Patria indipendente

Un testimone greco di quei giorni terribili racconta

“Ho visto i soldati italiani a Rodi ma i nazisti li uccisero tutti”

La fortezza dei Cavalieri di San Giovanni e una lapide ridicola. Proteggere le rotte dopo l’occupazione della Libia

di Leoncarlo Settimelli

 

«Una faccia, una razza!»: quante volte ho sentito da un greco questa battuta, seguita sempre da una grande pacca sulle spalle. È una battuta che reca implicita l’insensatezza delle gesta militari italiane che volevano «spezzare le reni alla Grecia», a fronte della stessa miseria, degli stessi affanni, della stessa natura contadina dei due popoli. Puntualmente me la sono sentita ripetere da Santris Iconomidis, un contadino che vendeva olio, mandorle dolci, miele e frutta nei pressi di Monolithos di Rodi e che esponeva la sua merce su uno sgangherato camioncino. «Assaggia questo» mi aveva detto Santris vedendomi arrivare. Stava tagliando una fetta di cocomero e quando mi offrii di pagare mi disse che non era necessario. Parlava un italiano corretto e mi chiese che cosa ci facevo solo solo su quella strada che portava ai ruderi del castello di Monolithos. Ahimé, avevo dovuto spiegargli che soffrivo di vertigini e siccome la strada lasciava vedere là in fondo il mare, ero sceso dall’auto in preda al panico, dicendo alle mie amiche che avrei atteso lì il loro ritorno. Al che Santris era scoppiato in una gran risata e aveva fatto un salto verso lo strapiombo, restando in bilico su un muretto e facendomi venire un nuovo attacco di panico. Poi aveva chiesto: «Sei italiano? Hai fatto qui la guerra?» Cristo, apparivo dunque così vecchio? «Sono del ’37 – gli spiegai – come posso aver fatto la guerra?» «Io sono del ’30 e l’ho vista, amico» aveva allora precisato Santris. «Qui erano tanti i soldati italiani. Questa strada l’hanno fatta loro. Non era asfaltata come adesso, ma l’hanno fatta loro. Io ho visto tutto, stavo sempre con loro e così ho imparato l’italiano». Lo sapevo. Lo sapevo che sono uno di quelli che ovunque vada in vacanza ha il vizio della memoria, della ricerca delle tracce della nostra storia. Ma come, mi ripetevo, sono qui per lasciarmi galleggiare su questo mare di cristallo e mi capita proprio uno che ha visto la guerra? Come posso sottrarmi? Ed ecco che lo interrogo, mi faccio raccontare, scatto foto. Quest’uomo, mi dico, ha 77 anni ed è fresco come una rosa, salta sui muretti e – rifletterò in seguito – ha una memoria di ferro e parla l’italiano in maniera perfetta. Sicché voglio che il discorso vada avanti. «Avevo 13 anni e ricordo tutto benissimo – mi racconta Santris –. I soldati italiani erano qui per controllare la costa occidentale dell’isola, naturalmente dopo la caduta del fascismo insieme ai tedeschi. Li ricordo affamati come lupi, perché il cibo non arrivava. Passavano i giorni e non avevano nulla da mangiare. Solo una volta arrivarono quelli della Croce Rossa e distribuirono dei biscotti, ma fu come gettare un secchio d’acqua nel mare». Ma che ci facevamo noi italiani a Rodi, in quest’isola che non ha alcuna ricchezza se non quella di un mare trasparente che richiama migliaia e migliaia di turisti avidi di sole? In quest’isola riarsa, dalla temperatura che si aggira sempre attorno ai quaranta gradi? Facevamo sfoggio di colonialismo e, vinta la guerra contro la Turchia, nel 1911 ci eravamo insediati su quel sasso per proteggere l’accesso alla Tripolitania. Così i nostri soldati vi si aggiravano stravolti, lontani com’erano dalla patria e quando Mussolini venne defenestrato, dovettero fare i conti con i tedeschi che li considerarono tutti traditori badogliani e li sottoposero e vessazioni umilianti e a grandi sofferenze. Mi tornava alla mente il libro del fiorentino Silvano Lippi che raccontava della fame dei soldati italiani a Rodi, di un asino che si spezzò le gambe e che i tedeschi finirono a pistolettate e ordinarono di seppellire. Nottetempo, l’asino venne esumato e fatto a pezzi dai nostri soldati e per qualche giorno Lippi e i suoi compagni poterono mangiare. «I soldati – prosegue intanto Santris – non ce la facevano più a stare in piedi. Li vedevo camminare a passi piccolissimi, trascinando le gambe. Una volta arrivò un