Patria indipendente

Cifre e dati in una conferenza del generale Franco Angioni

8 settembre: a migliaia i soldati che attaccarono gli invasori nazisti

Un incontro a Portogruaro. L’esercito e la Resistenza. Un Paese che seppe reagire per ritrovare la libertà

 

Sono trascorsi quindici anni da quando il Portogruarese (Veneto orientale, Provincia di Venezia, territorio cerniera tra Veneto e Friuli) ha dedicato per la prima volta la commemorazione del 25 Aprile al ricordo del contributo delle Forze Armate italiane alla guerra di Liberazione: nel 1992 a Concordia Sagittaria dove era presente il Ten. Colonnello, Medaglia d’Argento al V.M., Amos Pampaloni, sopravvissuto della Divisione “Acqui” a Cefalonia. Poi il 25 Aprile scorso, a Portogruaro, dove il generale Franco Angioni (ex comandante della missione italiana in Libano ed ex parlamentare DS) ha illustrato ad un’assemblea molto attenta e partecipe il contributo delle Forze Armate italiane alla guerra di Liberazione. La sensibilità di questo territorio per il contributo delle Forze Armate alla Resistenza e alla guerra di Liberazione si spiega con il notevole numero di caduti locali e provinciali della Divisione “Acqui”, a Cefalonia e Corfu, una trentina, provenienti dal Portogruarese, dal Veneziano, dal Cavarzerano, dal Sandonatese, da Mira e da Chioggia... L’intervento del generale Angioni, molto apprezzato per il rigore della ricostruzione storica – per volontà dell’Amministrazione comunale di Portogruaro – è stato distribuito agli studenti delle locali Scuole superiori. Eccone il testo:

 

