Patria indipendente
Ci ha lasciato il famoso giornalista e scrittore
E il partigiano Enzo Biagi intervista Reder su Marzabotto
Noi lo ricordiamo con uno dei suoi tanti scritti sulle stragi naziste Se n’è andato Enzo Biagi, maestro di giornalismo e partigiano di “Giustizia e Libertà”. Ci ha lasciato a distanza di cinque anni dal tristemente noto “editto bulgaro”, pronunciato il 18 aprile 2002 a Sofia da Silvio Berlusconi, che lo accusava di aver fatto «un uso criminoso e personale della televisione pubblica», in associazione con il giornalista Michele Santoro ed il comico Daniele Luttazzi. Tutto per un’intervista a Roberto Benigni, andata in onda nella sua trasmissione Il fatto, proprio alla vigilia delle elezioni che avrebbero portato il Cavaliere a Palazzo Chigi per la seconda volta. Biagi, col distintivo della sua formazione partigiana sul petto, riposerà nel cimitero di Pianaccio, suo borgo natale in provincia di Bologna. Ai funerali, celebrati in una piccola chiesa arrampicata sull’Appennino, erano presenti i massimi rappresentanti delle istituzioni e della politica, insieme ai direttori dei giornali per i quali Biagi aveva lavorato e a molti altri colleghi che hanno voluto rendergli omaggio. Ma soprattutto, per salutarlo un’ultima volta, sono accorsi tanti cittadini e tanti anziani partigiani che al termine della funzione religiosa lo hanno accompagnato intonando con un coro la canzone Bella ciao. Come hanno ricordato l’amico e conterraneo cardinale Ersilio Tonini e l’amico partigiano “Checco” Berti Arnoaldi Veli, «Enzo Biagi ha sempre rivendicato nel suo lavoro e in tutta la sua vita i valori della Resistenza, gli ideali di una scelta compiuta quando aveva 23 anni, sostenuta fino all’ultimo istante con coerenza e dignità». Patria indipendente vuole ricordare l’impegno del grande giornalista riproponendo una intervista realizzata da Biagi al maggiore delle SS Walter Reder, condannato per la strage di Marzabotto, e le testimonianze di alcuni superstiti dell’eccidio. Il testo è tratto dai fascicoli 1943-1993 Enzo Biagi, pubblicati dal settimanale “Sette” de Il Corriere della sera in occasione dei cinquant’anni dall’inizio della Resistenza.
D.D.P.
Marzabotto: Comune agricolo della provincia di Bologna sulla Porrettana, a fondo valle scorre il fiume Reno. La popolazione, millesettecento abitanti, lavora nelle campagne, rotte dai calanchi e dal verde dei boschi, e attorno ci sono monti che si chiamano Sole, Venere, Salvaro, Santa Barbara, e che raggiungono anche i mille metri. La zona è povera, c’è un unico stabilimento, una cartiera. Una volta da queste parti vivevano gli etruschi e si conservano i resti di una città che forse si chiamava Misa, distrutta dall’invasione dei Galli, quattrocento anni prima che nascesse Cristo, e mai più riedificata. «Dunque, nel pomeriggio, radunai i comandanti di compagnia e il mio aiutante scrisse gli ordini. Disponevo in tutto di quattrocento uomini e non credo che il piano comprendesse l’impiego di più di mille. C’erano anche dei mongoli russi. Nessun carro armato. La Flack avrebbe sparato per proteggerci, dovevamo raggiungere le posizioni di partenza all’imbrunire. L’attacco era previsto all’alba, ore 5, obiettivi Monte Sole e Monte Caprara. Comunicazioni con radio e portaordini: impossibile l’uso del telefono per l’asperità del terreno. Gli autisti dovevano portare avanti le munizioni e indietro i feriti. Finito il rapporto andai a letto e mi addormentai». Il maggiore Walter Reder arriva sempre con la borsa piena di documenti. Contiene memorie difensive, lettere di rettifica ai giornali, mappe che riproducono la zona di Marzabotto, ritagli. È entrato in carcere nel 1945, e la sua polemica con la giustizia italiana è durata a lungo. «Se fosse stato cittadino o ufficiale di questa Repubblica», ha scritto in un rapporto il suo avvocato «e se avesse commesso gli stessi fatti, per effetto delle amnistie e dell’indulto sarebbe in libertà da molti anni». «Quelli che diedero gli ordini – spiega Reder – il maresciallo Kesselring, il comandante della 16° divisione granatieri “Reichsführer SS”, generale Max Simon, condannati a morte, furono poi graziati».
