Patria indipendente

Il racconto di un ragazzo tra parrocchia e partigiani

Quel mio amico ebreo

L’odio e la paura: poi la scelta

 

di Giulio Gerosa

 

Che cosa era successo quella notte a Udine, città di confine con l’alleato tedesco? Si vociferava che a causa della nuova legge antirazziale concordata con la Germania di Hitler, anche in Italia gli ebrei avrebbero dovuto fare dei corsi di riabilitazione pur rimanendo una razza diversa, i cui appartenenti dovevano essere radiati da qualsiasi attività e dalla vita sociale. I ragazzi di religione ebraica che frequentavano le scuole dovevano abbandonare gli studi e rimanere rinchiusi nel ghetto a loro riservato. I proprietari di negozi appartenenti alla stessa religione dovevano vendere o chiudere l’attività, gli impiegati statali venivano licenziati senza alcuna ragione se non quella di appartenere ad un’altra religione, i patrimoni erano espropriati e venduti, ed il ricavato non andava al vecchio proprietario ebreo. Una legge disumana che mi aveva fatto vergognare di essere italiano. Ero molto giovane, avevo solo 11 anni correndo l’anno 1938, eppure certe sensazioni anche in giovane età vengono percepite e rifiutate istintivamente. Non te ne fai una ragione precisa ma le respingi. Era il caso della lotta antisemita voluta dal fascismo anche se iniziata in Germania e solo ereditata da noi. Nelle scuole i ragazzini venivano bombardati da letture a tema antisemita. Riviste in difesa della razza pura ariana venivano pubblicate ed il loro acquisto era un merito che provocava vantaggi di carriera ed anche economici all’acquirente, specie se abbonato. Questa violenta persecuzione era difficile da far capire a noi giovani che vedevamo colpiti, senza una ragione, amici di scuola, persone stimate, commercianti che da troppo tempo erano nostri onesti fornitori. In casa sentivamo l’obbligo del silenzio. Il divieto a qualsiasi commento per non provocare ricatti pericolosi al bene della famiglia, era indispensabile. Quella notte ad Udine era successo un fatto che mi aveva colpito in modo particolare. Un negozio di antiquariato, che si trovava sulla via che mi conduceva dalla stazione del tram proveniente da Trigesimo paese dove abitavo, alla scuola che frequentavo, era stato devastato da un gruppo di giovani fascisti, in quanto il proprietario, di religione ebraica, si era rifiutato di chiudere l’esercizio. La punizione doveva essere esemplare e la conseguenza disastrosa. Gli effetti di questa bravata li constatai la mattina successiva quando passai davanti al negozio. Il proprietario era diventato mio amico in quanto, il passare quattro volte al giorno dinanzi le sue vetrine, ci aveva consentito inizialmente di salutarci ed in seguito di soffermarci a parlare dei mobili e di molti altri oggetti esposti. Era interessante sapere l’origine, talvolta la storia, di alcuni di loro. La differenza di età fra noi era notevole, avrebbe potuto essere mio nonno, ma la simpatia e la cortesia che mi usava ci aveva fatto diventare amici. Quella mattina arrivai a scuola sconvolto, incapace di capire perché si dovesse punire una persona solo perché di religione diversa. Avevo paura di chiedere spiegazioni ai professori che pensavo condividessero quegli atteggiamenti. Passai la mattinata seduto al mio posto ma con la mente sempre vicina al mio amico antiquario. Il tempo passava e con esso anche le notizie contro la brutale e perseverante persecuzione ebraica, giustificata solo da qualche film come “Sus l’ebreo”. Nel mio paese, intanto, incominciavo a stare attento ai discorsi di altri ragazzi che talvolta potevano sembrare antifascisti e un po’ più vicino agli ebrei perseguitati e che mi permettevano di essere un po’ più aperto, senza allargare troppo il discorso sull’argomento che mi interessava, dell’ebraismo. Gli avvenimenti terribili dello scoppio della guerra voluta da Hitler e l’esito scontato della forza germanica che travolgeva Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, mettevano in seconda linea l’argomento semitico. Arriviamo alla fine del 1942, quando le vittoriose armate dell’Asse, incominciano a ridimensionare le vittorie raccogliendo sconfitte su quasi tutti i fronti. In particolare l’esercito italiano subisce perdite ingenti di uomini e mezzi sia in Africa che in Russia. I morti sono tanti da lasciare vuoti gli elenchi anagrafici di intere classi in alcuni paesi. È l’anno che incomincio a frequentare la sala