pezzo grosso e li passò in rassegna. “E questi sono quelli che dovrebbero dare la grandezza all’Italia?” disse beffardo». «Cosa accadde con l’8 settembre, te lo ricordi?». «Come no. Gli italiani diventarono traditori e i tedeschi cominciarono a trasferirli verso il Pireo ma che io sappia furono tutti buttati a mare. Che brutta storia, amico!». Poi mi chiede di Berlusconi e dimostra di essere bene informato sulle cose italiane, quando mi dice sottovoce: «Mi pare che assomigli un po’ a Mussolini». Arrivano dei turisti ungheresi e Santris torna al proprio mestiere di venditore di prodotti da lui stesso realizzati. Prima di salutarlo, prendo due bottigliette d’olio per quattro euro e lui mi assicura che è il miglior olio di Rodi. Purtroppo, all’aeroporto mi sequestreranno le due bottigliette e del mio incontro con questo simpatico contadino non resteranno che le foto. Ma ora so che Santris mi ha aperto una porta che non sarà facile chiudere. Perciò sento la fretta di visitare Rodi, la capitale, e la sua fortezza, quella dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme e di andare verso il Palazzo del Gran maestro, che – spiega una guida insolitamente attenta, pubblicata dalla Michelin – «fu distrutto nel 1856 dall’esplosione di una polveriera e rifatto poi nel 1939-’40 dagli italiani in uno stile più decoroso per assolvere funzioni di rappresentanza, giacché avrebbe dovuto ospitare, durante le visite ufficiali, il re Vittorio Emanuele III e Mussolini…». Che io sappia, né il Re né Mussolini visitarono mai Rodi, ma le tracce della presenza italiana restano evidenti in questo enorme palazzo che viene visitato da migliaia e migliaia di turisti. A cominciare dalla corona dei Savoia in rilievo sopra all’ingresso e nel cortile interno e da una grande lapide con caratteri in oro che dice: «Regnando Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia e di Albania, imperatore d’Etiopia, essendo Duce del Fascismo capo del governo Benito Mussolini, Cesare Maria De Vecchi conte di Val Cismon, governatore delle Isole italiane dell’Egeo, questo antico castello edificato dai Cavalieri di San Giovanni sopra inviolati baluardi romani, sede del Governo, cittadella della fortezza di fesa della civiltà occidentale del diritto e della religione di Roma, restaurò e ricostituì ridonando potenza e splendore alla sua storia rinnovata l’anno del Signore 1940, XVIII dell’Era Fascista». L’incarico di governatore del Dodecaneso era stato conferito a De Vecchi dopo il suo fallimento quale ministro dell’Educazione nazionale ma questa lapide suona ancora più ridicola se si pensa che De Vecchi fu tra i firmatari dell’ordine del giorno che il 25 luglio sfiduciava Mussolini, che fu condannato a morte (insieme a Ciano e agli altri che si schierarono contro il duce) in contumacia dal Tribunale speciale istituito dalla Repubblica di Salò e che si salvò solo nascondendosi in un istituto religioso. Dopo la guerra fu condannato anche da un tribunale della risorta Italia ma gli venne salvata la vita in considerazione della sfiducia a Mussolini. Quanto agli «inviolati baluardi romani» non fu forse Solimano il Magnifico a espugnare la cittadella di Rodi sottraendola ai Cavalieri di San Giovanni? Uscendo dal palazzo, molte altre corone dei Savoia fanno bella mostra lungo il muro di cinta. Quanto ai rifacimenti interni, c’è qualcosa che nel grande cortile ricorda Palazzo Venezia. Sono i finestroni che si intravedono sulla destra, squadrati e niente affatto in linea con l’andamento medievale del resto. Ora il Palazzo è un museo dei Cavalieri di San Giovanni ed è affollatissimo di turisti: alcuni dicono sottovoce «lo vedi, il fascismo ha fatto anche qualcosa di buono», altri – e spero la maggioranza – si rendono conto che la nostra presenza a Rodi era inutile e comunque costituiva l’occupazione illegittima di un territorio altrui che, dal 1948, è tornato orgogliosamente a far parte della Grecia. Ma la presenza italiana si fa vedere anche altrove, in questa cittadella, e specialmente nel quartiere ebraico che a causa delle leggi razziali del fascismo fu completamente distrutto e reca i segni di una memoria che i pochi ebrei tornati a Rodi tengono viva con grande sacrificio.