Ufficialmente la “guerra di Liberazione” ha inizio in Italia l’8 settembre 1943 e termina il 25 aprile del 1945, quale lotta dichiarata al fascismo e all’occupazione tedesca. In verità questa guerra trae origine da quei movimenti di opposizione, attiva e passiva, armata o inerme, che erano sorti in Italia con l’avvento del fascismo e successivamente, in forma più consistente, durante la seconda guerra mondiale, contro il nazifascismo. Questi movimenti sono passati alla storia con il termine di “Resistenza”. La guerra di Liberazione, quindi, e la confluenza di due elementi diversi: le correnti antifasciste che si erano opposte alla dittatura durante il ventennio e le masse popolari, in uniforme e non, il cui malcontento verso il fascismo si era manifestato in modo sempre più acuto nel corso della seconda guerra mondiale. La guerra di Liberazione non scoppia come una guerra tradizionale, con un atto formale, ma nasce come moto spontaneo, anche caotico e convulso. Le correnti antifasciste della prima ora affiorano alla legalità dopo il 25 luglio del 1943, ma non sono più le stesse di 20 anni prima; così come il popolo italiano, nelle sue classi e strati sociali, risulta profondamente cambiato da come l’aveva trovato il fascismo all’epoca della sua nascita. La maggiore consapevolezza culturale, i grandi sacrifici sopportati, ma soprattutto la convinzione di aver partecipato a una guerra sbagliata, hanno diffuso in vasti strati della popolazione, e anche nei ranghi delle Forze Armate, la voglia di insurrezione. L’entrata in guerra, e oggi la storia ci è di conforto, fu una iniziativa personale di Mussolini, presa anche contro il parere di alcuni gerarchi fascisti e dei tecnici militari, che hanno comunque la grave colpa di non essersi opposti con vigore. Ma certamente la decisione fu assunta contro la volontà del popolo italiano e non contano le “adunate oceaniche” o i 10.000 fascisti assiepati il 10 giugno 1940 in Piazza Venezia (tante sono le persone che quella piazza al massimo può contenere) per affermare che il popolo italiano era tutto favorevole alla guerra! L’entrata in guerra fu un atto di azzardo, nel quale tutta la vita della nazione fu giocata sull’alea della fine imminente della guerra («poche migliaia di morti necessari per la vittoria», come fu dichiarato allora). Non si tenne nel minimo conto dello stato di logoramento e di impreparazione delle Forze Armate, della mancanza di riserve e dell’assenza di materie prime. Vero è che la situazione della realtà economica italiana nel ’40 era disastrosa. L’autarchia – era stata sbandierata come il sistema economico vincente per il popolo italiano – non solo aveva asciugato ogni possibile riserva, ma era stata attuata con la prospettiva della guerra inevitabile e lo stesso fascismo s’era messo in condizioni di non poter tornare indietro. L’autarchia, nei fatti un atto di grande presunzione contro il resto del mondo che aveva decretato le sanzioni all’Italia, combinando gli effetti della sovrapproduzione in alcuni settori con quelli della carestia di guerra, aveva tolto all’economia italiana gli sbocchi, le vie di uscita, qualsiasi possibilità di successo. Spremuto fino all’osso il magro mercato interno, se si voleva mantenere il ritmo vertiginoso dei profitti capitalistici del momento, era inevitabile indirizzare la produzione delle materie trasformate verso nuovi mercati, aprire rapidamente la strada verso l’Europa. Mussolini, con la decisione di entrare in guerra, interpretò soprattutto la volontà del capitale finanziario. Non ci fu esponente del mondo bancario o industriale che esprimesse la sua disapprovazione alla guerra. Il popolo italiano era rimasto estraneo a una decisione così tragica. Anzi, si ritenne che la situazione economica della gran massa degli italiani era divenuta così insostenibile che, malgrado tutto, la guerra sarebbe stata una liberazione sia per il milione di lavoratori disoccupati permanenti, sia per le tante famiglie sospinte dall’autarchia verso la miseria. Ci fu anche una infelice coincidenza, perché la guerra nelle sue prime battute favorevoli, consentì di incanalare il malcontento popolare nel concetto del “dovere verso la patria”. Alla data dell’8 settembre 1943, la situazione era completamente diversa rispetto al giugno del 1940. La guerra si era manifestata nella sua completa tragicità. I lutti si erano diffusi nel territorio nazionale, sul quale era gia iniziata l’invasione; le sconfitte militari erano aumentate e i bombardamenti avevano gia provocato migliaia di vittime tra la popolazione civile, mentre la maggior parte della “forza lavoro” era assente dalle famiglie. Nel settembre del 1943 gran parte della popolazione italiana “indossava l’uniforme”. 4.666.600 erano gli uomini inquadrati nei ranghi dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, compresi Carabinieri e Guardia di Finanza (l’Esercito disponeva di 82 Divisioni, la Marina di 349 navi e l’Aeronautica di 1.500 aerei, il tutto dislocato in Italia e all’estero). La Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, come vedremo, era a parte. Considerato che la popolazione italiana a quella data era di circa 43 milioni di persone, quasi l’11% della popolazione era in armi, percentuale che sale a più del 22% se si considera la sola componente maschile della popolazione; comunque oltre l’80% della “forza lavoro” era assente dalle attività produttive. Alla data dell’8 settembre, circa 700.000 militari erano fuori del territorio nazionale, e furono coloro che, soprattutto per mancanza di chiare direttive, subirono le perdite più gravi. Con l’8 settembre l’Italia attraversò uno dei momenti più drammatici della