Patria indipendente
Dal lager di Bolzano a piedi fino a Parma
Quel lungo viaggio terribile per tornare finalmente a casa
di Armando Barone
Il mattino del 28 aprile 1945 c’era un movimento insolito nel campo di concentramento di Bolzano. L’atmosfera era meno pesante. Si incominciava a diffondere qualche notizia di una prossima liberazione, ma nessuno ci credeva ancora. Erano stati troppi i soprusi, le sevizie e le offese, che ci avevano resi indifferenti a tutto e rassegnati al più crudele dei destini che non poteva non essere la morte per mano di qualche criminale, che era sempre in agguato come purtroppo avveniva quotidianamente specie nel reparto di una baracca che era completamente isolata dagli altri capannoni. Ma mentre ero preso da tutti questi pensieri ecco una voce annunciare che eravamo liberi e che saremmo stati trasportati con dei camion a scaglioni fino alla periferia di Trento, dove poi ciascuno avrebbe continuato per conto suo la strada del ritorno. Quello che di fatto avvenne. Noi si credeva che fosse finita la guerra ed invece si trattava di un accordo che era stato raggiunto dagli alleati con il comando tedesco per la nostra liberazione. La guerra, quindi, continuava ancora nel resto d’Europa e a sud di Trento. Arrivati alla periferia di Trento ci fecero scendere. Entrati in città, rimanemmo colpiti dalla presenza di un’enorme folla di soldati tedeschi e di brigatisti neri che ci davano l’idea del massimo disordine. La mia paura non era tanto quella dei tedeschi che, a loro modo, secondo una logica teutonica ereditata dal luteranesimo, sono abituati a non trasgredire gli ordini dei loro capi; temevo tuttavia i fascisti, al contrario portati a disobbedire, in base alla natura trasgressiva degli italiani. Quanto detto avrebbe trovato la sua conferma nell’episodio che sto per raccontare. A Trento, dove c’era una situazione molto pericolosa e dove era molto difficile trovare un buco dove rifocillarsi e dormire, consigliai ai compagni che si trovavano con me, di proseguire il cammino fino al primo paese che avremmo raggiunto e di chiedere ospitalità al parroco del luogo. Così riprendemmo il nostro cammino in fila indiana. In tutto eravamo in cinque, due dei quali non conoscevamo, perché erano stati arrestati a Brescia. Ed ecco la sorpresa. Mentre eravamo pieni di fame e di stanchezza, sentimmo una voce dire: «Come, siete qui? Vi fuciliamo». Si trattava di altri fascisti al comando di un maresciallo altoatesino che si chiamava Rabanzer. Anch’essi ci avevano interrogato e seviziato a Parma. Ma, richiamandomi a quanto dicevo prima, alla parola fucilazione, io mi misi a correre verso l’Adige, mentre uno degli altri miei due compagni, che si chiamava Max Casaburi, maggiore di cavalleria, di Salerno, si diresse verso la montagna e fu subito freddato da una raffica di mitra. Io ero inseguito da due fascisti che si chiamavano con il loro nome di battaglia Elio ed Enrico, mentre il Rabanzer era rimasto ad aspettare sulla strada. Siccome era piovuto molto, il terreno era maledettamente fangoso, per cui si faceva una grandissima fatica a correre. I due fascisti continuavano ad inseguirmi e a sparare, non a raffiche ma a colpi anche perché scarseggiavano le munizioni. Ormai ero molto stanco e non ce la facevo più. Per cui decisi di fermarmi ed arrendermi, rifiutandomi di andare avanti come volevano loro perché temevo che mi sparassero alle spalle. Invece mi presero con violenza e mi riaccompagnarono sulla strada, dove c’era il Rabanzer ad aspettarmi con gli altri accoliti. Appena arrivato vidi, al lato destro della strada verso la montagna, il corpo esanime del mio compagno Casaburi. Ritornato sulla strada il Rabanzer aveva ordinato di mettermi vicino alla parete della montagna per essere fucilato. Io gli avevo fatto notare che dal campo di concentramento di Bolzano non ero fuggito, bensì ero stato liberato con un regolare permesso che gli avevo fatto vedere. Ma lui mi rispose che dovevo essere fucilato lo stesso. Mentre avveniva questa discussione e stavo per essere fucilato ecco arrivare una macchina tedesca che si ferma e dalla quale scende un colonnello delle SS, il quale chiama il maresciallo Rabanzer per sapere cosa stesse succedendo, chiedendogli spiegazione di quel mio permesso che aveva in mano. Il colonnello, dopo averlo letto, me lo consegnò raccomandandomi di averne cura e di esibirlo tutte le volte che venissi fermato. Poi, rivoltosi al Rabanzer con un tono secco e sostenuto, puntandogli la pistola, lo invitò ad allontanarsi subito. Ed io, così, dopo quello spaventoso e tragico incidente, ripresi il cammino della speranza. Il mio