Patria indipendente

«Il più grande massacro di soldati italiani per mano nazista»

Cefalonia: per lo storico Klinkhammer nessuno ha voluto giustizia

Sulla sentenza di Monaco: «La definizione di “traditori” fa riferimento solo agli effetti della propaganda nazista»

 

di Daniele De Paolis

 

La mattanza della Divisione Acqui si consumò in novantasei ore, a Cefalonia. Il 21 e il 22 settembre 1943, 4.000 soldati italiani sono trucidati dalla Wehrmacht, i loro corpi ammassati in burroni e cave, gettati in mare, lasciati in pasto agli animali. Poi le esecuzioni degli ufficiali: il 24 la fucilazione del generale Antonio Gandin e del suo comando, a seguire quelle di altri 193 graduati. I 6.000 sopravvissuti alla strage compiuta nell’isola greca dello Jonio vengono deportati nei campi di lavoro nazisti o sul fronte orientale, molti trovano la morte in mare, sotto i bombardamenti Alleati. «Cefalonia fu senza dubbio teatro del più grande massacro di italiani commesso dai tedeschi – spiega lo storico Lutz Klinkhammer, ricercatore, referente per la Storia contemporanea dell’Istituto Storico Germanico di Roma, noto proprio per i suoi studi sull’occupazione nazista del nostro Paese dopo l’8 settembre – nonostante negli ultimi anni gli studiosi abbiano ridimensionato il numero dei morti dalla stima iniziale di 9.000». Insiste sulla verità quantitativa dello sterminio il ricercatore tedesco. «In casi come questi rivedere le cifre non riduce la portata della carneficina. L’esempio è Marzabotto. I primi computi della rappresaglia contarono 1.800 morti, ma nel calcolo erano comprese tutte le vittime locali della seconda guerra. Tuttavia, il successivo ridimensionamento a 770 persone straziate nell’Eccidio di Monte Sole non ha fatto altro che porre in risalto la concreta crudeltà della strage: quei morti erano solo donne, bambini e anziani inermi». Detta altrimenti, in una settimana la ferocia dell’SS Walter Reder, detto “il monco”, provocò nel territorio di Marzabotto più morti che quattro anni di guerra. È cauto Klinkhammer sui fatti di Cefalonia. I recenti risvolti giudiziari, uniti alle affermazioni di chi tendenziosamente prova a rimescolare le carte, continuano ad alimentare le strumentalizzazioni e l’impiego della storia come un manganello, in chiave politica. Si è arrivati ad accusare di “sovietismo” gli ufficiali che scelsero di non arrendersi, e di aver manovrato una truppa che, si vuole ribadire, era mossa dall’unico imperativo del “tutti a casa”. E ancora, si tende a minimizzare l’entità del massacro, ad accusare di doppio gioco il comandante della divisione Antonio Gandin, fino a sostenere che quella pagina tragica venne occultata per non compromettere il ruolo prioritario della Resistenza partigiana nella lotta di Liberazione nazionale dal nazifascismo. «Mancano fonti certe per appurare responsabilità precise su quanto accadde. Hitler però si era preparato alla capitolazione italiana fin dalla rimozione e dall’arresto di Mussolini del 25 luglio. E sfruttò il vantaggio». Questo, secondo lo storico, fu l’effetto del comunicato col quale, via radio, l’8 settembre 1943, alle 19,42, Badoglio annunciò da Brindisi l’armistizio con gli anglo-americani. Il messaggio, capolavoro di ambiguità, stabilisce che le forze militari italiane “reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. A circa cinquecento chilometri in linea d’aria, a Cefalonia la divisione italiana conta 11.500 uomini, la presenza tedesca non tocca le 2.000 unità. Ma Gandin non riceve ordini chiari, operativi. Il Comando italiano ad Atene prima conferma il proclama diffuso dal Governo italiano, il giorno dopo invita a cedere le armi all’ex alleato. Il 10 settembre arriva l’ultimatum tedesco. A chi obbedire? Al legittimo Governo o al Comando militare? «Un interrogativo cruciale – dice Klinkhammer – che resterà una spina nel fianco di monarchici, vecchi ufficiali del regio esercito e tanti politici conservatori». È un fatto che l’ingloriosa fuga di Vittorio Emanuele da Roma, insieme al primo ministro Badoglio e all’establishment militare, abbia lasciato a se stesse le forze armate italiane su tutto lo scacchiere mondiale. Nello Jonio ellenico, però, la situazione si profila subito più grave che in altri scenari. I nazisti fanno piovere centomila volantini con l’invito alla resa, quasi 10 fogli a italiano. Lo scopo è quello di ottimizzare lo sforzo bellico con la propaganda, disintegrando il morale degli attuali nemici. Si sfrutta anche la mancanza di comunicazione in un luogo estremamente impervio. Le ipotesi che Gandin abbia adottato un comportamento debole o addirittura che si preparasse a tradire i suoi uomini, come sostengono alcuni studiosi, non sono ragionevoli. «Sicuramente voleva evitare un inutile spargimento