– Vuole che parliamo di quel giorno?
«Era il 29 settembre 1944, un venerdì, e tutto cominciò verso le 6. Albeggiava, il tempo era brutto, e ogni cosa è grigia nel mio ricordo. Scattò l’attacco, ma la radio non funzionava sempre per colpa dei burroni. Non era facile mantenere i contatti. Verso le 10, al mio comando arrivarono Simon e il maggiore Loos; nel settore assegnatomi le truppe incontravano la più forte resistenza. Si vedevano i primi fuochi. Loos era con un interprete, iniziò l’interrogatorio dei prigionieri concentrati a Sasso Marconi, i miei ne avevano catturato una decina. A mezzogiorno il generale se n’è andato. La lotta era dura. Ci siamo trovati contro anche dei russi in divisa tedesca, non ho mai saputo dove sono andati a finire. Ho avuto ventiquattro morti, fra i quali un certo tenente König, e una quarantina di feriti. Nel pomeriggio ho mandato il mio aiutante in seconda sulle colline, per vedere quello che stava accadendo, è tornato con la spallina di una divisa, c’era sopra una stella rossa; l’abbiamo mostrata a un partigiano che l’ha riconosciuta: “È del Lupo”, per questo si è detto che il comandante della brigata ribelle era caduto sul campo». Nella prima pagina de Il Resto del Carlino del 29 settembre 1944 si leggono questi titoli: “Nell’annuale del patto tripartito”; “Un messaggio del Duce agli italiani e ai popoli alleati”; “Ulteriori danni a Londra provocati dalle V1”; “Il passaggio dall’Olanda al Reno sbarrato alle forze di Montgomery”; “Pressione contenuta sull’Adriatico e sull’Appennino”; “Forte disoccupazione in Finlandia come primo risultato della capitolazione”. In cronaca, niente di particolare: aumentano le tariffe postali, distribuzione di cento grammi di burro, al cinema Manzoni si proietta il film Imputato, alzatevi, con Macario. Unica nota drammatica: “Sette colpi ladreschi”, un orologio d’oro, una bicicletta, delle bottiglie di cognac, una macchina per scrivere. Il più danneggiato è un droghiere di via S. Isaia che ci rimette quarantacinque chili di zucchero, due fiaschi d’olio e duecento saponette.
– E poi, signor Reder? Cosa accadde il giorno dopo?
«C’era da ripulire il terreno da sparuti gruppi di sbandati, ma al mattino ricevetti l’ordine di ritirare subito i reparti e di trasferirmi a Lagaro, perché durante la notte gli americani avevano fatto irruzione, dovevo contrattaccare e ristabilire la linea. Quando fu buio ci muovemmo e li ricacciammo indietro. Ho messo piede a Marzabotto soltanto la sera del 4 ottobre. Il paese era intatto. Arrivai a Cerpiano, un villaggio, il 5 mattina. Ho visto che la chiesa e le case di Casaglia erano bruciate, c’era un grande silenzio. Nessuno mi ha detto niente. Durante la giornata sono arrivati gli Alleati che hanno localizzato il mio comando, perché si vedevano le antenne degli apparecchi riceventi. Hanno cominciato a sparare e siamo andati tutti in cantina, anche i civili, abbiamo bevuto, io stavo dormendo, un amico è venuto a svegliarmi, mi ha detto: “C’è una ragazza, io ci sono stato”, ma io non l’ho violentata, io ero ubriaco, avevo sonno, non ho fatto nulla, ho in mente solo donne di mezza età, c’era anche una bambina, non ricordo più». Dichiarazione di Walter Reder fatta durante un interrogatorio: «Il comando del mio battaglione prese alloggio in due case d’abitazione: in quella da me occupata trovammo alcune donne e due o tre uomini. Ce n’era una ferita a una gamba che poche ore dopo il nostro arrivo si allontanò. Delle tre rimaste, due erano piuttosto anziane e una giovane. Ci facemmo preparare i cibi e servire a tavola. Nego nel modo più reciso di essermi congiunto con una di loro, o di avere comunque usato verso le stesse o verso altre violenza o minacce». Confronto fra la ragazza e il maggiore delle SS Walter Reder. «Si ricorda che la mattina del secondo giorno, verso l’alba, lei venne nella camera dove ero stata costretta a recarmi da un ufficiale di corporatura robusta, di colorito bruno e dai capelli neri, e dopo che lui uscì, lei si coricò sul letto dove io mi trovavo e tentò ripetutamente di unirsi con me tenendomi stretta e cercando di vincere la mia resistenza? Che di fronte alla mia opposizione, mentre non riuscì a violentarmi, mi obbligò a compiere certi atti? Che rimase al mio fianco diverse ore, durante le quali ogni tanto si addormentò?». «Non ricordo affatto quanto lei dice. Però, in coscienza, non posso neppure escluderlo, dato che la sera precedente io, più degli altri ufficiali, avevo bevuto molto vino e molti liquori, fino a ubriacarmi».