amico di Parma, Camuti, che era con me e che aveva continuato il cammino, era già arrivato al primo paese che si incontrava lungo la strada e che si chiama Mattarello. Lui, appena mi vide, si buttò a terra baciandola, perché mi aveva creduto già morto. Era un uomo molto generoso e disponeva ancora di alcune migliaia di lire, somma per quei tempi abbastanza discreta, che aveva nascosto nella suola delle scarpe. In quel momento era un gruzzolo molto utile perché serviva per affrontare alcune spese come la ricompensa a quel prete che ci avrebbe poi offerto ospitalità facendoci capire che non si sarebbe assunto nessuna responsabilità per quanto fosse potuto succedere. Tutto era a nostro rischio e pericolo. Non appena eravamo già a letto e godevamo del nostro sonno ristoratore, ecco bussare violentemente alla porta della nostra stanza. Erano dei soldati tedeschi che volevano sapere chi fossimo. Una volta fatti vedere i nostri documenti se ne andarono in santa pace. La mattina presto, verso l’albeggiare, lasciammo Mattarello. Ci allontanammo decidendo di prendere la strada che si trovava al di là dell’Adige che credevamo, essendo una strada provinciale, meno frequentata. Invece, contrariamente a quanto avevamo pensato, il primo paese che avevamo raggiunto, che si chiamava Aldeno, rigurgitava di soldati tedeschi. Sui muri era stato affisso un manifesto in cui si minacciava la fucilazione di tutti gli uomini del paese se entro mezzogiorno del giorno seguente non fossero stati riconsegnati dei soldati tedeschi che erano stati catturati dai partigiani del luogo. Si può immaginare quale fosse la nostra apprensione. Intanto, con il calar delle tenebre, eravamo andati in cerca di qualche famiglia che ci ospitasse e presso la quale ci potessimo nascondere. Dapprima ci eravamo rivolti al parroco del paese, chiedendogli di dormire, anche sul pavimento della chiesa, o almeno di nasconderci in qualche vecchia tomba. Come risposta il diniego più assoluto. Allora ci rivolgemmo ad una signora che, uscita dalla parrocchia, stava per rientrare a casa. Alla nostra richiesta ci rispose che la casa era tutta piena di tedeschi e che comunque, se volevamo, potevamo dormire nella stalla. Dal momento che nella stalla c’erano tre mucche il problema era quello di trovare un posto al riparo dalle loro deiezioni. Dopo avere studiato attentamente la cosa, riuscimmo ad utilizzare uno spazio di qualche metro quadrato su cui ci adagiammo con la massima cautela. E ben presto cademmo nelle braccia di Morfeo. Ed ecco una grande sorpresa. Verso le sei del mattino, la signora che ci aveva ospitato, venne nella stalla per comunicarci che il presidio tedesco, in seguito ad accordi intervenuti con il comando generale alleato, aveva deciso di cessare i combattimenti. Noi ci precipitammo subito fuori dalla stalla e notammo che nella piazza del paese erano radunati tutti i soldati del presidio disarmati, ai quali il comandante rivolgeva un sermoncino, tutto infarcito della più banale retorica con cui si esaltava il grande valore degli stessi soldati tedeschi che avevano combattuto per i grandi ideali della patria, che un’immeritata sconfitta non avrebbe mai oscurato. Ma noi, lasciando perdere il colonnello con tutta la sua inutile e bolsa retorica, decidemmo di riprendere il faticoso cammino verso casa. La prima tappa era Rovereto che distava diciotto chilometri. Partimmo da Aldeno alle sette del mattino ed arrivammo a Rovereto verso le dodici, dove incontrammo gli americani che avevano allestito un posto di ristoro. Gli americani si erano mostrati molto gentili nel darci da mangiare, ma non avevano permesso che salissimo sul loro autocarro. Camminare era molto duro e raggiungere Parma a piedi per me era troppo faticoso. Considerando le miei condizioni fisiche si trattava di una fatica sovrumana. Purtroppo non c’era altro da fare. Dopo aver preso commiato dal mio amico Camuti che aveva deciso di fermarsi a Rovereto, ripresi così da solo il cammino verso il lago di Garda. La sera ero arrivato a Riva, dove per dormire trovai ospitalità in un’altra stalla, che essendo questa volta più grande, mi permise di dormire meglio e al sicuro dalla “pioggia” bovina. Il mattino dopo, alquanto rinfrancato, ripresi il cammino sulla riva sinistra del Lago di Garda e la sera sul tardi ero già a Malcesine in provincia di Verona. E siccome ero abbastanza fornito di cibarie, dopo un frugale pasto, ripresi il cammino. Dopo un paio di giorni, fra soste e marce, arrivai a Mantova. La città era calma e tranquilla. In un caffé vidi un signore seduto che riconobbi subito per il ciclista Learco Guerra, al quale mi