dell’istituzione e con essa il ruolo dei Savoia. Questo timore, del resto più che fondato, spinge Badoglio ad inviare una circolare, primo destinatario il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo che aveva costituito nella capitale il Centro Militare Clandestino. Nella circolare lo Stato Maggiore italiano dichiarava impossibile la guerriglia nel nostro Paese, soprattutto per ragioni orografiche, dando carattere restrittivo all’attività di opposizione ai nazifascisti, limitandola alla costituzione di servizi di spionaggio e, una volta giunti gli Alleati a liberare le località, a collaborare con loro per mantenere l’ordine pubblico. Va subito detto che tali disposizioni vennero di fatto respinte dai militari che entrarono a far parte delle unità partigiane costituite sotto l’egida dei partiti, o a carattere autonomo. Badoglio aveva però un altro obiettivo, una volta sconfessata inizialmente la Resistenza in quanto lotta di popolo: ricostituire le forze armate facendole partecipare alla guerra con la propria identità nazionale, inserite in quelle angloamericane. Ci sarebbe riuscito con la formazione del CIL (Corpo Italiano di Liberazione), ma mentre lo progettava ecco entrare nel gioco, scompigliandolo, Peter Tompkins. Questi, sbarcato a Salerno alla fine di settembre ’43 – dopo aver svolto un intenso lavoro di intelligence interrogando prigionieri italiani in Grecia, in Kenya, nell’Africa del Nord e reclutando per l’OSS italiani sicuramente antifascisti nei campi di concentramento in Algeria e tra i rifugiati fuggiti dall’Italia (come Velio Spano, arruolatosi in Tunisia) – si era incontrato con Raimondo Craveri proteso, anche per mandato di Ugo La Malfa, a costituire una organizzazione italiana con le medesime funzioni e finalità dell’OSS, alle dipendenze del comando americano. L’idea prese maggiore forza lasciando sperare che si potesse giungere alla costituzione di una consistente unità militare di italiani sotto il comando americano, indipendente dall’esercito nazionale (che Badoglio stava riorganizzando). Craveri, per avere credito presso gli Alleati, poteva contare su una personalità di primo piano, concordemente stimato, Benedetto Croce, di cui aveva sposato la figlia Elena. Con Croce, lui e Tompkins si incontrarono a Capri. Studiarono i particolari dell’operazione, individuarono il comandante dell’unità nel generale Pavone. Ma Badoglio, informato di tutto, l’ebbe vinta, col sostegno del governo inglese, facendo annullare l’impresa di Craveri e Tompkins sul nascere. Anche se Donovan aveva incoraggiato l’iniziativa, i vertici dell’OSS ne denunciarono l’improvvisazione. Secondo loro Tompkins era un battitore libero, poco incline a rispettare ordini e disciplina. Tompkins non si dette per vinto. Ritornati al progetto originario, Craveri e Tompkins costituirono l’ORI (Organizzazione Resistenza Italiana), un’appendice dell’OSS composta da volontari italiani che opereranno sul terreno del nemico anche autonomamente ma sempre in stretto contatto con il comando dell’OSS o inseriti nelle missioni americane anche con funzioni di comando. Tompkins ha raccontato nei suoi libri, come abbiamo scritto, gli episodi che segnarono l’avvio delle attività dell’OSS mettendo in rilievo le difficoltà incontrate con i capi dell’organizzazione, tacciandoli di ipocrisia, malafede e incapacità a capire il significato unitario del CLN che metteva al riparo la Resistenza italiana dalle divisioni che avevano insanguinato altrove i movimenti di guerriglia antinazista. In un convegno a Venezia (17-18 ottobre 1994) pronunciò contro di loro parole durissime, denunciandone l’ambiguità. Se da una parte – disse – combattevano il nemico utilizzando agenti sinceramente democratici, dall’altra – accusò – salvavano i fascisti della X MAS «con Valerio Borghese, per costituir poi, con loro, “Gladio”, per fare la guerra anticomunista e, con il generale Wolf, capo delle SS, salvare i nazisti in Germania. Perché avevano la trista idea che il comunismo staliniano si doveva combattere con il fascismo e il neofascismo e non con la saggia democrazia». Quanto disse a Venezia Tompkins ci sollecita, come abbiamo scritto, a compiere nuove ricerche sui rapporti dei servizi segreti americani e quelli italiani sin dalla guerra di Liberazione, anche se la parte più inquietante ci porterebbe al lungo periodo successivo della “guerra fredda”, dello “stragismo”, delle collusioni di organi dello Stato – I “servizi deviati” – col terrorismo nero. Per quanto riguarda l’OSS e la guerra di Liberazione – non essendo ancora l’OSS diventato CIA – non possiamo però farci fuorviare, nel giudizio complessivo, dalle critiche, benché legittime, rivolte a taluni dei suoi esponenti. Su ciò anche Tompkins era perfettamente d’accordo. L’apporto dell’OSS alla guerra di Liberazione in Italia è stato di straordinaria importanza, il comportamento delle missioni il più delle volte eroico, sino all’estremo sacrificio, fossero i componenti cittadini americani o italiani (dell’ORI, o diversamente arruolati). Questo sentimento di riconoscenza, condiviso da tutti partigiani non importa di quale colore, e dagli storici i più accreditati, si accompagna alla gratitudine che nonostante sia passato tanto tempo il popolo italiano conserva verso quello americano, indipendentemente dalle valutazioni sulla politica contingente della Casa Bianca, con la coscienza di essergli debitore, con le altre nazioni componenti le armate alleate, delle libertà democratiche. Il servizio reso sul piano strategico alle operazioni militari alleate dall’OSS e il sostegno alle unità partigiane non possono essere sottovalutati a causa, come abbiamo scritto, di posizioni diverse all’interno dell’organizzazione tra chi, in sintonia con gli inglesi responsabili del SOE (Special Operations Executive), vedeva nel Partito Comunista Italiano e conseguentemente nelle brigate Garibaldi, un pericolo potenziale per la democrazia da instaurare in Europa a vittoria ottenuta, e chi, come Tompkins, anche senza aderire all’ideologia marxista e anzi essendone decisamente contrario, riteneva doveroso riconoscere sia al PCI che alle formazioni da questo dipendenti – “brigate Garibaldi”, GAP, SAP – e alle sue organizzazioni di massa – “Gruppi di Difesa della Donna”, “Fronte della Gioventù” – motivazioni prevalentemente patriottiche, con una forte, insopprimibile vocazione alla libertà, difficilmente conciliabile quindi con il disegno autoritario rappresentato dallo stalinismo. Se le diatribe all’interno dell’OSS non portarono alle discriminazioni – che per buona