Patria indipendente

Il racconto di Roberto Buganè

«Io sopravvissuto alla strage dei nazisti a Marzabotto»

 

Ernesto Nassi, “Consulente per la Memoria” dell’XI Municipio di Roma, con impegno e fedeltà storica (nei limiti del possibile) racconta vicende di persone e fatti accaduti durante l’occupazione tedesca. La persona che gli racconta la sua storia è Roberto Buganè, un signore gentile, con la cortesia innata della gente emiliana, che nel 1944 era sfollato nel comune di Marzabotto, a Monte Sole, luogo simbolo delle stragi. Raccontare, per lui, è significato rivivere l’angoscia e la paura di quei giorni, anche se, fortunatamente, la sua storia non si è conclusa tragicamente.

 

di Ernesto Nassi

 

«Mio padre era di un paese, La Quercia, una delle “porte d’ingresso” al parco storico di Monte Sole, mia madre era di Nagaro, frazione di Castiglion dei Pepoli. Dopo sposati si trasferirono a Bologna, dove nacqui il 10 giugno 1940. Durante la guerra, con il babbo al fronte, io e la mamma lasciammo Bologna, per trasferirci a Vado di Monzuno, circa 25 km da Bologna, lungo la valle del torrente Setta, perché il marito della sorella di mia madre, Ines, era del posto ed aveva una casa dove ospitarci. Vado si trova in una strettoia tra le due catene di monti che delimitano la valle del Setta, una catena separa dalla valle del Reno, dove si trova Marzabotto, e l’altra catena separa dalla valle del Savena. In quel punto, la ferrovia direttissima che da Firenze porta a Bologna, attraversa il fiume passando su di un ponte, sotto il quale si trova il paese, considerato militarmente un punto strategico di grande importanza, in quanto la ferrovia (come oggi) è il collegamento principale tra l’Italia del nord e l’Italia del sud. Al primo bombardamento alleato, credo il 18 maggio del 1944 (la data mi fu ricordata in seguito), noi che abitavamo sotto il ponte, al suono dell’allarme corremmo verso un piccolo rifugio scavato nella roccia della collina dal quale potevo vedere, come se fosse un temporale, il bombardamento del ponte che saltava in aria, con un rumore fortissimo unito al rumore del motore degli aerei, provocando in me bambino una paura mista ad emozione e curiosità, per quello che vedevo e non capivo. Ne rimasi assolutamente affascinato. Oltre al ponte, purtroppo, venne colpita la casa degli zii, nella quale Ines il giorno prima aveva partorito il suo terzo figlio, Marco. Durante il bombardamento abbandonammo la casa che crollava, e lungo la strada per raggiungere il ricovero, lo zio Arrigo incontrò l’ufficiale di Stato Civile al quale comunicò la nascita del bambino che avrebbe chiamato Marco. Costui scrisse il nome su un giornale. Mio cugino Marco a sei anni scoprì di chiamarsi Mario, per un errore di trascrizione sul giornale. Consapevoli dei pericoli decidemmo di andarcene da Vado. Lo zio venne a prenderci con un camion e ci condusse a Rioveggio, dove convinse un certo Zanini, proprietario di villa Serana che si trovava alle pendici di Monte Sole, nel comune di Marzabotto, a permetterci di occuparla. Ci ritrovammo, fra parenti e amici, in 61, tutti sfollati, a vivere nella villa. In seguito gli uomini validi, alle prime avvisaglie di rastrellamento, andarono nel bosco per unirsi ai partigiani di “Stella Rossa”. La villa era vuota, grande, con una lavanderia scavata nella roccia ed una scuderia con due grandi finestroni chiusi da scuri verdi, dove probabilmente tenevano il fieno, sotto i quali c’erano le stalle e le rimesse delle carrozze. Intorno alla villa si trovavano altre abitazioni, di proprietà dei contadini. Ricordo un lungo viale costellato di cipressi che conduceva all’aia e da lì ad un casolare, dove aveva trovato ospitalità il fratello del babbo che andavo a trovare con la mamma. Ricordo un grosso pino da dove cadevano i pinoli che raccoglievo per mangiare. Davanti la villa c’era un piccolo giardinetto, con un’aiuola ed una fontanella. Per pochi mesi, nonostante la guerra, vivemmo discretamente. Ma la guerra, con il suo carico di morte e dolore, ci raggiunse! Un giorno, da lontano, udimmo colpi d’arma da fuoco, forse erano i partigiani di Lupo, il leggendario comandante della Brigata “Stella Rossa”, che si battevano contro i tedeschi. Gli adulti parlavano piano, per non farci sentire, di quello che stava accadendo nelle vicinanze, delle sparatorie e delle case bruciate, ma noi piccoli capivamo che fuori era “brutto”. Ci rifugiammo nella lavanderia, dove gli uomini avevano messo delle tavole di legno a protezione dell’ingresso e iniziato a costruire un terrapieno per coprire l’entrata che non ebbero il tempo di finire perché andarono nel bosco. Il rifugio era uno stanzone con grandi masconi coperti con altre tavole di legno, usate per rendere più capiente il locale, ed eravamo tutti ammassati e in silenzio. Le donne ed i bambini recitavano il Rosario perché, da fuori, si udivano spari da ogni parte, colpi di mitraglietta, fucili ed altre armi, che sbattevano contro le tavole di legno usate per coprire il nostro rifugio. Tolte le tavole, nel rifugio entrarono i tedeschi che urlando ci cacciarono fuori e, con le armi spianate, ci portarono dietro la villa, radunandoci nell’area davanti le stalle. Ci trovammo con le spalle verso la valle, tutti in fila al bordo di una piana