– Dov’era, signor Reder, alla fine della guerra?
«Ero in Stiria, in un ospedale. Presi la divisa e la pistola e uscii, perché volevo andare prigioniero con i miei uomini. Ma tutto era ormai finito».
– Quando seppe che i fatti di Marzabotto le avrebbero procurato dei guai?
«Subito, fin dall’ottobre del 1944. Ascoltai Radio Bari che diceva che ero un criminale di guerra. Mi hanno preso nel settembre del 1945, e l’ufficiale americano che mi ha avuto in consegna mi ha dato il permesso di raggiungere una Gasthaus dov’erano i miei genitori perché potessi salutarli. Poi sono stato per due anni a Wolfsberg, un campo inglese, e c’erano anche Kesselring, Simon, Mackensen, Mältzer, e ho avuto tante occasioni per fuggire, ma eccomi qui. Ho saputo che i morti di Marzabotto erano in gran parte civili quando ero nel campo di concentramento americano, da un maresciallo. I caduti del mio settore erano 270-300; non sono io il comandante dell’operazione, anche quelli di Pioppe di Salvaro vengono addebitati a me, dalla Toscana, da Sant’Anna in su una sola traccia di dolore, dicono, e per colpire, me, per ferire “il mostro”. Stellacci, l’accusatore del processo, detestava le SS, disprezzava tutto quello che è tedesco. Dopo la sentenza è venuto in carcere. “Lei mi odia?”, mi ha chiesto. “Io no, io non odio nessuno”. Ma non doveva dire: questo assassino, queste mani che grondano di sangue. Nessuno è colpevole, in Inghilterra, in America, fino alla sentenza. Mi spiego: per me non si trattava di una rappresaglia, ma di un’operazione militare. E poi, di quale giustizia si parla? Kesselring fu libero dal 1952, Simon dal 1954, e sono i miei superiori. Stellacci chiese la condanna a morte perché ci sarebbero stati dei bruciati vivi coi lanciafiamme, ma non era vero, allora ha dovuto ripiegare sull’ergastolo, ma la sua domanda non mi fece impressione».
– Che cosa spera, signor Reder?
«Spero di tornare fuori, in Austria. Gli amici, i parenti mi hanno proposto tante cose. Forse mi dedicherò al commercio».
– Lei prega mai?
«Resti tra noi: io prego ogni sera per mia madre».
– Io penso che se la liberano lei diventerà un mito per certa gente, il simbolo di qualcosa che è bene dimenticare.
«No, lo so, capisco, ma io non mi presto».
– Non le pesa sentire associato il suo nome a quello di Marzabotto?
«Non sono mai stato là nei giorni dal 29 al 1° ottobre. Marzabotto non ha niente a che vedere con Lidice o con Oradour, non è una rappresaglia, ripeto, ma un’operazione militare, quante volte devo dirlo, nella quale si mescola anche la popolazione civile, armata e no. Dico: non sono mai stato nel paese, nella località chiamata Marzabotto, formata da case, da strade, da una chiesa».