sua storia recente. La scelta delle Forze Armate, dove fu possibile un minimo di resistenza, dove si ebbe l’iniziativa di uomini che, in assenza di direttive coordinate, volevano salvare l’onore e la dignità della nazione, fu netta e corale. Resistenza all’oppressione, alla violenza di coloro che, non paghi della tragedia provocata da una terribile guerra di aggressione, volevano prolungare oltre ogni ragionevole, umana sopportazione, uccisioni e distruzioni. È anche vero che intere unità si dissolsero, ma in molti casi per assenza di direttive da parte del comando supremo, unita a inferiorità schiacciante di armamenti, e in qualche caso per decisione degli stessi Comandanti che preferirono lasciare liberi i loro uomini piuttosto che condannarli all’annientamento, ai plotoni di esecuzione, alla deportazione. La situazione delle Forze Armate italiane dopo l’8 settembre è caratterizzata da 800.000 militari internati in Germania (dei quali oltre 40.000 non fecero ritorno), da 500.000 prigionieri degli alleati, da 80.000 riuniti nelle formazioni partigiane in Italia, mentre circa 30.000 si erano associati alla locale resistenza in Jugoslavia, in Albania, in Grecia e da 616.000 entrati a far parte delle ricostituite Forze Armate italiane. Desidero sviluppare una breve analisi sulle cifre ora elencate e cercare di illustrare il perché della grande massa di militari nei campi di concentramento, nelle formazioni partigiane (in Italia e all’estero) o nelle unità schierate con gli alleati (in totale più di un milione e mezzo di uomini!). Questa analisi servirà a comprendere la Resistenza non solo nei suoi aspetti politici, ma anche nel suo significato militare. È necessario ricordare il grande impegno espresso dal fascismo per realizzare il controllo delle Forze Armate, ricercando nel contempo una spaccatura al loro interno. Agli inizi degli Anni 30 il fascismo fondò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Le Forze Armate, inclusi i Carabinieri, la Pubblica Sicurezza (come si chiamava allora l’attuale Polizia di Stato) e la Guardia di Finanza garantivano completamente la “Sicurezza Nazionale”. Nonostante ciò, fu disposta la costituzione della Milizia, ordinata come l’Esercito, dalle squadre sino alle Divisioni (anche se le unità e i gradi erano denominati, incuranti del ridicolo, come nell’antica Roma: manipoli, centurie, legioni; così come i gradi erano legionario, seniore, centurione, etc.). La Milizia provocò pericolose spaccature e odiosi contrasti. I primi gravi problemi tra Esercito e Milizia si ebbero nella guerra d’Africa, nel 1935-1936. Nel 1940 la Milizia comprendeva circa 60.000 uomini e la frattura con le Forze Armate era evidente; a nulla valsero i tentativi di migliorare la situazione, cercando di instaurare artificiosamente la concordia. Anzi, furono proprio questi tentativi, come quello di inquadrare i battaglioni delle “Camicie Nere” all’interno delle Divisioni dell’Esercito, ad accelerare il processo di disgregazione. Valga per tutti l’esempio della Divisione alpina Julia che, mobilitata per la Grecia, si ammutinò, piuttosto che accettare nelle proprie fila i reparti fascisti e condusse uno “sciopero” militare a oltranza (mancata partecipazione al rancio e alle adunate per la libera uscita) finché non furono esaudite le richieste. I “soldati di Mussolini” così erano chiamati gli appartenenti alla Milizia, non erano accettati dal personale dell’Esercito, tanto che si verificarono situazioni di contrasto, specie quando i militari delle Forze Armate non riconoscevano l’autorità degli “Ufficiali col fascio” (la Milizia non portava le stellette sull’uniforme, ma un piccolo fascio littorio sul bavero); tra l’altro le promozioni, nella Milizia, non avvenivano per capacità tecniche, ma per “meriti fascisti”. Fu inevitabile, pertanto, che subito dopo l’8 settembre, la spaccatura nell’ambito delle Forze Armate, e dell’Esercito in particolare, si manifestasse in tutta la sua evidenza. I “soldati di Mussolini” e pochi loro simpatizzanti si precipitarono nelle formazioni tedesche e al nord, nella Repubblica Sociale, mentre gli altri fecero, come abbiamo visto, una scelta coerente, anche se, in molti casi, estremamente dolorosa. È opportuno indicare, anche se succintamente, la frenetica cadenza delle trasformazioni attuate (in qualche caso imposte dagli alleati) nell’ambito delle ricostituite unità delle Forze Armate italiane. Anche se nei giorni successivi all’8 settembre le formazioni dislocate in Puglia, Lucania e Calabria si erano battute con determinazione contro i tedeschi, gli Alleati non consentirono ai reparti italiani di proseguire la lotta. Le unità furono riordinate, inglobando anche molti elementi che erano giunti dal nord, attraversando le linee, e militari provenienti dai Balcani. Il 26 settembre fu costituito il 1° Raggruppamento Motorizzato (in pratica una brigata su 4 battaglioni di fanteria e supporti, per un totale di circa 3.000 uomini). Il 13 ottobre 1943 venne formalizzato lo stato di guerra contro la Germania. Il 7 dicembre il 1° Raggruppamento entrò a linea, a Monte Lungo, sul fronte di Cassino. Dopo due tentativi, la posizione fu conquistata. Ci furono 350 caduti (più del 10% della forza) che andarono ad aggiungersi ai circa 10.000 morti a Cefalonia, a Corfù, in Egeo, nella difesa di Roma. Nel febbraio del 1944 il Raggruppamento, con una forza di circa 5.000 uomini, combatté sugli Appennini e il 18 aprile venne inquadrato nel “Corpo Italiano di Liberazione”. A fine maggio la linea Gustav in corrispondenza di Cassino fu infranta e il “Corpo Italiano di Liberazione”, forte ora di 24.000 uomini, fu inquadrato nell’VIII Armata