Patria indipendente
La sentenza che ha condannato all’ergastolo dieci ex nazisti
Marzabotto: sessantatre anni dopo è arrivata finalmente un po’ di giustizia
Sessantatre anni. Lenta è arrivata la giustizia per i 1.830 trucidati di Marzabotto. La “cavalcata” del terrore iniziò all’alba del 29 settembre 1944, quando la 16° SS-Panzergrenadier-Division, agli ordini del maggiore Walter Reder, detto “il monco”, partì squarciando con il ferro e con il fuoco le valli attorno al Monte Sole. A far da cani-guida, un pugno di militi delle Brigate nere, per l’occasione in divisa SS col distintivo simile a un “44” sulle mostrine, che sapevano i sentieri, le case, i rifugi e additavano mogli, figli e padri dei partigiani della Brigata “Stella Rossa”. Dall’eccidio non fu risparmiato nessun paese, villaggio o fattoria della zona che, a una ventina di chilometri da Bologna, è delimitata dal corso dei fiumi Reno e Setta: Marzabotto (il Comune più grande), Grizzana, Vado di Monzuno e tutte le altre località che punteggiano le vallate declinanti dall’acrocoro dominato dalla cima del Monte Sole. Il 13 gennaio 2007, il tribunale militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo in contumacia 10 dei 17 imputati ex nazisti ancora in vita. Sono tutti ultraottantenni e non conosceranno mai il carcere, la legge italiana non lo permette. I giudici inoltre hanno stabilito un risarcimento totale di oltre 100 milioni di euro per 82 familiari delle vittime che si sono costituiti parte civile, per la Regione Emilia-Romagna e per i tre Comuni della strage. A pagare dovrebbe essere lo Stato tedesco, ma anche l’Italia sarà tirata in ballo. I parenti sono intenzionati a chiedere risarcimento per una sentenza arrivata tanto in ritardo. Il processo, infatti, non si è potuto celebrare prima perché i documenti in grado di inchiodare i responsabili del massacro sono rimasti chiusi per cinquant’anni nell’armadio della vergogna e nei sotterranei delle procure italiane. Ritrovate a metà degli Anni 90, quelle carte, con nomi e fatti, hanno potuto dare finalmente il via ai procedimenti penali. Finora per la strage di Marzabotto esisteva un solo colpevole: il maggiore Walter Reder. Nel 1951 il tribunale militare di Bologna sentenziò per lui una condanna a vita, da scontare nel carcere militare di Gaeta. Ci passerà trentaquattro anni, malgrado un’ipocrita richiesta di perdono giunta nel 1967 agli abitanti di Marzabotto che, riuniti in Consiglio comunale, respinsero al mittente con 356 voti su 360 la petizione di clemenza sostenuta anche dalla Chiesa. Poi, nel 1980, arrivò la sentenza del Tribunale di Bari che disponeva un periodo di “prova” di cinque anni per il condannato, in attesa della scarcerazione. Fu l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel gennaio 1985, a concedere la grazia e a spalancare le porte della galera a Walter Reder, morto nel 1991 nella sua residenza austriaca. La raccolta di testimonianze degli scampati e dei sopravvissuti che presentiamo è tratta dal volume Marzabotto parla di Renato Giorgi, edito per la prima volta nel 1955, ristampato a cura dell’ANPI di Bologna nel 1991 ed ora in corso di ripubblicazione dalla Franco Cosimo Panini editore di Modena, con il patrocinio dei Comuni di Marzabotto e Sassomarconi, la Provincia di Bologna e la Regione Emilia-Romagna.