* * *
Testimonianza del soldato Julien Legoll:
«La notte dal 28 al 29 settembre 1944, la 1a compagnia del 16° battaglione della 16a divisione SS Reichsführer, assieme al plotone mitraglieri di fanteria al quale appartenevo, furono radunati a Montorio, dove noi eravamo stati accantonati per tre o quattro giorni. Il comandante della 1a compagnia Obersturmführer Segebrecht ci indirizzò allora alcune parole dicendoci che stavamo per entrare in azione contro i partigiani e che avevamo l’ordine di fare rappresaglie sparando indiscriminatamente su tutte le persone nelle vicinanze, qualora fossimo stati fatti segno a fuoco mentre eravamo in marcia. Aggiunse che queste disposizioni erano giunte dal comandante maggiore Reder. Furono distribuite le munizioni e poi ci mettemmo in marcia verso le ore sei del 29 settembre. La 1a compagnia attaccò due case coloniche senza incontrare alcuna resistenza e tirò fuori gli inquilini: circa trenta civili in tutto, due dei quali erano vecchi, gli altri donne e bambini. Questi civili furono allineati di fronte a un muro e mitragliati da un soldato di cui non ricordo il nome, su ordine dell’Obersturmführer Segebrecht. I cadaveri vennero lasciati dove erano caduti, gli edifici dati alle fiamme. Distavo circa quindici metri da Segebrecht quando l’udii dare l’ordine: “Fucilarli tutti subito”. Dopo una marcia di circa mezz’ora vedemmo tre donne e tre o quattro bambini che scappavano via di fronte a noi. Non appena essi furono individuati, il sottufficiale incaricato del plotone mitraglieri Unterscharführer Wolf diede l’ordine di sparare su di loro. Due militari di cui non posso ricordare i nomi corsero al loro inseguimento e li vidi sparare su di essi da una distanza di dieci-venti metri. Alle 9.30 circa giungemmo a una casa colonica solitaria, fuori dalla quale vidi due donne e tre o quattro bambini. Senza alcun ordine, un militare della prima compagnia, che io non conosco, corse avanti e, dopo aver piazzato la sua mitragliatrice a terra, aprì il fuoco e li uccise. I cadaveri vennero lasciati lì e la casa bruciata. Ritornammo sui nostri passi, ci arrampicammo su un’altra collina e, verso le ore 15, ci imbattemmo in un piccolo gruppo di quattro civili (un vecchio di circa settant’anni, una donna, una ragazza e un ragazzo dell’età di quattordici-quindici anni). Due militari del plotone mitraglieri di fanteria, uno dei quali era lo Sturmmann Pielter, avanzarono senza alcun ordine e spararono col fucile a una distanza di quaranta-cinquanta metri. Furono lasciati dove erano caduti. Giunti di fronte a un villaggio aprimmo un violento fuoco contro le case. Udimmo le grida di una donna spaventata. Il sottufficiale comandante la 3a sezione, Rottenführer Knappe, si fece sotto una finestra e senza guardare dentro vi gettò una granata a mano. Quattro di noi entrarono nell’edificio e vi trovarono una vecchia morta».
Questa è la testimonianza della maestra d’asilo Antonietta Benni:
«A un certo momento la porta si aprì, io vidi che i tedeschi avevano le bombe a mano, allora dissi: “Dite l’atto di dolore, qui ci ammazzano tutti”. Ma feci appena in tempo a dire così che cominciarono a buttare dentro delle bombe e a sentirsi gli urli della gente che voleva, provava a scappare, ma dove?, perché non potevamo uscire da nessuna porta. Di quarantanove persone ci siamo salvate in tre, di sedici bambini ne sono morti quattordici e quelli che erano rimasti vivi non facevano altro che urlare».
Testimonianza di Laura Musolesi, sorella del Lupo, raccolta da Renato Giorgi:
«Il 29 settembre 1944 l’Ornella venne da me dicendo che i tedeschi avevano incendiato diverse case. Non ci credevo. Feci una corsa su un’altura e i miei occhi non videro altro che case e fienili in fiamme. Tutto a un tratto sentii dei colpi e dei lamenti. Scappai per avvertire quelli della casa dove abitavo di mettersi in salvo con la roba e il bestiame. Anch’io cercavo di portare via qualche cosa. Ma vidi i tedeschi a poca distanza. Allora corsi per nascondermi, con Bruno che avevo con me. La signora Fanti mi mandò dietro sua figlia pregandomi di rimanere, tornai indietro e con altre donne e bimbi andammo in un rifugio. Eravamo in diciotto. Il primo nazista che spuntò dalla cantonata della casa sparò contro l’imbocco del rifugio, colpì una donna a un braccio. Poi ne giunsero altri, il comandante della squadra dette ordine di prenderci fuori, ci misero in gruppo di fianco al rifugio, ci