parrocchiale, dove oltre ad esserci alcuni giochi tipo il ping pong, si può dialogare con altri ragazzi e con il vice parroco, giovane di grande cultura e gestore della relativa biblioteca. I discorsi ed i dibattiti incominciano a prendere un tono politico. Parliamo fra di noi della libertà completamente assente nelle aule scolastiche dove il sabato sei costretto ad andare in divisa, cosa che obbliga molti genitori a sacrifici non indifferenti. Incominciamo a domandarci per quale ragione si continui a lottare ed a produrre morti per una causa persa, e per quale ragione una diversa religione deve essere l’origine di una persecuzione. Solo la Germania insiste a propagandare che vincerà la guerra, i reduci che tornano dai diversi fronti ci mettono al corrente della disastrosa situazione, dove la mancanza di armamento, ed anche di cibo, obbliga il nostro esercito a sacrifici inutili con un gran numero di perdite. Incominciamo a domandarci perché le autorità come il Re non intervengono per far smettere una carneficina senza futuro. Questi discorsi rimangono ristretti fra le pareti della sala parrocchiale. Guai se si sapesse all’esterno che commentiamo l’operato del partito fascista e delle disastrose conseguenze che il suo rimanere al governo stanno provocando alla Nazione. Le più umoristiche battute ed esortazioni compaiono sui muri delle città. “Credere, obbedire, combattere”, “Taci il nemico ti ascolta”, ecc. È assolutamente proibito criticare l’operato dei vertici che, per ammissione generale, debbono avere sempre ragione. Incominciamo a percepire la necessità di libertà, non solo di parola ma anche di azione. Questa mancanza di un pensiero diverso, di un programma non dettato e obbligatoriamente seguito, il libero pensiero espresso a più persone e non trattenuto in un ambiente ristretto, il poter dire senza essere tacciato da nemico e punito con il carcere, incomincia a soffocarmi. Incominciamo a leggere libri impegnati ed a commentarli. Uno in particolare mi toccò, e lessi con piacere, trasmettendo le mie impressioni ai miei compagni. Era la celeberrima “Raerum novarum” l’enciclica scritta dal Papa Leone XIII, e trattava di socialità e di rispetto del lavoro. Fra tutti i frequentatori della sala parrocchiale, avevo fatto particolare amicizia con Walter Candotti e Dino Saccardo con i quali nella primavera del 1943 fondammo il partito antifascista “Lux et umbrae”. Il motivo di una scelta così lugubre derivava dal fatto che Dino era riuscito ad avere il relativo cliché dalla tipografia dell’arcivescovado di Udine, dove lavorava come apprendista. Credo che non riuscimmo ad adoperarlo mai, ma il fatto di avere un simbolo che ci unisse ci faceva sentire orgogliosi e sicuri. Eravamo certi che finita la guerra bisognava tornare alla libertà di stampa, di aggregazione, lasciar nascere e fiorire tutti i partiti, di allargare il dibattito politico a livello nazionale poiché ormai parlare di vittoria era una utopia, avremmo dovuto, dopo la sconfitta, richiedere elezioni regolari con la più ampia partecipazione. Nel nostro piccolissimo gruppo ci accorgemmo che le diversità già si potevano avvertire sui diversi argomenti. Io protendevo verso un sociale democratico, Dino verso un comunismo nostrano, Walter verso una partecipazione cattolica al governo del Paese. Questo differenziarci ci univa sempre di più perché stavamo capendo che nel dibattito e non nella lite, come alcuni credevano, c’era il sale di quella democrazia che stavamo assaporando fra noi. Parlavamo anche di suffragio universale e sull’argomento chiedevamo scherzosamente lumi alle ragazze, che si entusiasmavano al gioco di una possibile partecipazione alla politica nazionale, lontana dagli schemi di partito. Gli argomenti che ci davamo da discutere erano tanti, dalle pensioni ai sindacati e su tutti cercavamo un compromesso fra le diverse proposte e idee. Era un gioco bellissimo sostenuto anche dal nostro vice parroco. Finalmente, anche il Re intuì che la guerra era persa ed il 25 luglio 1943 fece arrestare Mussolini. Il comunicato che seguì non ci rese felici, poiché Badoglio ribadì che la guerra continuava a fianco dell’alleato. Ci riunimmo subito e concordammo di attendere gli eventi. In effetti, dopo un così grande mutamento, la mancanza di presa di posizione del nuovo governo ci meravigliò. La milizia fascista continuava a essere presente sul territorio con le relative caserme e, al di fuori di qualche piccola