Daniele De Paolis
Località Casaglia, testimonianza di Lidia Pirini
«Era il 29 settembre, alle nove del mattino. (…) Quando a Casaglia fummo convinti che i nazisti stavano per arrivare perché si sentivano gli spari e si vedeva il fumo degli incendi, nessuno sapeva dove correre e cosa fare. Alla fine ci rifugiammo in chiesa, una
chiesa abbastanza grande, piena per metà, e don Marchioni cominciò a recitare il rosario. Ho saputo in seguito che lo trovarono ucciso ai piedi dell’altare: allora non me ne accorsi e adesso riferisco solo quanto ricordo. Quando arrivarono i nazisti io non li vidi, avevo paura a guardarli in faccia. Chiusero la porta della chiesa e dentro tutti urlavano di terrore, specialmente i bambini. Dopo un poco tornarono ad aprire (…) e ci condussero al cimitero: dovettero scardinare il cancello con i fucili perché non riuscivano ad aprirlo. Ci ammucchiarono contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno; loro si erano messi negli angoli e si erano inginocchiati per prendere bene la mira. Avevano mitra e fucili e cominciarono a sparare. Fui colpita da una pallottola di mitra alla coscia destra e caddi svenuta. Quando tornai ad aprire gli occhi, la prima cosa che vidi furono i nazisti che giravano ancora per il cimitero, poi mi accorsi che addosso a me c’erano degli altri, erano morti e non mi potevo muovere; avevo proprio sopra un ragazzo che conoscevo, era rigido e freddo, per fortuna potevo respirare perché la testa restava fuori. Mi accorsi anche del dolore alla coscia, che aumentava sempre di più. Mi avevano scheggiato l’osso e non sono mai più riuscita a guarire bene, anche dopo mesi e anni di cura. (…) Intorno a me sentivo i lamenti di alcuni feriti. Così passò la notte e quasi tutto il giorno 30. (…) Verso sera, ci si vedeva ancora, trovai finalmente la forza di decidermi, riuscii a scostarmi i cadaveri di dosso e pian piano mi allontanai dal cimitero».
Località Casaglia, testimonianza di Adelmo Benini
«Ero partigiano della Stella Rossa si può dire dal suo sorgere. (…) Anche noi partigiani ci avviammo per la strada di Casaglia, e lungo il cammino la fila si ingrossò con altri civili della Gardelletta e sfollati di Bologna. Ci riunimmo tutti sul piazzale della chiesa di Casaglia, dove si tenne una specie di consiglio generale: concludemmo che, se i nazifascisti venivano, era per cercare i partigiani e quindi i vecchi e i bambini e le donne potevano stare in chiesa, ritenuta più sicura, col prete Ubaldo Marchioni. Noi partigiani decidemmo di ritirarci fuori dall’abitato, sulle pendici del monte Sole, dove avremmo potuto dar battaglia ai nazifascisti, senza coinvolgere i civili nello scontro. Ritiratici sul monte Sole, di lì a poco arrivarono i tedeschi, che ci circondarono in forze, battendo la cima e fianchi pelati del monte con i mortai e l’artiglieria di un treno blindato che pattugliava sopra Vado, lungo la strada ferrata della “direttissima”. Era per noi una situazione dura, insostenibile. Salendo per il ripido sentiero verso la cima, mi ero unito al padre di mia moglie e a un tenente d’aviazione di Firenze. Tutti e tre dietro un cespuglio stavamo a vedere cosa accadeva in Casaglia, e con terrore notammo che i nazisti non rispettavano per nulla le donne e i bambini. Si vide benissimo quando li fecero uscire dalla chiesa dirigendoli a colpi e pedate verso il cimitero. In quei momenti la mia testa era completamente vuota; non sapevo pensare; guardai i miei due compagni e mordevo un lembo della camicia per non piangere. Li vedemmo abbattere il cancello del cimitero e