Patria indipendente
La dura prigionia degli IMI in mano ai nazisti
Resistere, resistere, resistere nell’Oflager 83 in Germania
di Arturo Lenti
Dopo l’8 settembre 1943, gli IMI (Internati Militari Italiani) che giungevano nei campi di smistamento in Germania, non avevano notizie della situazione in Italia. Le uniche notizie perciò furono quelle comunicate nelle poche riunioni, indette dal comando tedesco del campo; in un primo tempo, per raccogliere adesioni allo scopo di continuare la collaborazione con il Reich o come combattenti o come lavoratori e, qualche giorno dopo, per continuare la guerra nel nuovo esercito della RSI (Repubblica Sociale Italiana), che il maresciallo Graziani stava costituendo nel nord Italia. La stragrande maggioranza non aderì. Fu così che nacque la “Resistenza del filo spinato”. Il rifiuto si espresse nonostante le angherie e si rafforzò a conseguenza delle minacce di estinzione cui si poteva andare incontro nei campi della Polonia; a volte direttamente espresse dai tedeschi, come accadde ad Ammerstein, a volte subdolamente lasciate intendere, come a Moosburg (1), da loro emissari nazifascisti. A Leopoli la Resistenza rimase un fatto individuale, nonostante la nascita di gruppi regionali, con relativi statuti di solidarietà, durante la detenzione e dopo il ritorno in patria a guerra finita. Il rifiuto di adesione di una enorme massa di internati, compattamente rinnovato ad ogni ripetuta richiesta da parte nazista e l’incalzare inarrestabile delle potenti avanzate sovietiche della fine del 1943, nella nostra situazione, ebbero l’effetto di indurre il comando germanico a prendere d’urgenza altre decisioni invece che quelle iniziali minacciando il «senza ritorno dai campi della Polonia». Ai primi di gennaio del 1944, il campo 328 di Leopoli, organizzativamente dipendente dal campo di sterminio di Rawa Ruska, fu trasferito a Wietzendorf, nella landa del Luneburgo, tra Amburgo, Brema ed Hannover, e denominato Stalag 329. A metà marzo del 1944, il campo assunse il nome di Oflag 83 - Offizier Lager 83. Gli internati militari sapevano di appartenere ad una categoria che non aveva alcuna protezione di leggi internazionali, né nazionali, che erano privi, perciò, di ogni assistenza dei relativi organismi quali la Croce Rossa. D’altra parte, rifiutando di servire nei ranghi della RSI, gli internati non riconoscevano neppure la stessa, giudicandola non legale, dopo i cambiamenti avvenuti in Italia, e non accettavano una protezione d’altra parte mai richiesta. In condizioni peggiorate, ciascuno sentiva il peso del dramma, per la mancanza di una organizzazione di Resistenza sul piano collettivo, per cui infine assumeva grande importanza, in una massa di migliaia di persone, avere un punto di iniziativa e di riferimento. Il 9 febbraio del 1944, gli internati trovarono nel Tenente Colonnello Pietro Testa, che assumeva la carica di “anziano del campo”, la propria ferma e valida rappresentanza, continuando “la strada della Resistenza” e rafforzandola. Aggiunge il nostro comandante nelle sue memorie: «C’era un conforto per seguire questa strada ed era costituito dalla tenace opposizione per parte della gran massa di ufficiali e soldati al nemico tedesco (2). A sostegno di questo indirizzo sorsero varie attività, come quella spirituale di rito cattolico ed evangelico, l’attività culturale, la biblioteca, il teatro. In tutte queste iniziative era stata inserita una capillare organizzazione resistenziale, che ebbe la sua massima espressione nei gruppi regionali. Queste attività, sottoposte alla sorveglianza tedesca, osteggiate ed alcune volte infine proibite dai tedeschi, avevano prodotto il risultato sperato di portare la resistenza individuale sul piano di una Resistenza collettiva organizzata, che spingeva i nostri carcerieri ad individuare i “sospetti”, allontanare gli “indesiderabili”, dei quali era massimo esponente