parte della guerra partigiana, tranne un ripensamento nella fase finale, videro gli inglesi del SOE rifornire dal cielo di armi e munizioni preminentemente le unità degli “Autonomi”, di “Giustizia e Libertà”, i verdi e azzurri della Democrazia Cristiana, e in certa misura anche quelle socialiste, le “Matteotti”, lesinando se non rifiutando gli aiuti alle “Garibaldi” (ne fui testimone, capo di Stato Maggiore della Prima Divisione Garibaldi, in Piemonte) – lo si deve soprattutto allo spirito di giustizia e verità che ebbe il sopravvento sulle valutazioni ideologiche arbitrarie, e ciò principalmente per merito dei capi missione, americani e italiani (tra costoro vogliamo ricordare Piero Boni e Ennio Tassinari), i migliori interpreti della realtà anche politica “sul campo”. Certamente Peter Tompkins ha sofferto personalmente di tale situazione contraddittoria, arbitrariamente imputato (con altri dell’OSS che avevano partecipato alla guerra di Spagna nelle Brigate Internazionali) di filocomunismo, e perciò volutamente screditato a tal punto che un esponente di primo piano dell’OSS, Max Corvo – autore di un libro oltremodo documentato e suggestivo La campagna d’Italia dei servizi segreti americani. 1942-1945 (Libreria Editrice Goriziana) – dedica alla sua missione a Roma poche righe, dicendolo «intrappolato nella rete di intrighi e rivalità intestine del CLN» e attribuendo ad altri il merito dell’attività di spionaggio durante la battaglia per Roma seguita allo sbarco di Anzio, specialmente elogiando agenti dei servizi segreti italiani (SIM), facenti capo a “Scamp” (Vincent Scamporino), alcuni dei quali Tompkins sospettava di essere in contatto e combutta con i servizi segreti fascisti. La verità sul peso strategico che ebbero le informazioni di Tompkins – assolvendo in modo davvero meritorio, oltre le aspettative, ai compiti per i quali era stato inviato segretamente a Roma alla vigilia dello sbarco di Anzio – ci viene da fonti inoppugnabili, oltre che dai documenti reperibili nell’Archivio di Stato Americano, NARA (National Archives and Records Administration): dalle testimonianze di personalità della Resistenza romana che collaborarono con lui, come Giuliano Vassalli, comandante delle brigate “Matteotti” nella Capitale, poi arrestato e rinchiuso in via Tasso, cui Tompkins dovette la vita avendo Vassalli resistito alla tortura senza rivelare dove si nascondeva il capo missione americano. Vassalli, poi ministro di Grazia e Giustizia, Presidente della Corte Costituzionale, introducendo la seconda edizione del libro Una spia a Roma, riconosce «le straordinarie doti di coraggio, perspicacia, intelligenza, patriottismo di Peter Tompkins (…). Ai miei occhi ebbe il merito di non lasciarsi menomamente indurre ad una aprioristica diffidenza verso le forze politiche di sinistra, nutrita invece da alcuni ambienti del suo Paese e dalla stessa organizzazione di cui faceva parte…». Vassalli (uno tra i principali promotori della fuga di Pertini, Saragat e altri da Regina Coeli il 24 gennaio ’44), prima dell’arresto, era a capo di una rete che forniva le informazioni a Tompkins per essere inviate al quartier generale alleato mediante una trasmittente spostata frequentemente da un luogo clandestino all’altro per renderne difficile l’individuazione. Un’altra rete era organizzata da Franco Malfatti, anche lui socialista, con l’aiuto di un medico, Lele Crespi, una terza da un ufficiale che si era appositamente arruolato nella polizia fascista, Maurizio Giglio, cui era affidata anche una trasmittente installata su un barcone in riva al Tevere. Giglio, catturato in seguito ad una delazione, la radio sequestrata e usata dai tedeschi per inviare false notizie agli angloamericani, morirà alle Ardeatine, Medaglia d’Oro al Valor Militare. Descrivere la battaglia per Roma sui due fronti del Garigliano e di Anzio per individuare il ruolo che vi ebbero i servizi di informazione alleati (tra questi non sufficientemente ricordato il gruppo di sabotaggio e raccolta di informazioni, la missione “Texas”, comandata da Alfredo Michelagnoli “Fred”, paracadutato in febbraio sui monti tra Lazio e Abruzzo) comporterebbe l’uso di uno spazio non consentito da una pubblicazione periodica come questa, per quanto dedicata anche agli approfondimenti storici. Basterà dire che l’attesa spasmodica protrattasi dalla fine di gennaio ai primi di giugno ’44, la convinzione che la liberazione potesse avvenire da un momento all’altro, la pressione degli Alleati sulla Resistenza perché intensificasse le azioni impegnando quante più forze tedesche, altrimenti inviate sul fronte di Anzio, nella guerriglia cittadina (l’attacco militare dei GAP Centrali in via Rasella obbedì a tale esigenza e alle reiterate richieste angloamericane) sono elementi che, combinati tra loro, ci spiegano come da una parte, quella delle formazioni partigiane, venissero trascurate in quei momenti convulsi le norme che garantivano la clandestinità delle organizzazioni; dall’altra, quella nazifascista, si intensificassero le retate e soprattutto le infiltrazioni tra i partigiani di provocatori e spie. Tanto da rendere difficile se non impossibile, distrutti quasi per intero i quadri dirigenti della Resistenza romana, o costretti ad abbandonare la città, organizzare l’insurrezione in concomitanza con l’arrivo degli Alleati. E ciò a complemento delle decisioni anche del CLN a seguito dei colloqui tra Pio XII e Karl Wolf (plenipotenziario di Himmler) per evitare che la battaglia finale per Roma, dalle conseguenze terrificanti, si svolgesse sin dentro le mura. I documenti relativi all’ultima fase dei combattimenti seguiti allo sbarco di Anzio testimoniano numero, intensità, esiti delle azioni di sabotaggio dei partigiani lungo le vie di rifornimento in parallelo all’attività informativa. Impossibile, scrive più volte Tompkins – ed era solito ripetere queste parole, come abbiamo detto, nei discorsi pubblici – senza le donne, gli uomini, i ragazzi, molti dei quali caduti tra i due fuochi o fucilati dai tedeschi, che gli fornivano tempestivamente informazioni e dati perché artiglieria e aviazione degli Alleati colpissero gli obiettivi nemici, reparti in marcia e nei ridotti difensivi o accasermati, apprestamenti, depositi di munizioni e carburanti. E non solo quando l’offensiva alleata consentì la saldatura tra le truppe provenienti da Anzio con quelle dal fronte del Garigliano, ma prima, nei momenti più drammatici, quando la testa di ponte rischiò il fallimento, il corpo di spedizione l’annientamento, i superstiti di essere ributtati in mare.