ammucchiare tutti sulla gradinata della cappella, i grandi dietro e i piccoli davanti; quando li scorsi appostare la mitraglia sull’entrata mi lanciai di corsa giù dai fianchi del monte invocando il nome delle mie creature, ma il cerchio di ferro e fuoco che ci stringeva, non mi permise di avvicinarmi a più di centro metri dal cimitero: di lì vidi sparare con la mitraglia e i fucili in mezzo agli innocenti, lanciare le bombe a mano, e poi alcuni militari con la pistola finivano quelli che si lamentavano. (…) Dopo due giorni di vagabondaggio senza mèta, sempre costretti a sfuggire ai nazifascisti, che apparivano e scomparivano ad ogni momento e in ogni luogo, tormentato dal pensiero dei miei (pur avendo con gli occhi veduto mi era tuttavia rimasta la convinzione che li avrei trovati salvi), tanto insistetti da indurre anche gli altri a tornare al cimitero di Casaglia. Non vollero entrare, allora avanzai solo. Poco oltre il cancello trovai una scarpa di mia moglie; mi buttai tra i cadaveri e febbrilmente presi a frugare nel cumulo, scostando i corpi rigidi e pesanti. Alla fine, con i piedi sopra una lapide e la testa che ciondolava trovai mia moglie; aveva un grosso foro nella fronte; stringeva ancora le due bimbe tra le braccia, Maria con le interiora che uscivano dal ventre squarciato e la piccola Giovanna priva del capo, strappato da una raffica di mitraglia. Cercai intorno, trovai la testa presso il muro di cinta del cimitero, dove l’aveva fatta ruzzolare il maiale del becchino che grufolava tra i cadaveri; c’era anche la moglie del becchino, ancora in vita, ma con le gambe fracassate. Presi la testa della mia bambina e la deposi presso il corpo, tra le spalle. Mio suocero mi chiamò dal di fuori, dicendo che arrivavano i nazisti. Tornammo a vagare per i boschi. In località Caprara vedemmo tre ragazze legate a tre castagni in riga: le corde ne sostenevano i cadaveri stretti al tronco, con le sottane sollevate sopra la cintola, ed ognuna aveva un lungo bastone infilato di forza tra le cosce. Arrivando nella vigna del Poggio di Casaglia, notammo una piccola sagoma in posa molto strana. Era un bimbo di tre o quattro anni, con un palo conficcato nel sedere e piantato nel terreno che lo sosteneva, come uno spaventapasseri sempre sul punto di piombare giù. Tra Caprara e Villa Ignano, trovammo i cadaveri di due donne incinte, entrambe sventrate. A una avevano strappato il feto dalle viscere, l’avevano appoggiato con la testina alla guancia della madre. I piedini del feto dell’altra sporgevano dallo squarcio del ventre. Ci rifugiammo nella macchia e scavammo una galleria fonda contro la parete di un monte, nascosta da un fitto di rovi. Campammo là dentro un mese; si usciva solo la sera, a frugare tra le macerie delle case in cerca di cibo come cani randagi. (…)».
Località Caprara, testimonianza di Carlo Castelli
«Fuori dell’abitato, dove i prati si allargano verso la macchia lontana, una donna dai capelli bianchi, vestita di nero, correva disperata col fiato rotto dai singhiozzi. Dietro la inseguiva un nazista, non so di che grado, stringeva la pistola con una mano, rideva, senza impegnarsi troppo nella corsa. Si era accorto che la donna non aveva forze per resistere a lungo. Infatti la vidi a poco a poco rallentare, stroncata dall’affanno, e la distanza tra lei e l’inseguitore calava a vista d’occhio finché quasi si fermò, barcollante, con le mani strette alla gola. Allora le fu sopra, e rideva, l’afferrò per i capelli con la mano libera, le girò lentamente la testa verso di sé, e le sparò più volte in faccia».