di sangue, guadagnare tempo, in attesa di rinforzi, magari per sganciarsi via mare». Sono deduzioni, precisa lo storico, perché non esistono documenti, nessuna ricostruzione può essere comprovata. Gandin avvia dunque le trattative: «Il generale era un militare di carriera, le sue conoscenze strategiche gli permettevano di avere una visione più ampia del quadro della situazione, che andava oltre la constatazione della superiorità numerica». Il tenente colonnello della Wehrmacht Barge, intanto, approfitta del trascorrere del tempo per ricevere rinforzi e, col passare delle ore, si comprende che la scelta per i soldati della Acqui è ristretta a tre sole opzioni: aderire al nazismo, arrendersi o combattere i tedeschi. La Resistenza contro la sopraffazione germanica comincia il 13 settembre, quando l’artiglieria del capitano Renzo Apollonio e di Amos Pampaloni apre il fuoco su due motozattere tedesche cariche di armi. Non c’è l’ordine di Gandin, ma è un atto palesemente ostile. Ciò che accadde dopo va ad intrecciarsi con elementi relativi a quel preciso contesto. Tra il 13 e il 14 Gandin promuove una consultazione tra i soldati, per venire probabilmente incontro ad una richiesta dei subordinati. «Un fatto inusuale, codice militare alla mano, ma non tanto dissimile da quello che avvenne in altre divisioni dopo la proclamazione dell’armistizio». Sull’esito del referendum, secondo Klinkhammer, hanno pesato probabilmente la vicinanza dell’Italia e la supremazia numerica. Ma al di là di ogni personale convinzione, tutti gli ufficiali obbedirono alla risoluzione comune. La battaglia seguita al rifiuto di consegnare le armi prende il via il 15 settembre. Ma è già troppo tardi: i combattimenti vanno avanti per otto giorni, grazie all’afflusso di alpini e granatieri tedeschi le forze in campo tendono a riequilibrarsi, gli Stukas che bombardano a tappeto dall’alto non lasciano scampo. Infine, la resa. «È presumibile – calcola Lutz Klinkhammer – che la grande maggioranza dei soldati italiani fu sterminata contestualmente alla resa, visto che le perdite della Wehrmacht furono appena un centinaio». La vendetta nazista, poi, continuò implacabile. E fu un massacro di dimensioni inaudite. Un crimine contro l’umanità, come deliberò anche il Tribunale di Norimberga. Si era entrati nella fase della guerra totale, con un nemico non più avversario militare, ma politico. Da eliminare. C’era stato l’ordine di Hitler di non fare prigionieri, eppure esisteva da parte dei comandanti di compagnia un certo margine di iniziativa. A Cefalonia, i capi militari eseguirono alla lettera le direttive del führer, consapevoli di violare ogni regola internazionale. Difficile, oggi, trovare le prove per ripercorrere la catena di comando. «Negli anni Sessanta la magistratura della Repubblica Federale preparò un’istruttoria e nei 200 verbali di interrogatorio alcuni testimoni ammisero il comportamento col quale le unità della Wehrmacht misero in atto gli ordini criminosi emanati dai vertici nazisti». Su quei materiali Klinkhammer sta ancora lavorando. «Purtroppo ritengo improbabile che future analisi potranno contribuire ad indicare precise responsabilità individuali. Il trascorrere degli anni, in ogni caso, è stato il formidabile alleato di chi non voleva giustizia». La Germania non ha mai condannato un suo soldato per crimini commessi sul suolo italiano. Ma nemmeno nei Paesi dell’Alleanza atlantica dove si celebrarono processi fu garantita la certezza della pena. Torna il paragone con le stragi commesse in Italia: Sant’Anna di Stazzema, le Fosse Ardeatine. Da noi l’armadio della vergogna, in Gran Bretagna, Francia e Germania i condoni provano che nessuno voleva punizioni forti. L’Italia fu l’unico paese dell’Europa occidentale a tenere in carcere per lungo tempo criminali nazisti, solo pochi nomi di spicco, però: Reder e Kappler. Altri usufruirono di un trattamento privilegiato. L’oberführer Adolf  Wagner, comandante del gruppo di Rodi, condannato con i suoi ufficiali dal tribunale di Roma, per esempio, venne fatto uscire alla chetichella nel 1951, grazie ad un accordo segreto per la liberazione dei criminali di guerra tedeschi. L’Italia pertanto si mosse su un doppio binario: lunga detenzione per pochi criminali, esemplari della ferocia nazista; linea morbida nei confronti di tutti gli altri responsabili. Secondo Klinkhammer, l’iter del procedimento della Procura di Monaco contro il sottotenente Otmar Mühlhauser, archiviato nei mesi scorsi senza rinvio a giudizio, è in linea con la volontà di non punire i crimini nazisti nel dopoguerra. La procura bavarese, oggi, in base al diritto tedesco, avrebbe avuto la possibilità di giudicare l’ottantasettenne Mühlhauser solo se quello degli ufficiali italiani si fosse potuto