Britannica, impegnata sul fronte adriatico; questa allocazione fu attuata per evitare che le truppe italiane partecipassero alla liberazione di Roma. II 24 settembre 1944 gli alleati chiesero al Governo italiano di approntare, per essere impiegate in prima linea, 6 divisioni leggere, denominate “Gruppi di Combattimento”; denominazione che rispondeva a ragioni politiche, per minimizzare il contributo bellico italiano alla causa alleata, in previsione degli accordi di pace. Le uniformi dei Gruppi di Combattimento (Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova e Piceno) erano inglesi, con simboli e mostrine italiane. I Gruppi di Combattimento furono inizialmente schierati sulla linea Gotica (che, partendo dalle alpi Apuane, a nord di Pisa, raggiungeva l’Adriatico a nord di Ravenna) e, sempre inquadrati nell’VIII Armata inglese, liberarono Bologna, Modena, Mantova e nel settore orientale Ferrara, Venezia e, infine, risalendo la valle dell’Adige, raggiunsero Bolzano. Furono inoltre costituite 8 divisioni ausiliarie, dedicate alle attività logistiche di rifornimento e trasporto, per un totale di circa 200.000 uomini, che consentì agli alleati di disimpegnare un numero equivalente di combattenti da destinare ad altri scacchieri. Per fedeltà storica, è opportuno ricordare che fu inoltre costituito, nell’ambito delle Forze Armate italiane, il Corpo Assistenza Femminile, da impiegare presso i posti sosta, le biblioteche, gli uffici informazioni, le Case del soldato, etc. Le appartenenti al Corpo erano donne di età compresa tra i 21 e 50 anni, in uniforme, tutte volontarie e assimilate al grado minimo di sottotenente. È noto che alla guerra di Liberazione, oltre alle unità militari che operarono a fianco degli anglo-americani, agirono anche donne e uomini che, riuniti in bande alla macchia o comunque in clandestinità, impugnando le armi o in altri modi, intesero offrire il loro contributo per cacciare dal territorio nazionale l’occupante tedesco e abbattere la costituita Repubblica Sociale nel nord Italia. Le Forze Armate italiane, con il sostegno delle Forze Speciali alleate, attuarono un sistema di collegamenti e rifornimenti di armi e materiali alla Resistenza nell’Italia occupata. Non fu un’operazione semplice; fu necessario conciliare visioni completamente diverse sul fenomeno “Resistenza”. Gli alleati, almeno inizialmente, non nutrivano molta fiducia nei riguardi di una organizzazione che non potevano direttamente né dirigere né controllare. In seguito a delicate trattative si convenne che le formazioni partigiane avrebbero dovuto organizzare esclusivamente azioni di sabotaggio, tramite prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di concentramento o missioni di collegamento alleate che sarebbero state inviate presso le formazioni stesse. Il Comando Alleato, inoltre, pretese che le formazioni partigiane escludessero dalla propria pianificazione l’insurrezione generale, di fatto la liberazione, delle città più importanti. Il risvolto politico di questa proibizione era evidente. Il divieto fu disatteso, e le unità tedesche e fasciste furono cacciate da Genova, Torino, Milano e da altre città prima dell’arrivo degli alleati. Furono necessari alcuni mesi perché la collaborazione tra le Forze Speciali alleate, Forze Armate italiane e Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), da cui dipendevano le diverse formazioni partigiane, diventasse più fiduciosa e fattiva. Nonostante il sostegno, le formazioni partigiane operarono in un contesto di decisa repressione e forte intimidazione, processi efferati, sevizie e torture anche su inermi e pacifici cittadini. Quelle donne e quegli uomini che parteciparono attivamente alla guerra di Liberazione, nei ranghi delle Forze Armate o nelle formazioni partigiane, o anche semplicemente attuando la resistenza passiva, avevano in mente l’ideale di una nazione libera, democratica, pacifica, profondamente rispettosa dei diritti umani. Quelle donne e quegli uomini operarono con determinazione, affrontando gravissimi rischi, in un Paese distrutto, diviso e occupato da eserciti stranieri, dove italiani combattevano altri italiani con un odio che solo le guerre civili sanno generare, con alle spalle centinaia di migliaia di morti e di invalidi, e con un morale provato da oltre tre anni di guerra. E in aggiunta con l’accusa di essere anche dei traditori. Quelle donne e quegli uomini, invece, erano convinti che l’accusa infamante era profondamente ingiusta: la maggior parte del popolo italiano aveva preso coscienza sia dei tragici errori politici commessi, sia di essere stato ingannato, sia della necessità, proprio perché colpevoli, di porre fine alle immani distruzioni provocate dalla guerra. Il popolo italiano non aveva tradito! Era stato tradito! La guerra di Liberazione ha segnato l’inizio della rinascita di una Nazione profondamente desiderosa di collocarsi dignitosamente nell’ambito della comunità internazionale. Il prezzo pagato nella guerra di Liberazione è stato molto elevato. Per raggiungere il traguardo della libertà i caduti sono stati, in 17 mesi, 88.337 e i feriti gravi più di 20.000, senza contare le vittime tra la popolazione civile. Questi eroi facevano parte delle unità militari, delle formazioni partigiane, dei prigionieri in mano tedesca, tutti uniti e accomunati in un unico grande sacrificio. A loro il nostro rispettoso pensiero e la gratitudine per averci consentito di riacquistare la dignità nazionale. In tutti esisteva la viva speranza di non essere più costretti a combattere una “guerra di Liberazione”.

Patria indipendente, settembre 2007

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