Località Prunaro di Sotto, testimonianza di Adele Sassi
«Nei giorni precedenti la fine del mese di settembre, tra la gente s’era sparsa una certa preoccupazione, non si sapeva di che cosa; tutti parlavano di rastrellamento e di nazisti, e il timore dava tanto più da pensare, perché non si sapeva cosa fare e dove trovare sicurezza. Il ventinove mattina, un venerdì che pioveva senza sosta, la preoccupazione diventò paura nel vedere le case della montagna bruciare e fumare. Da noi c’erano i partigiani, Graziella era dei loro, faceva la staffetta; si ritirarono verso il Monte Sole perché la casa non subisse le conseguenze di un combattimento. Anche mio padre e i fratelli si allontanarono, restammo solo noi donne a trasportare fuori più roba che si poteva, perché la roba, con gli incendi che si vedevano, sembrava la cosa che correva maggior pericolo. Mia nipotina Gianna, di cinque anni, aveva detto: “Prendiamo una pagnotta, perché se andiamo in rifugio voglio mangiare”. Arrivarono calando dalla Steccola, con le armi puntate, uno davanti e quattro dietro. Il primo, insaccato in un grande giubbone mimetico color verde, era quasi biondo, allampanato, con un dente d’oro in mezzo alla bocca, sotto il labbro superiore. Me lo ricordo come fosse ieri. Si piazzò sull’apertura della corte e ci volle tutte di fronte, si faceva grande dietro il suo mitra e voleva metterci sotto i piedi. Certamente avevamo molta paura, ma non si capiva, e lui pareva molto contrariato. Un altro intanto era salito nelle camere di sopra, dove lo sentimmo urlare: si affacciò dall’alto della scala e gridò parole concitate nella sua lingua. Il biondastro ripeté a noi le parole, in italiano: “Dice che ha trovato dei medicinali”. Fece una breve pausa, poi: “Ve la fate con i partigiani, eh?” e ridacchiava scrollando il capo. Ci squadrò a lungo una per una, facendo roteare il mitra. La notizia ci aveva riempito di terrore, perché dopo un po’ aggiunse sorridendo, in dialetto bolognese: “Adess avi pora, ed nueter!” (Adesso, avete paura di noi!). Fui io a rispondergli: “Non si ha paura di nessuno, quando non si è fatto del male!”. “Sapete cosa ha detto il tedesco? – rispose lentamente, senza più sorridere – Ha detto tutti kaput” e vidi le sue dita sbiancarsi strette sul mitra. Fu allora che notai la vera. “Non è giusto uccidere noi donne e bambini. Pensi a sua moglie ed ai suoi figli!”. “Non guardiamo in faccia nessuno, grandi e piccoli! Siamo fuori per questo!”, e a spinte ci buttò nella soggetta del corridoio. Graziella, tirandosi dietro la Gianna, andò verso la porta di cucina: fu la prima a morire con un urlo straziante; il biondastro le sparò in faccia; ella cadde con la bimba che stringeva sempre in mano la sua pagnotta. La ritrovammo tempo dopo, al nostro ritorno, che stringeva ancora i resti della pagnotta rosicchiata dai topi. Poi il biondastro sparò a noi: la sposina incinta si abbatté colpita in fronte, io caddi a terra abbracciata alla mamma; mi accorsi di essere soltanto ferita a una mano. La piccola Annarosa, seduta in mezzo alla stanza, terrorizzata, urlava con le manine protese verso la madre. Il nazista che era nella camera di sopra scese le scale e col nostro assassino andò in tinello, dove si misero a spaccare tutto e a rubare. Il pianto disperato di Annarosa attirò l’attenzione del biondastro che tornò in cucina, brontolando tra i denti, e con un colpo di pistola ammazzò la piccola. Finalmente se ne andarono. Mi alzai e la prima cosa che notai fu una grossa sveglia sopra la credenza: erano le nove. Mi affacciai alla porta e li vidi che camminavano in fila verso l’alto, in direzione della Steccola. Corsi sopra, dalla parte opposta della casa, legai una fune alla gamba del letto e per la finestra mi calai nel cortile e mi lanciai come una pazza contro la macchia (…)».