e davanti i tedeschi con le mitragliatrici! Di quei momenti ricordo un fatto strano: i soldati tedeschi si divertivano a far rotolare delle forme di formaggio e uno di loro colpì molto la mia curiosità. Costui portava sulle spalle uno strano attrezzo che non capivo a cosa servisse, una specie di asta con in cima una cosa che sembrava una pera. Passati gli anni ho capito: era un “Panzer Fauster”, un cannoncino tipo bazooka. Mentre guardavo fui distolto da mio cugino di 7 anni che rivolgendosi alla mamma la invitava ad abbassarsi alla sua altezza, perché così sarebbero morti insieme. Quando rammento quel momento mi sale un groppo alla gola e non riesco a parlare! Nel cielo vedemmo il fumo delle granate che scoppiavano in aria, a circa 1 km di distanza da noi, dove si trovavano le truppe inglesi. Erano vicinissime. Improvvisamente i tedeschi urlando ci spinsero verso il rifugio, che era saturo del forte odore di polvere da sparo, ed ancora oggi, quando sento quell’odore mi tornano in mente quei momenti. Nel rifugio trovammo le nostre valigie sfondate a colpi di baionetta ed io, per circa due anni, ho indossato una mantellina incerata a cui mia mamma aveva cucito gli squarci delle baionettate. I tedeschi cercavano soldi, oggetti preziosi e quant’altro di valore da arraffare. Accertatisi che eravamo solo degli sfollati, non coinvolti con i partigiani, ci lasciarono liberi invitandoci ad andare a Bologna, ma noi non lo demmo ad intendere perché volevamo raggiungere le linee alleate e così, rinfrancati dallo scampato pericolo, ci avviammo lungo la strada che conduce a La Quercia, scendendo per una strada fangosa fino ad una località chiamata Rivabella, raggiungendo un casolare bianco, distante 300 metri dal paese, dove venimmo fermati da fascisti in camicia nera che, sorpresi e messi a conoscenza che venivamo da Serrano, ci dissero che era un miracolo che fossimo ancora vivi, perché la strada da noi percorsa per un lungo tratto era minata! Avevamo camminato sulle mine! Tirato l’ennesimo sospiro di sollievo, riprendemmo il cammino fino a La Quercia. Dei 61 di villa Serana eravamo rimasti in pochi: io, la mamma ed alcuni parenti, tutti gli altri avevano scelto strade diverse. Questo racconto, oggi, è possibile perché, crescendo, ho capito quanto accaduto a Marzabotto e villa Serana tra il 29 settembre e il 3 ottobre del 1944, quando fummo ad un soffio dalla morte. Morte che in quei giorni, nella zona di Monte Sole, tra Marzabotto, San Martino, Caprara, Casaglia ed altre località, si impadronì di 1.830 innocenti!». I fatti di villa Serana sono raccontati nel libro scritto dal giornalista e scrittore americano, Jack Olsen, dal titolo Silenzio su Monte Sole, dove sono riportate interviste a persone sopravvissute alle stragi di Marzabotto. Una delle intervistate è Amelia Molinari, la moglie di Alfredo Comellini: «… ero nel rifugio di villa Serana quando, alle prime ore del mattino, venne una pattuglia di tedeschi che ordinò di riunirci nel cortile del grande edificio. Con i tedeschi, molti dei quali ragazzi di 16-17 anni, c’era un conoscente di mio marito, Raffaele Sammarchi di Casagliostro, che portava sulle spalle una pesante bobina di filo e sul petto un telefono da campo, dando l’impressione di conoscere bene i tedeschi, ed infatti disse: “… non sono dei cattivi ragazzi”, convincendomi a non temerli. In effetti si mostrarono gentili e premurosi con noi e ci dettero delle forme di cacio da dividerci. Camminando inciampai e mi cadde il bambino di tre anni che avevo in braccio. Un giovane tedesco, con il fiato che puzzava di alcool, mi aiutò a rimettermi in piedi e, preso il piccolo, gli batté delicatamente il didietro porgendomelo, ed io rasserenata gli dissi: “Come potete essere così buoni e così cattivi?”. Ci venne da ridere. In un italiano incerto i tedeschi ci ordinarono di consegnare il contenuto delle valigie e di rovesciare le tasche. Alfredo, prima di nascondersi nel bosco per sfuggire alle SS, mi aveva lasciato tutta la fortuna della famiglia che, ora, ero costretta a dare ai tedeschi: 40.000 lire in contanti e sei vaglia postali da 600 lire cadauno. Raccolti gioielli, oro, soldi e orologi, le SS si misero al telefono da campo e subito dopo in fondo al cortile furono piazzate tre mitragliatrici pesanti. Dal viale arrivò un ufficiale delle SS e due giovani donne con in braccio dei bambini gli corsero incontro. Lo conoscevano e l’ufficiale mostrò meraviglia nel trovarle in quel posto. Gli dissero che avendo sentito degli spari, avevano deciso di trovare un posto più sicuro. L’ufficiale, di rimando, rispose che gli spari non erano per loro ma per i partigiani ai quali davano la caccia. Le giovani chiesero il motivo dello schieramento dei suoi uomini contro di loro e l’ufficiale, rivolgendosi ai soldati, cominciò a discutere con alcuni di loro e poi si mise al telefono per oltre cinque minuti, con toni accalorati. Infine, rivolto alle due donne, disse che sarebbero andati a caccia di partigiani e se ne avessero trovato uno nelle vicinanze sarebbero tornati per fucilarli tutti! Tolsero le mitragliatrici e andarono verso San Martino, compreso Sammarchi che, più tardi, fu trovato morto con la faccia nel fango, a 20 metri dalla Chiesa di La Quercia, gli avevano sparato alle spalle».