 

Su via Rasella e Bentivegna l’incredibile sentenza di un giudice

 

L’ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ha appreso con sorpresa e sconcerto la motivazione della sentenza del gup di Roma, Renato Croce, con la quale egli ha assolto il responsabile romano di “Fiamma Tricolore”, Guglielmo Castellino, querelato dal prof. Rosario Bentivegna per avere indicato lui e non Priebke, quale «vero autore della strage delle Ardeatine». Pur nel pieno e convinto rispetto della Magistratura, presidio dello stato di diritto, l’ANPI ritiene – con il conforto di giuristi di chiara fama – che il magistrato in parola, il quale ha accompagnato il verdetto definendo la frase diffamatoria «aspra e severa ricompensa nell’alveo di un giudizio politico nonché di critica storica», abbia radicalmente contraddetto le sentenze emesse in vari gradi di giudizio, nonché dalle Cassazioni penale e civile e dalla Suprema Corte Militare, che hanno riconosciuto l’attacco partigiano di via Rasella il 23 marzo 1944, legittimo atto di guerra nell’ambito della Resistenza al nemico invasore. Nello stesso tempo, con tale asserzione il magistrato ha di fatto, nella sentenza, giudicato negativamente l’operato del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi i quali hanno decorato al valor militare, per quell’azione, i partigiani Rosario Bentivegna e Franco Calamandrei. L’ANPI agirà in ogni sede a tutela dell’onore dei combattenti per la libertà e della verità storica. Alle dichiarazioni dell’ANPI si associa la Presidenza Nazionale dell’ANFIM – Associazione Nazionale Famiglie Italiane Martiri.

Patria indipendente, 18 febbraio 2007

 

 

sommario