Località Cadotto, testimonianza di Aldo Gamberini
«(…) Il 29 settembre mi alzai che ancora era buio e pioveva; mi allacciavo una scarpa nei pressi della stalla, conversando con tre partigiani. Improvvisamente sentimmo delle urla dalla parte opposta della casa. I tre partigiani corsero ma si trovarono di fronte a una grande ondata di SS; li comandava uno basso e grosso che mi parve un capitano. Immediatamente i tre partigiani cominciarono a sparare, ma c’era troppa differenza di numero e dovettero retrocedere sempre difendendosi, presero la strada per il loro comando; io corsi a nascondermi. (…) Mentre fuggivo, a Cadotto cominciò un forte combattimento. (…) Dopo circa un’ora e mezzo ch’ero nel fosso sul sentiero per Cadotto, più in alto di fianco, vidi passare una colonna di civili, quasi tutte donne e bambini; andavano in fila, avevano con sé fagotti e valige. Era una famiglia del Palazzo. Sei di quelli col 44 sulle mostrine a mitra puntati incalzavano la fila e la tenevano unita. Guardai bene se c’erano i miei, non li vidi e provai un po’ di speranza. (…) Proprio mentre passava la fila dei civili e delle SS mi sentii toccare a una gamba: era Mascherino, il mio cane. Presi paura che abbaiando mi facesse scoprire e cercai in tasca il coltello che sempre avevo con me, per ucciderlo, ma non lo trovai. Del resto non ce n’era bisogno, perché Mascherino si accucciò ai miei piedi e più non si mosse. In seguito compresi che era corso a cercarmi dopo che avevano massacrato i miei. (…) Dopo due giorni di vagare per i monti e i boschi sempre con Mascherino, capitai da una mia figlia sposata, che trovai sotto una galleria presso la Quercia. Mi chiese cosa sapevo della nostra famiglia. Le risposi che non avevo nessuna notizia. Allora mi disse che i nostri vicini erano stati tutti massacrati. Seppi in seguito com’era andata. Quando le SS arrivarono a Cadotto, chiusero dentro tutta la gente, poi diedero fuoco alla casa. Il fuoco iniziò dal basso e la gente man mano che le fiamme salivano, correva nelle camere sopra e nel solaio. Ciò aveva fatto una prima squadra di SS che però si era allontanata subito. Quando la gente per non morire bruciata tentò di scappare dalle finestre e dalle porte, una seconda squadra di SS li attendeva fuori e li fucilava. Così perirono i miei familiari, sette figli, il maggiore dei quali aveva ventidue anni e il minore cinque, la moglie, una nipotina di trenta mesi, una sorella e due fratelli. Tornai a Cadotto nel maggio del 1945 a cercare i resti dei miei che ritrovai nel posto stesso dov’erano caduti, ricoperti da un po’ di terra. Riconobbi la moglie dalle scarpe e da una rebecca di lana che non s’era bruciata non so per quale caso; mia figlia maggiore la riconobbi per i denti d’oro; mio fratello per la pipa vicina alle ossa; i figli, perché di bambini c’erano solo i miei(…)».
Località Steccola, testimonianza di Maria Tiviroli
«Nel rifugio della Steccola eravamo in diciassette, tutti donne e bambini, meno il nonno, di ottantadue anni. Ricordo che io sentivo una gran fame, insopportabile, un vero male fisico, e continuavo a ripeterlo insistente, con mia madre e gli altri, non curandomi di capire perché tutti piangevano e si lamentavano, e protestavo non riuscendo a farmi ascoltare. Improvvisamente, all’entrata del rifugio si presentarono alcuni nazisti che gridavano nella loro lingua parole incomprensibili e paurose; non saprei dire come erano fatti e vestiti, ero rimasta atterrita dalle armi puntate, guardavo sempre a quelle e mi era passata anche la fame. Ci buttarono fuori a colpi e spintoni, facendoci incolonnare in direzione di Prunara, un gruppo di case poco sotto, non lontano dalla Steccola. Fuori del rifugio, vedemmo che