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La zia Ines Calzolari in Lanzarini rilasciò un’intervista ad un mandato della Curia bolognese per la causa di beatificazione di alcuni preti assassinati dai nazisti: «… Nel 1944 ero sfollata a Vado con la famiglia e, ricordo, il 16 maggio è nato mio figlio Marco. Due giorni dopo ci fu un bombardamento alleato che causò 16-18 vittime e la distruzione della nostra casa. Rammento un fatto curioso. Dopo il bombardamento, tra le macerie della casa, mio marito trovò intatta la cucina, sul fornello la pila dell’acqua con dentro il pollo, che ancora bolliva! Visto il pericolo e la mancanza di un tetto ci trasferimmo in una villa abbandonata che il proprietario permise a mio marito di occupare, dicendo che era vuota perché i partigiani avevano portato via quasi tutto. Durante il soggiorno nella villa mi sono convinta che le ruberie, attribuite ai partigiani, non erano mai avvenute e che le cose mancanti avevano preso altre strade… La villa era occupata dai partigiani e quando arrivammo il comandante radunò i suoi uomini, una ventina circa, e si trasferirono a Caparra (località in seguito distrutta dai tedeschi). Il 29 maggio avvenne il primo rastrellamento tedesco ed i partigiani per sfuggirne le conseguenze abbandonarono Monte Sole e si trasferirono a Pietramala. Per poi tornare in seguito. Un giorno venne da noi il comandante partigiano Lupo, personaggio leggendario, per invitarci a Caparra perché avevano macellato del bestiame. Andando verso Caprara assistemmo, dalla radura di San Martino, ad un bombardamento alleato alle Pioppe, sul versante del Reno. Era settembre, pochi giorni prima dell’attacco nazifascista a Monte Sole. Una sera a villa Serana vennero un tedesco ed un fascista, chiedendo chi eravamo e se avevamo visto partigiani in giro. Usando un tono poco raccomandabile ci avvertirono di non aiutare i partigiani, altrimenti… La sera del 28 settembre (non è sicura come data) venne Lupo e chiese la batteria di una macchina, ferma perché guasta, che gli serviva per riattivare la radio, dal momento che gli alleati non gli facevano più lanci. In compagnia di Lupo c’era un giovane di Santa Isaia, Ferruccio Magnaghi, a cui chiesi come mai fosse con i partigiani. Lui mi rispose che era il commissario politico. Il mattino dopo arrivarono i tedeschi. Noi eravamo nel rifugio e ci fecero uscire tutti fuori. Ricordo che avevano delle ceste di formaggi e, infuriati, per farci camminare, presero a tirarceli contro e li vidi rotolare lungo la strada. Udimmo in lontananza scoppi e spari. Era iniziata la “mattanza” di Marzabotto! Noi ci trovavamo a poche centinaia di metri da San Martino e da altri luoghi coinvolti nel rastrellamento. Fu terribile, eppure non ci uccisero. Perché? Le ipotesi sono due: avevano messo a soqquadro la casa senza trovare nulla di compromettente; intuirono che eravamo persone non della zona, ma solo sfollati innocui. Ricordo che a villa Serana si trovava Palmira, la mamma di Gianni Rossi, vice-comandante della Brigata “Stella Rossa”, che pochi giorni prima del rastrellamento tedesco del 29 era andata via. Ricordo anche un ufficiale tedesco che, quando uscimmo dal rifugio, volle prendere in braccio una bambina di sfollati bolognesi e carezzandola le tagliò le unghie delle dita, rassicurando i genitori terrorizzati. L’ufficiale probabilmente, in quel momento, era solo un padre che attraverso quella bimba, tornava con il pensiero alla sua figliola in Germania. I soldati, via radio, erano in contatto con il loro comando dal quale ricevettero direttive di farci entrare nel rifugio. Nel pomeriggio tornarono, ci fecero uscire per poi rientrare. Il 29 settembre piovigginava, mentre il 30 era sereno. Alla giornata serena è collegato il ricordo della distruzione di villa Serana. Fu incendiata dai tedeschi. Nonostante fosse semidistrutta, rimasi nei resti di quella che un tempo era la villa fino al 9 ottobre 1944… Ricordo che i partigiani, a villa Serana, erano di casa e spesso venivano con i cavalli al galoppo, lungo il viale alzando un grosso polverone, costringendo le donne a rimproverarli perché a due km in linea d’aria c’erano i tedeschi. Erano pur sempre dei ragazzi. Spesso, durante la notte, noi donne facevamo il pane e poi lo portavamo nel bosco ai partigiani. Il comandante tedesco ci propose di andare a Bologna con loro, ma rifiutammo perché volevamo raggiungere le zone liberate dagli alleati. Dopo un lungo e faticoso cammino arrivammo a La Quercia e ci rifugiammo nella galleria ferroviaria di Elle. Ricordo che urtai un filo collegato ad una mina, rischiando di saltare in aria. Rimanemmo in galleria fino al 13-14 ottobre. Tra la galleria principale ed il torrente Setta c’era una galleria ausiliaria usata per il trasporto materiali che noi risalimmo per giungere a Rioveggio. Ma come mettemmo il naso fuori dalla galleria, cominciarono a spararci da ogni parte. Eravamo esattamente nella “terra di nessuno”. Rimanemmo nella galleria per cinque giorni, perché era impossibile uscire o entrare. Riuscimmo a far sapere che eravamo in galleria e da Rioveggio vennero degli uomini che ci accompagnarono lungo la ferrovia fino al paese.»