portarono via tutto. Ci chiedevano se avevamo dell’oro, strappavano la fede a quelle che l’avevano, gli orologi da polso, frugavano nelle borsette, fracassavano le valigie, distruggevano tutto quello che non avrebbero potuto portare con sé, si contendevano i fiammiferi e le sigarette. Intanto noi avevamo la mitraglia puntata contro da circa mezz’ora, già pronto il nastro delle cartucce, in attesa di essere massacrati. Un tenente delle SS girava avanti e indietro impaziente, poi si avvicinò alla mitraglia. C’era un italiano, un milite delle Brigate Nere, e il tenente gli parlò in tedesco. Io guardavo da tutte le parti dove potevo scappare, ma i miei occhi non vedevano che nazisti armati. Mi sentivo la morte vicino e una gran sete. Il tedesco ci fece cenno che stessimo più uniti, quello delle Brigate Nere era proprio contro la mitraglia. Dissi alla signora Fanti: “Ci ammazzano come cani!”. Le vidi la morte in volto, era colore della terra. Non capivo più nulla. Solo sentivo dei bambini piangere e gridare: “Non abbiamo fatto nulla, non vogliamo morire”, e si aggrappavano alla giacca del tenente che li respingeva. Anche le donne gridavano e pregavano di non ucciderle. Questo durò un poco, era straziante. Mi accorsi che anch’io gridavo forte: “Non voglio morire!”. Staccai dalla sottoveste una “benedizione” che avevo avuto sempre con me, mi feci il segno della croce dicendo: “Cristo salvami, ho una bambina che ha bisogno di me”. Allora il tenente fece segno di abbassare la mitraglia, e disse: “Nicht kaputt!”. Il milite lo guardò come per chiedergli se dovesse sparare o no. Lui fece l’occhietto, e mi bastò per capire tutto. La mitraglia cominciò a sparare, la prima pallottola fu la mia, mi passò tra le gambe. Vidi Burzi abbattersi, Bruno pure. Lasciai il gruppo correndo come una pazza, mi buttai in mezzo a un groviglio di spini e di more. Un tedesco mi vide, accennò a un altro dove ero nascosta, questi mi trovò subito, io lo pregai di lasciarmi stare, ma lui stizzito mi rispose in tedesco e io capivo che voleva dirmi che, se erano morti gli altri, dovevo morire anch’io. Però non gli riusciva di mettere in canna la pallottola. Appena poté mi sparò alla testa, ma non mi colpì benché fossi molto vicina: io mi alzai lasciando la mia roba, corsi via alla disperata: tutti mi sparavano dietro. Feci una piccola salita: una fucilata mi prese al braccio destro, ma continuai a correre e mi fermai dietro a un albero grosso, per vedere da che parte mi sparavano. Ma quando mi staccai dall’albero, una pallottola di mitraglia mi colpì alla spalla e al braccio sinistro. Caddi in ginocchio, sentivo il sangue correre per il corpo senza alcun male, e non avevo più forza nelle braccia».
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– Signor Reder, nessuno dei suoi aiutanti le ha mai parlato di quei caduti, di quella gente, contadini, vecchi, preti, ragazzi?
«Per soldati che fanno da quattro anni la guerra i morti sono naturali. Li ho visti anche in Russia. Molti camerati che andavano in licenza dicevano: “Non ho trovato più la mia casa, ho visto dei cadaveri nelle strade, non ho più notizie dei miei amici”, non sapevano che cosa fare e qualcuno tornava prima. Questa è la guerra e questi sono i suoi brutti frutti».
– Quando finì per lei?
«Il 5 maggio 1945, a Graz, e in modo onorevole. Io sapevo che ero ricercato, ma non mi sono mai mosso. In settembre, una donna mi ha denunciato a un gendarme che mi ha detto: “Voi siete nella lista”. Come sa, venni interrogato da un ufficiale del Cic ed ebbi alcuni giorni di permesso sulla parola per sistemare le mie faccende personali. Dopo una settimana mi presentai in carrozzella. Erano con me Bertha e i miei genitori, e il capitano mi disse: “Ero certo che lei sarebbe tornato”».
– Che cosa le manca di più?
«I miei cari, il loro affetto di ogni giorno. Li vedo solo quando possono venire. Ma la corrispondenza per me è come un colloquio». Reder toglie dalla borsa un ritaglio di giornale: «Conosce questo articolo?». «L’ho scritto io». «Lei pensa ancora che io sia un volgare assassino?». «Io credo anche alla responsabilità di chi permette che altri uccidano, come fu ucciso a Marzabotto. Io non credo che lei possa sparare freddamente su donne e bambini. Ma non sono il suo giudice. Nella lettera indirizzata al sindaco di Marzabotto per chiedere perdono lei parla di “rimorsi sempre più pungenti”. A me basta».
Patria indipendente, novembre 2007