configurare come omicidio “aggravato”, essendo il reato “semplice” caduto in prescrizione da oltre quarant’anni. «Forse la motivazione del procuratore bavarese è andata oltre il necessario quando, prendendo in esame la casistica delle aggravanti previste (tra cui l’omicidio per vili motivi, quali l’appartenenza a una minoranza politica, sociale o etnica), giunge a definire i soldati italiani “traditori”». Ma, secondo lo storico, quando nella sentenza si parla di equiparazione a disertori da passare per le armi, non si è voluto accreditare la visione nazista, ma fare riferimento agli effetti della propaganda hitleriana di quei giorni. L’utilizzo nel dispositivo della sentenza delle virgolette per la parola traditori rende senz’altro possibile questa interpretazione. Ma è credibile che il condizionamento ideologico che insisteva sul tradimento dell’8 settembre potesse cancellare il dato di fatto che quei prigionieri erano e restavano, malgrado il repentino cambio di alleanze, soldati italiani? E perché alcuni ufficiali originari delle province considerate territorio tedesco di Trieste, Trento e Bolzano (queste ultime riunite nell’Alpenvorland) furono tra i pochissimi ad essere risparmiati dalle esecuzioni? Le argomentazioni del procuratore Stern non fugano affatto il sospetto che si sia trattato di una rappresaglia concepita contro i nostri militari proprio in quanto italiani e per vendicare la loro inaccettabile defezione. Un crimine, appunto, per il quale il codice tedesco non ammette prescrizione. «Purtroppo, qualsiasi ordinamento militare prevede obbedienza agli ordini», dice Klinkhammer. Tanto sarebbe bastato, dunque, per sancire l’improcedibilità nei confronti di Mühlhauser per il quale, in quanto sottoposto, l’aggravante dei vili motivi non poteva sussistere malgrado non si fosse rifiutato di compiere un comando illecito secondo le convenzioni internazionali. Lo storico, poi, distingue l’eccidio dei 4.000 soldati dalla sorte riservata agli ufficiali, fucilati dopo una sentenza della corte marziale, seppur generica e spietata. «La Centrale per le indagini sui crimini nazionalsocialisti di Ludwigsburg sta tuttora lavorando sulla strage di Cefalonia. La fase istruttoria è in dirittura di arrivo ma ci si troverà, ormai, di fronte a una difficoltà oggettiva: la scomparsa, a sessantaquattro anni dai fatti, di testimoni e colpevoli della strage compiuta su campo di battaglia». Altra cosa ancora, per lo studioso, è l’interpretazione storica: «Su Cefalonia si è costruito il mito di una tragedia dimenticata che non ha riscontro nella realtà. Esistono strade e piazze dedicate a quei soldati e a più riprese molti saggi storici se ne sono occupati». Nel 1953, lo storico Roberto Battaglia dedicò un paragrafo all’eccidio nella Storia della Resistenza italiana, ma alla giustizia militare non conveniva appurare la verità. Nessuno negli Anni 50 voleva un processo, sostiene Klinkhammer, che avrebbe avuto come zavorra sempre lo stesso dilemma. A chi dovevano rispondere i soldati italiani? Quando il 14 novembre 1944 rientrarono a Taranto solo 1.283 degli 11.560 soldati della divisione Acqui presenti sull’isola, fu chiara solo una cosa: si era consumata una tragedia legata al modo in cui l’Italia aveva posto fine alla guerra. Ancora nel 1945, per ben due volte, il Ministero della Guerra tentò di fornire una rappresentazione ufficiosa degli avvenimenti in cui non si rilevavano evidenti tensioni tra il generale comandante della divisione e gli ufficiali che avevano voluto combattere. La giustizia militare portò avanti le indagini per altri 10 anni. Per Pampaloni e Apollonio cadde ogni accusa. E si scelse di non procedere né contro lo Stato Maggiore generale del re e di Badoglio, né contro i militari della Wehrmacht. Ben diverso, a guerra ancora in corso, era stato il sentimento di Benedetto Croce, padre fondatore del mito di Cefalonia in chiave esortativa: un appello a reagire, ad unire le forze militari e civili per combattere l’occupazione nazifascista del Paese. Nel nuovo clima postbellico, invece, le diverse alleanze dello scenario politico internazionale presentano il conto. A farne le spese è la verità sull’assassinio di migliaia di militari italiani. Sarà Sandro Pertini, nel 1980, a denunciare la congiura del silenzio; poi, nel 2001, Carlo Azeglio Ciampi renderà solenne omaggio a quei caduti. Il 25 aprile di quest’anno il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha commemorato la Festa della Liberazione nazionale nell’isola dello Jonio. Ma la giustizia, quella dei tribunali, quella della condanna e della pena per i colpevoli, quella – è quasi certo – i martiri di Cefalonia non la otterranno più.

Patria indipendente, luglio 2007

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