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Buganè del fatto ricorda: «in galleria c’era un monticello di zucche gialle che mangiammo, compresi i “bruscolini”. Ricordo la notte che gli alleati tentarono di passare nella galleria dove eravamo nascosti e furono indotti a rinunciare a causa di fuoco amico: un bombardamento alleato! Salvati, fummo condotti in località Casa del sarto di Rioveggio e mandati in una cantina perché era in corso un cannoneggiamento tedesco. Non potendo fermarci lì decidemmo di andare verso Castiglion dei Pepoli. Io e la mamma, con la zia Ines e i suoi tre bambini, ci incamminammo lungo la strada provinciale dove ci imbattemmo in una batteria inglese. Proseguendo per tre chilometri arrivammo ad un ponte che traversava il Setta, dove fummo fermati ad un posto di blocco alleato. I soldati volevano mandarci in un campo per sfollati a Firenze, però la mamma e la zia riuscirono a portarci via. Poche centinaia di metri più avanti fummo fermati da un capitano degli alpini: erano soldati italiani che combattevano con gli alleati. Spiegatogli dove volevamo andare, ci mise a disposizione un camion militare per condurci a Castiglion dei Pepoli dove aspettammo la fine della guerra. Subendo anche un bombardamento tedesco. A guerra finita io, la mamma e la zia Ines con i cugini, siamo tornati a Bologna dove abbiamo vissuto insieme fino ai miei diciannove anni».