manifestazione di intolleranza contro i busti in marmo del dittatore nelle piazze, tutto sembrava essere rimasto fermo. I gerarchi fascisti incominciavano a scrollarsi di dosso le possibili colpe passate. La dittatura era passata immune sulla testa degli italiani. Il crollo di una dittatura, generalmente provoca reazioni violente contro chi precedentemente comandava. Vengono a galla vecchi rancori le vendette contro i vinti sono spesso spropositate e ingiuste. Da noi, in quel 25 luglio, si percepì solo il cambio di regime, dimostrando, come popolo, una civiltà eccezionale. Ciò che lasciava stupiti era il modo con cui si continuava a lottare, con un esercito in ritirata, con gli angloamericani ormai padroni della Sicilia. La popolazione civile incominciava a non accettare i continui bombardamenti e la distruzione delle nostre città. In questa strana situazione passa il mese di luglio e passa anche agosto. Le voci di una possibile persecuzione contro gli ebrei incominciano a ravvivarsi. Si dice che in Germania esistano campi di sterminio dove vengono uccisi centinaia di ebrei ogni giorno. Penso al mio amico antiquario, consegnato dai fascisti ai tedeschi, e alla probabile sua definitiva scomparsa. Finita la guerra bisognerà chiarire e magari punire atti disumani come quello che ho personalmente visto ed in un certo qual modo vissuto. L’estate sta finendo ma si va ancora al mare, solo la domenica ed in bicicletta. Ai primi di settembre si incomincia a riparlare di scuola, ma improvvisamene la sera del giorno otto la radio annuncia che l’Italia ha chiesto l’armistizio. È quanto ci aspettavamo da più tempo. I pochi soldati di base a Trigesimo esultano di gioia, “la guerra è finita” si grida, “si va a casa”. Già qualche divisa viene buttata nel fosso e si chiedono vestiti borghesi. Una totale disorganizzazione investe il nostro esercito che abbandonato dai superiori sbanda paurosamente. Tutti attendono ordini che non arrivano. È il “si salvi chi può”. Circolano voci che pochi tedeschi riescono a controllare la situazione e stanno preparando la strada ad un forte esercito già pronto ad entrare in Italia. Il nove settembre mattina veniamo chiamati dal colonnello in congedo e presente in paese (il cognome non me lo ricordo) che ci chiede se c’è un gruppo di giovani pronti a partire nella notte per far saltare il ponte di Dogne, sul quale passa la ferrovia per la Germania che, a detta del colonnello, sarà sicuramente la via adoperata dai tedeschi per invaderci. Ci mettiamo d’accordo di trovarci la sera alle nove alla trattoria vicino la stazione del tram, da dove avrebbe avuto inizio la spedizione. A casa non faccio parola, chiedo solo di tornare la sera un po’ più tardi. All’ora prestabilita siamo presenti quasi tutti quelli del gruppo che aveva accettato di partecipare all’impresa. Passano le nove, poi le dieci. Nessun segnale. Decidiamo di andare alla sala parrocchiale per avere notizie più dettagliate del ritardo. Veniamo a sapere che la spedizione non si farà più a causa del mancato arrivo degli esplosivi necessari. Grande è la delusione, ma dobbiamo accettare. È in quel momento che si comincia a pensare come potersi difendere dalla rappresaglia tedesca che non si fermerà solo ai militari ma verrà estesa e tutta la popolazione. I resoconti di ciò che i nazisti erano stati capaci di fare nelle nazioni invase facevano rabbrividire. Non parliamo poi della repressione antiebraica ritenuta sempre troppo leggera se fatta da popoli non di origine germanica. Seguono giorni terribili. Mussolini, liberato al Gran Sasso dai tedeschi, fonda la Repubblica Sociale Italiana, che a fianco dell’alleato nazista continua la guerra contro l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America. La chiamata alle armi di intere classi, obbligai giovani a scelte disperate. Quelli che non aderiscono al nuovo regime vengono braccati e portati in Germania nei campi di concentramento. L’esercito italiano, che nel frattempo si era completamente liquefatto, senza ordini superiori cerca rifugio nella clandestinità. Molti soldati di origine meridionale che l’otto settembre facevano parte di truppe presenti al nord, non potendo raggiungere la propria abitazione, chiedono momentaneo alloggio alla popolazione locale. Noi cosa potevamo fare? Decidemmo che per prima cosa dovevamo proteggere la clandestinità e cercare di avere più notizie possibili sui movimenti dei tedeschi, che nel frattempo