il Capitano Massidda. Poi a trasferire nei campi di punizione “i colpevoli”, ricorrendo infine alle più stupide punizioni collettive ed alle colpevoli uccisioni dimostrative “per mancanze disciplinari”». Nonostante tutto, le attività resistenziali continuarono, cercando forme nuove, e continuarono anche quelle avversate dai tedeschi. In risposta al problema dell’Adriatisches Kunstenland, cioè del Litorale Adriatico, che aveva già attirato l’attenzione del Comando italiano del campo in altra occasione, e ad un ennesimo sollecito di adesione rivolto ai residenti nella regione Giulia di allora, in specifiche riunioni collettive e attraverso incontri personali, promossi dal comando germanico, il capogruppo regionale, capitano Silvio Gentile, prendeva l’iniziativa di riunire i residenti della Giulia, in occasione della festività di San Giusto, patrono di Trieste, capoluogo regionale, il giorno 3 novembre. Per difficoltà contingenti però, l’incontro avveniva il giorno 4 novembre, con grave rischio, in coincidenza significativa con la festività nazionale che celebra la fine della Prima guerra mondiale, la sconfitta degli imperi centrali d’Austria e Germania ed il congiungimento della Venezia Giulia all’Italia. La Resistenza non si piegò mai, neanche di fronte all’imposizione del lavoro coatto ed al proposito il nostro Comandante scrive: «Questa massa ha perduto brandelli veramente sanguinanti, ha chinato il capo solo per salutare i propri morti ed ha saputo seguire la via che si era tracciata fin dai primi giorni di lotta... Qui è il valore eccezionale di migliaia di uomini… Di questi 6.000 ufficiali, circa 2.000 uscirono dal campo perché costretti e 4.000 ebbero la disgrazia di restare ancora dietro il filo spinato».
Note
1) Testimonianza di Carlo Cavina in Scorci di vita, pag. 151, Brisighella 1996: «…fummo avviati verso una destinazione ignota e quel viaggio, ci fecero intendere, poteva essere senza ritorno».
2) Pietro Testa, Wietzendorf, pag. 73, Firenze, 1947.
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1944: scesero in paese dalla montagna per stare con la gente
Quei partigiani in chiesa il giorno di Natale
Il nostro lettore Ivaldi Grassi di Zuglio (UD) ci prega di ripubblicare questo brevissimo racconto resistenziale firmato da Natalino Sollero e comparso su un giornale locale alcuni anni fa. Lo accontentiamo.
«Era il giorno di Natale del 1944. I fedeli di Paularo si erano raccolti in chiesa per la messa. AI canto del Kjrie eleison, ecco un suono di scarpe chiodate. Nella chiesa apparve un gruppo di uomini in giacca di pelle nera con il mitra a tracolla. Erano partigiani che conducevano una vita disperata tra i boschi della valle. Avevano la fama di duri e di essere pronti a sparare. Ma era Natale anche per loro ed erano arrivati lì, in quella chiesa, per partecipare in qualche modo alla festa. Il sacerdote fece un cenno al capo, un personaggio tanto famoso quanto temuto. Gli chiese di affiancarsi a lui sull’altare. Abituato a dare ordini e non a riceverne, quello fu preso alla sprovvista e non poté sottrarsi al richiamo. Mentre gli altri uomini si mescolarono ai fedeli, il celebrante attaccò il Credo in unum Deum invitando il partigiano a seguirlo. Patrem omnipotentem, tuonò con la sua voce da basso, seguito dagli altri. Ricordavano tutte le parole e cantavano allegri factorem coeli et terrae, visibilium omnium invisibilium. Il parroco, capo della comunità religiosa, prese il braccio dell’uomo e insieme cantarono et unam sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam. Così fino all’amen. All’ite missa est, le scarpe chiodate infilarono una porticina laterale, quella che dava sulla strada, per sparire nel gelo dei monti. Era il Natale di una buia giornata di storia, i partigiani avevano durante la messa cantato e sorriso. Ora per essi ricominciava una vita durissima».
Patria indipendente, dicembre 2007