avvicinai per chiedergli se sapesse indicarmi una strada meno lunga che conducesse al Po. Egli mi rispose che i ponti erano tutti saltati e che, se volevo passare il fiume, dovevo andare a San Benedetto, dove i partigiani avevano costruito un ponte di barche. Allora non mi rimaneva che riprendere il cammino, allungandolo. E così, passo dopo passo, la sera verso l’imbrunire, raggiunsi San Benedetto dove riuscii a passare sul ponte di barche, proseguendo il cammino non più verso Parma, ma verso Modena. Arrivai a Modena il giorno dopo, passando vicino ad un campo di concentramento che era pieno di soldati tedeschi. Dopo avere un po’ girovagato per una città che cominciava a rivivere, andai a finire in un ospizio di suore che, per l’occasione, era stato trasformato in un centro di ospitalità per i reduci. Ne approfittai per mangiare e dormire una notte. Il giorno dopo ripresi finalmente il cammino verso Parma. Lungo la strada c’era un continuo via vai di automezzi americani. I soldati erano come al solito molto generosi nell’elargire cibo, ma abbastanza restii a prenderci sui loro autocarri. E così non mi rimaneva che continuare a fare uso del “cavallo di San Francesco”. Ma siccome stavo per raggiungere il traguardo, ogni sforzo mi sembrava meno pesante. Cammina e cammina, ecco che a pomeriggio inoltrato ero vicino alla periferia di Reggio Emilia. Lungo la strada sempre il continuo via vai di uomini e mezzi americani, mentre si vedevano i contadini che lavoravano nelle campagne. Era ormai maggio. L’atmosfera era satura di tutti i profumi che emanavano dalla verde e fertile terra emiliana. Finalmente la natura era esplosa in tutta la sua bellezza ed aveva cominciato ad avere il sopravvento sulla barbarie della guerra. Non più bombe e distruzione ma un senso di pace, di gioia e di fiducia, che ridava forza e coraggio alla vita. E dire che, non molto tempo prima, si incontravano per strada rottami di carri armati e di autocarri assieme a tanti cadaveri. Evidentemente, in pochi giorni i partigiani erano riusciti a liberare la via Emilia dei macabri residui della guerra. Intanto, quantunque stanco, proseguivo lentamente ma con grande entusiasmo il mio cammino. Appena fuori Reggio Emilia passava una donna in bicicletta, tenendone un’altra per il manubrio. Le chiesi subito dove andasse e se potevo inforcare l’altra bicicletta, per rendere meno dura la mia fatica. Mi rispose che era diretta Sant’Ilario d’Enza e così fino a Sant’Ilario avrei potuto utilizzarla. Vi montai subito senza farmelo dire per una seconda volta, riuscendo così ad evitare un cammino di quindici chilometri. Arrivati a Sant’Ilario, scesi subito dalla bicicletta, ringraziandola per l’aiuto che mi aveva dato. Per raggiungere Parma non mi rimanevano che nove chilometri. Per fortuna, mentre stavo per iniziare l’ultimo tratto di strada a piedi, vidi passare un carro trainato dai buoi. Allora chiesi al proprietario dove fosse diretto ed egli mi rispose che andava fino a San Lazzaro. A mia richiesta, mi fece gentilmente salire sul carro. Arrivato a San Lazzaro, appresi con piacere che era stata ripristinata la linea tranviaria per Parma. Così salii subito sul tram che era fermo al capolinea e, dopo dieci minuti, ero già arrivato in centro. Sceso in piazza per avviarmi a casa, incontrai mio padre che in un primo momento non mi aveva riconosciuto, tanto si era trasformato il mio fisico. A parte i piedi che a forza di camminare erano gonfi come panettoni, una volta fattomi riconoscere da mio padre ci furono gli abbracci, la commozione e le lacrime di circostanza. A casa, oltre ai miei familiari c’era un parente del maggiore Max Casaburi, che come ho già raccontato era stato ucciso a Mattarello. Era venuto a casa mia per chiedere informazioni. Imbarazzato, non sapevo cosa dirgli. E per rendere la notizia meno amara gli risposi che ci eravamo lasciati a Trento e che il Casaburi aveva preso un’altra strada, diversa dalla mia. Il giorno dopo, siccome lui aveva saputo tutto, lo informai della cruda e triste realtà. Essendo tormentato da mille animaletti che mi succhiavano il sangue in continuazione, feci un bagno ristoratore, che mi diede un certo senso di sollievo, aiutandomi a dormire per ben quarantotto ore. I piedi cominciavano a sgonfiarsi lentamente, mentre l’organismo andava riacquistando le forze. Presto ripresi ad insegnare, impostando le mie lezioni sul concetto di libertà, senza la quale la cultura perde qualsiasi valore, riducendosi ad una mera esercitazione retorica, che come insegnava la mia esperienza è premessa del conformismo che porta alla dittatura.
Patria indipendente, luglio 2007