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Finito il racconto, Roberto Buganè mi mostra un santino funebre. Era dello zio Arrigo, marito della Ines, allontanatosi da villa Serana assieme ad altri uomini per unirsi ai partigiani. C’era scritto: “Arrigo Lanzarini di anni 42 vittima della barbarie tedesca”. Dopo un anno la famiglia è venuta in possesso del corpo straziato. Nella sua tomba in realtà sono sepolti in sei, perché furono trovati tutti assieme e non si è riusciti a separare le ossa degli uni dagli altri. Sulla lapide ci sono i sei nomi, tre erano miei parenti. Nel santino funebre è scritto: «Il giorno 9 ottobre 1944 in località Zolla di Monte Sole, il cinico e crudele soldato tedesco troncava l’esistenza di Tullio Buganè, di suo figlio Pietro e del nipote Roberto Buganè, togliendoli all’affetto dei cari e di quanti li conoscevano, la morte li ha colti insieme avvincendoli in una stretta eterna, così come in questa vita terrena essi eletti di spirito e pieni di sentimenti operarono. L’attimo in cui per l’ultima volta vi siete abbracciati e rivolti tranquilli verso i vostri carnefici era sublime, non una parola di vendetta, non una imprecazione, solo il sorriso dei vostri volti illuminava il triste quadro della prossima fucilazione. Dopo lunghi e atroci mesi di attesa, nella lotta dei sentimenti, fra la speranza ed il dubbio, mani pietose di compagni, unitamente a quelle della cognata e zia Giuseppina Buganè, hanno raccolto i vostri corpi per dar loro finalmente quella pace eterna nella vostra terra affinché i vostri cari possano posare un fiore d’amore e di bontà. I compagni di Brigata s’inchinano riverenti davanti alle vostre salme, certi che il sacrificio da voi compiuto vi ha assistito sull’altare degli eroi, tra coloro che tutto diedero senza nulla chiedere. Dall’alto dei cieli, confortate nel grande dolore senza conforto, chi vi avvince…». Erano partigiani di “Stella Rossa”. «Un fratello di mio padre, Renato Buganè, morto a 40 anni, era sfuggito ad un rastrellamento tedesco mentre attraversava la prima linea di notte. Fu ucciso per errore da una sentinella alleata e trovato morto in località Carighetto di Monzuno. Anche lui era nella Resistenza come “patriota”. Una sorella di mio padre a causa della guerra, per le paure e le angosce causate dai continui bombardamenti alleati, morì di crepacuore».

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Buganè, nel concludere il suo racconto, ricorda il tributo di sangue pagato dalla sua famiglia e come si consideri un “miracolato”, unitamente agli altri sfollati di villa Serana, perché i tedeschi li risparmiarono, mentre tutt’intorno bruciavano case e uccidevano bambini, donne, anziani e animali.

 

Patria indipendente, 10 dicembre 2007

 

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