il fuoco era già alto nelle case e nelle stalle, tutto bruciava e un fumo denso e nero nascondeva ogni cosa. Adesso noi non dicevamo neppure una parola, si sentivano solo venire dal fuoco sibili lunghi e strani rumori. Il nonno era lento a muoversi, per colpa dell’età, e loro agivano come chi ha fretta. Visto che anche a minacciarlo e dargli delle spinte il nonno non poteva andare come volevano, si spazientirono: due gli si buttarono sopra, l’afferrarono per i piedi e le spalle, lo dondolarono un paio di volte come un sacco e lo scaraventarono, che urlava e si di dibatteva, in mezzo a un pagliaio in fiamme. Non assistemmo alla sua fine, perché ci fecero subito camminare di fretta sul sentiero, ma tre giorni dopo lo ritrovammo tra la cenere, bruciato dalla cintola ai piedi. Nella fila nessuno fiatava. Marciavamo veloci, io mi tenevo stretta alla sottana della mamma, sempre però con gli occhi alle armi, che due nazisti in testa e due dietro, tenevano strette sotto l’ascella, proprio davanti a noi camminava mia sorella Gina, di dodici anni, che si voltava di continuo a guardare la mamma, come per invocare protezione. Impiegammo meno di cinque minuti per arrivare a Prunara. Ci fecero fermare in mezzo al campo, sempre in fila, e i nazisti (saranno stati una ventina) si riunirono a parlare. Notai con sorpresa che tra loro c’era un biondastro con un dente d’oro in mezzo alla bocca, in precedenza da me conosciuto in casa mia, dove veniva sempre con i partigiani. Lo chiamavano con un nome ridicolo, Cacao, e adesso mi meravigliavo di vederlo trattare con i nazisti da pari a pari. Anzi, questo Cacao ad un certo punto si diresse alla nostra fila e puntando il dito verso mia madre, disse: “Questa donna cucinava per i partigiani”. Quindi segnò altre donne e di ognuna disse che lavava o cucinava o faceva la staffetta per i partigiani. Nella fila, tutti lo fissavano in faccia, senza parlare. Anche i nazisti tacevano, guardando verso di noi, specie quelli che Cacao indicava. Cacao si allontanò. Pensavo che mi sarebbe piaciuto vederlo fare subito una brutta fine; ho saputo in seguito che i partigiani l’andarono a cercare a Bologna e lo giustiziarono. Un nazista venne da noi e col dito indicava a ognuno una testa di morto disegnata sul berretto, e rideva. Intanto due di loro s’erano messi di fianco alla nostra fila e avevano cominciato a preparare due mitraglie. A questa vista mi sentii il sangue che se ne andava via e mi rannicchiai contro mia madre. Ci fecero segno di voltarci e tornare a Steccola: ubbidimmo tutti subito, e ancora non c’eravamo voltati, che aprirono il fuoco. Caddi ai primi spari, colpita al fianco destro: “Ecco una schioppettata!” pensai, vidi tutto buio e chiusi gli occhi. Quando tornai a capire, mi accorsi di essere sepolta sotto il corpo della mamma e di un’altra donna: i nazisti si muovevano intorno e davano un colpo di pistola nella testa di ognuno. Io ero un ragnetto piccolo e magro, di grande avevo solo gli occhi e le treccine; rannicchiata sotto mia madre e l’altra donna, non mividero e mi salvai. (…) Solo a sera mi azzardai ad alzarmi, presi mia madre per le spalle e provai a metterla in piedi; non ci riuscivo, la chiamai diverse volte, ma invano. Vagai per il campo a lungo, non mi sapevo decidere ad allontanarmi da mia madre, il dolore al fianco non lo sentivo ancora, perché la ferita era leggera; ero inondata di sangue, le trecce sembravano di legno, per il sangue raggrumato. A duecento metri dal gruppo dei morti trovai mia sorella Gina dentro l’acqua di un fosso, fino al collo, morta; sul ciglio c’era il figlio di Grani, di undici anni, anch’egli ucciso; era sempre il compagno dei nostri giochi. Forse avevano tentato di scappare».