stavano riorganizzando l’esercito fascista comprendente le camice nere e le SS italiane. Il modo di comportarsi dei vecchi fascisti che dal 25 luglio all’otto settembre sembravano ravvedersi degli errori commessi, non solo ci meravigliò per l’arroganza del ripreso potere, ma per la differenza di comportamento nei confronti degli italiani che li avevano rispettati durante un periodo sicuramente a loro non favorevole. Con grande cautela, cercavamo di avvicinare questi nuovi vincitori per sapere le ragioni di una scelta che a noi sembrava andare contro la volontà delle autorità italiane. La risposta era sempre la stessa “avevamo tradito l’alleato, per cui l’onore ci obbligava a ridare fiducia alla Germania”. In verità l’esercito italiano aveva ricevuto l’ordine di armistizio da parte del suo legittimo capo che era il Re Vittorio Emanuele III. Il tradimento era il disattendere agli ordini ricevuti. Questo era quanto pensavamo noi. Era anche chiaro che le parole contro i fucili potevano fare ben poco, anzi nulla, per cui ci conveniva trattenere certe idee fra di noi. Seguono due anni di vera e propria guerra civile. Da una parte i cosiddetti repubblichini che avevano accettato di collaborare con i tedeschi, dall’altra gli italiani che si sentivano invasi da un nemico, i germanici, al quale non dovevano rendere conto del proprio operato, obbedendo agli ordini delle legali autorità. Ancora più assurda sembrava la posizione dei fascisti risorti, che con mano ferrea incominciavano a comandare reclutando e torturando chi non si alleava con loro. Una reazione spropositata, cattiva, feroce, sicuramente ingiustificata. Gli avversari che venivano torturati e uccisi, lasciavano dietro il loro sacrificio, volontà di vendetta, desideri di fare nel futuro ai fascisti, ciò che i propri cari avevano subito. I gruppi partigiani che nel frattempo venivano a costituirsi, non erano formati solo da soldati sbandati l’otto settembre, ma da giovani che avevano fatto una scelta diversa da quella imposta dai bandi di reclutamento emessi dal generale Graziani. Molti di loro pagarono con la vita questa scelta. Quello che lasciava esterrefatti era l’odio che i fascisti mettevano nelle loro azioni. Quando qualcuno faceva presente che dopo il 25 luglio poco fu il risentimento del popolo italiano nei confronti dei fascisti che erano stati al governo del Paese per 22 anni, con una dittatura che aveva cancellato partiti e opposizione, la risposta era sempre la stessa: “noi stiamo difendendo l’onore dell’Italia verso la Germania nostra alleata”. Poteva essere una giustificazione? Bisognava però ricordare che i casi di ritorsione e di vendetta verso i gerarchi fascisti durante il periodo della loro assenza dal governo erano pochissimi e nemmeno approvati dalla maggioranza della popolazione. E allora perché una così spietata ritorsione contro la popolazione in gran parte formata da donne e bambini, in ossequio alla volontà di un invasore, che sentendosi tradito, ritorceva il proprio livore contro gli inermi? Furono due anni durissimi. Il sacrificio di tanti eroi, mette in secondo piano la mia situazione, che dalla cattura da parte delle SS e conseguente trasferimento in Jugoslavia ai lavori obbligatori, alla fuga ed ai combattimenti contro i cosacchi a Felettano, sono ben poca cosa rispetto ai sacrifici dell’amico Vinicio Giordano fucilato al muro del cimitero di Udine, o alle persecuzioni e torture subite da tanti compagni durante il famigerato periodo repubblichino. Mi corre obbligo però rivolgermi, in finale di questa mia parte importante di vita, ai giovani, che non presenti durante quella fase di storia, oggi si permettono di giudicare. Noi avevamo fatto una scelta dettata dalla necessità di capire perché molti amici ebrei dovevano essere uccisi in campi di stermino. Perché avere una idea diversa, doveva farti sentire nemico e non solo avversario politico? Perché giustificare l’idea di grandezza di un popolo con invasioni, guerre e distruzioni? La libertà è un bene così prezioso che perderla è peggio di morire. Bisogna subire le angherie, le ingiustizie, gli avvilimenti e la fame per apprezzare questo bene, che i giovani se lo trovano regalato e ottenuto senza sacrifici. Questi giovani debbono ricordare però che la libertà non gli è stata regalata dai propri padri, ma solo data in prestito anche per i nipoti.

Patria indipendente, luglio 2007

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