(continua)


Dopo la promulgazione delle leggi razziali

Quando fascisti e nazisti “ripulirono” Rodi dagli ebrei

A migliaia spediti nei lager. Pochissimi ritornarono. Il racconto di Samuel Modiano

di Leoncarlo Settimelli

 

Rodi. Rispetto al Palazzo del Gran Maestro – trasformato dal quadrunviro fascista De Vecchi per renderlo degno del Re e del Duce – il quartiere ebraico si trova dalla parte opposta della Cittadella. Devi fare tutta la via Socrate, poi l’Aristotele (sembra di camminare su un libro di scuola), in mezzo a una sfilata continua di negozi di ogni tipo, in un caldo infernale. Un po’ di ombra ti viene incontro solo in piazza Martiron Evreon – ossia la piazza dei Martiri Ebrei – dove i turisti esausti, siedono ai margini del giardino e pochi si accorgono del monumento che vi è posto: una stele di pietra nera che su ognuno dei quattro lati, sotto il disegno della stella di Davide e alternativamente del candelabro ebraico, o di un ramo di olivo, ricorda i duemila deportati ad Auschwitz, dei quali solo alcuni tornarono. È una scritta in inglese, francese, italiano e greco. Da lì comincia il quartiere ebraico, la “Juderia”, quella che – mi diranno dopo – non era un ghetto ma un vero quartiere, che conviveva con quello turco, vicino alle moschee di Mustafà e di Solimano. C’era pieno rispetto tra gli uni e gli altri, da quasi cinquecento anni, cioè dal 1577, quando gli ebrei di Spagna furono cacciati dall’inquisizione e approdarono un po’ ovunque nel Mediterraneo. Presero il nome di sefarditi da “Sefarad” che in ebraico significa Spagna e a Rodi sbarcarono in migliaia. Vado in cerca della Sinagoga e una freccia ne indica la collocazione in Odos Simiu. È la sinagoga Kahal Shalom, che sorge in un fresco giardino alberato. Sul muro esterno colpisce subito la mia attenzione una grande lapide sulla quale, in francese, si ricordano i duemila martiri uccisi ad Auschwitz. Ma non sono duemila i nomi che vi compaiono. Sono un centinaio e indicano che quei nomi appartengono a famiglie numerose che furono tutte deportate. Ci sono nomi che sembrano italiani, come Algranti, Arditi, Billi, Cori, Franco, Fresco, Galante, Modiano, Palombo, Treves. Ci sono i nomi che si trovano in ogni paese, come Cohen, Levi, Israel. E poi quelli “locali” come Roditi, Sigura, e quelli che suonano spagnolo, come Angel, Benveniste, Cordoval, Ferrera e tanti ancora. È una lapide che è stata posta nel 1969 da Yehid Charhon e dedicata «alla memoria di mio padre Ascher, mia madre Sarota, mio fratello Jacques e mia sorella Flore, con suo marito H. Levy tutti deportati». Dunque, un cognome, una intera famiglia. O intere famiglie, come gli Alhadeff: con questo cognome – come si evince dal Libro della memoria di Liliana Picciotto – ben 180 persone finirono ad Auschwitz. Scatto una foto e mi viene incontro quello che penso sia un rabbino. Immagino che adesso mi dirà di non fare foto. Invece mi dice «Shalom», mi invita ad entrare e fotografare tutto quello che voglio. Su una panca siede un uomo che mi parla in italiano. Mi dice di chiamarsi Samuel Modiano. «Come quello delle carte da gioco», dico. «Sì, ma quello è di Vicenza. Io invece sono nato qui e qui vorrò morire. Da dove venite?», chiede a sua volta. Quando gli dico «Roma» il suo volto si illumina. E cita il nome di Veltroni, perché con il sindaco e con Pietro Terracina – anche lui sopravvissuto ad Auschwitz – è andato più volte a raccontare ai ragazzi delle scuole romane la storia della deportazione nei lager. Mi mostra il suo braccio sinistro, con un numero marchiato. «Anch’io fui deportato ad Auschwitz ma fui più fortunato degli altri e riuscii a tornare. Ora potrei vivere a Roma, dove ho molti amici, ma debbo testimoniare qui la storia degli ebrei di Rodi». E racconta dei cinquemila ebrei rodioti che alla promulgazione delle leggi razziali fasciste (dove era scritto espressamente che le leggi si applicavano anche nei possedimenti dell’Egeo) si divisero tra chi subito temeva il peggio e chi invece pensava che si trattasse di un vento passeggero. Come accadde in Italia, del resto (vedrò poi in una piccola mostra allestita sul retro della sinagoga di Rodi, una foto della biblioteca ebraica di allora con un grande ritratto di Mussolini). Sicché più della metà, quasi tremila persone, emigrarono in Australia, in Sudamerica o negli Stati Uniti. Gli altri duemila restarono e nel 1944 finirono ad Auschwitz. Non mi va di sollecitare a Modiano un racconto particolareggiato di quegli eventi, che del resto si può trovare sempre sul Libro della memoria. Dove è scritto che nel luglio del 1944 le SS emisero una ordinanza secondo la quale «entro 4 giorni – scrive la Picciotto – tutta la popolazione ebraica dell’isola doveva essere concentrata nella città di Rodi… Il 18 luglio… sopraggiunge l’ordine per tutti i maschi sopra i 15 anni di presentarsi l’indomani alla Gestapo con le carte d’identità e di lavoro. Il luogo designato era l’edificio già sede del comando dell’aviazione italiana a Tehemelink… Alla data stabilita, gli ebrei si ritrovarono tutti riuniti nel giardino posteriore dell’edificio. Sequestrati loro i documenti e i permessi di lavoro, i convocati non furono più rilasciati… Il mattino seguente fu comunicato il loro imminente trasferimento: le mogli e i bambini avrebbero dovuto raggiungere la caserma, pena la fucilazione, con gioielli e denaro. Le donne, ansiose di rivedere i padri e i mariti, si radunarono nei villaggi e caricarono i loro averi su due camion. Scesero in città convinte di ottenere il rilascio dei loro cari. Al contrario, furono trattenute anch’esse assieme ai bambini. Il comando dell’aviazione si presentava circondato da un cordone di polizia italiana, non si scorgeva dall’esterno nessun tedesco. Le famiglie, tratte in inganno, entrarono a frotte. All’interno c’erano i tedeschi in attesa davanti a un enorme tavolo. Iniziarono a menar botte e a urlare ordini perché fossero deposti i preziosi. In un disordine indicibile alcune donne si diressero verso i gabinetti per gettare via l’oro, altre verso le finestre per gettare all’esterno oggetti che venivano raccolti dalle guardie italiane… Per tre giorni non vennero distribuiti né cibo né acqua…». «Fu una razzia terribile – racconta Samuel –. Poi ci imbarcarono su dei barconi portacarbone, restammo otto giorni in mezzo al mare. Arrivammo al Pireo e da lì ci misero sui treni». Nel viaggio, con una temperatura altissima, erano morte sette persone, che furono gettate in mare. Giunti al Pireo, alle donne fu riservato un trattamento terribile. Furono separate dagli uomini, denudate dalle SS «alla ricerca di oro e preziosi nascosti e, al minimo cenno di pudore, frustate in viso». «Nel frattempo – aggiunge Samuel – le case e le cinque sinagoghe di Rodi furono espropriate, o vendute. Ma prima ancora, razziate, spogliate di mobili e cose. E chi come me e altri 150 riuscì a tornare non trovò più nulla. Anche quelli che erano emigrati pensavano di tornare, ma oramai non avevano più una casa e il governo greco non ci aiutò in nulla». Parla benissimo l’italiano, il signor Modiano e la spiegazione è anche che i sefarditi di Rodi parlano in “ladino”, una lingua molto vicina alla nostra e derivata dallo spagnolo. «Ma io sono anche di casa a Roma», mi chiarisce Samuel. «La Comunità della vostra capitale mi vuole bene. Pensi che nel gennaio scorso mi hanno fatto il “bar mizvah”…», ricorda compiaciuto. Il “bar mizvah” è la festa per l’ingresso di un ebreo nel mondo adulto, che in genere si celebra a 13-14 anni. «Il “bar mizvah” alla sua età?», domando incredulo. «Sa quanti anni ho? Ne ho settantasette…» «E dunque – incalzo divertito – un po’ tardi per il suo “bar mizvah”». «Beh!, a tredici anni non potei avere il mio “bar mizvah”. Me lo rubarono. La Comunità romana ha pensato allora di celebrarlo adesso e gliene sono riconoscente. È stata una gran bella festa». Mi dice di salutare Pietro Terracina, quando tornerò a Roma. Lo farò, gli prometto. E lo saluto con il classico «l’anno prossimo a Gerusalemme» anche se spero di rivederlo a Roma.

Patria indipendente, settembre-ottobre 2007

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