Località S. Martino, testimonianza di Duilio Paselli
«Il 25 settembre sfollammo da Casa Beguzzi, troppo bassa e vicina al fiume e alla ferrovia, e riparammo a San Martino, che pareva più sicuro. Il 29 mattina gli uomini scapparono tutti per paura di essere deportati. Infatti tutte le altre volte che i nazifascisti erano venuti in rastrellamento sempre se l’erano presa con gli uomini giovani e validi e li avevano catturati e anche fucilati; mai avevano toccato le donne e i bambini. Passò una prima squadra di nazisti, il giorno 29, e non fecero nulla; pensammo che anche questa volta ce la saremmo cavata con la paura. Invece il 30 arrivò una seconda squadra: presero tutti quelli che poterono; li misero contro la casa dei contadini del parroco e li falciarono con le mitraglie. Poi li bruciarono con le fascine e con dell’altra roba che avevano loro. Uno della famiglia Lorenzini di S. Martino, che aveva assistito al massacro, mi raccontò in seguito che mentre erano chiusi nella parrocchia, prima di essere massacrati, una mia figlia sposata, col suo bambino al collo, nel vedere uccidere il marito sotto i propri occhi, si scagliò contro i nazifascisti chiamandoli vigliacchi e assassini. Uno delle SS le rispose nel nostro dialetto: essendosi subito accorto che così si era tradito, fece segno agli altri e portarono tutti fuori al massacro, anche mia figlia col bambino al collo».
Località Casone di Rio Moneta, testimonianza di Laura Musolesi
«(…) Andammo in un rifugio. Eravamo in diciotto. (…) Il primo nazista che spuntò dalla cantonata della casa sparò contro l’imbocco del rifugio, colpì una donna al braccio. Poi ne giunsero altri, il comandante della squadra dette ordine di prenderci fuori, ci misero in gruppo di fianco al rifugio, ci portarono via tutto. Ci chiedevano se avevamo dell’oro, strappavano la fede a quelle che l’avevano, gli orologi dal polso, frugavano nelle borsette, fracassando le valigie, distruggevano tutto quello che non avrebbero potuto portare con sé, si contendevano i fiammiferi e le sigarette. Intanto noi avevamo la mitraglia puntata contro da circa mezz’ora, già pronto il nastro delle cartucce, in attesa di essere massacrati. Un tenente delle SS girava avanti e indietro impaziente, poi si avvicinò alla mitraglia. C’era un italiano, un milite della Brigata nera, e il tenente gli parlò in tedesco. Io guardavo da tutte le parti dove potevo scappare ma i miei occhi non vedevano che i nazisti armati. Mi sentivo la morte vicina e una gran sete. Il tedesco ci fece un cenno che stessimo più uniti, quello delle Brigate nere era proprio contro la mitraglia. Dissi alla signora Fanti: “Ci ammazzano come cani!”. Le vidi la morte in volto, era colore della terra. Non capivo più nulla. Solo sentivo i bambini piangere e gridare: “Non abbiamo fatto nulla, non vogliamo morire!”, e si aggrappavano alla giacca del tenente che li respingeva. Anche le donne gridavano e pregavano di non ucciderle. Questo durò un poco, era straziante. Mi accorsi che anch’io gridavo forte: “Non voglio morire!”. Staccai dalla sottoveste una “benedizione” che avevo sempre avuto con me, mi feci il segno della croce dicendo: “Cristo salvami, ho una bimba che ha bisogno di me”. Allora il tenente fece segno di abbassare la mitraglia, e disse: “Nicht kaput!”. Il milite lo guardò come per chiedergli se dovesse sparare o no. Lui fece l’occhietto, e mi bastò per capire tutto. La mitraglia cominciò a sparare, la prima pallottola fu la mia, mi passò tra le gambe. Vidi Burzi abbattersi, Bruno pure. Lasciai il gruppo correndo come una pazza, mi buttai in mezzo a un groviglio di spini e di more. Un tedesco mi vide, accennò a un altro dov’ero nascosta, questi mi trovò subito, io lo pregai di lasciarmi stare, ma lui stizzito mi rispose in tedesco, e io capivo che voleva dirmi che se erano morti gli altri dovevo morire anch’io. Però non gli riusciva di mettere in canna la pallottola. Appena poté, mi sparò alla testa, ma non mi colpì benché fossi molto vicina; io mi alzai lasciando la mia roba, corsi via alla disperata; tutti mi sparavano dietro. Feci una piccola salita; una fucilata mi prese al braccio destro, ma continuai a correre (…)».
(a cura di Daniele De Paolis)
Patria indipendente, 18 febbraio 2007