Patria indipendente
Il segno di Gillo Pontecorvo nella storia del cinema
di Serena D’Arbela
Gillo Pontecorvo è scomparso il 12 ottobre scorso. Per ricordarlo la rete televisiva La 7 ha messo in onda un suo indimenticabile film del ’66, La battaglia di Algeri. Con emozione ed attenzione abbiamo rivisto quelle sequenze coinvolgenti che si guadagnarono il Leone d’Oro a Venezia nello stesso anno, col dissenso della delegazione francese. Era difficile non ripensare al ruolo di Gillo, nome di battaglia “Barnaba”, nella Resistenza, a Milano, accanto a Eugenio Curiel, nella costruzione del Fronte della Gioventù. Questo momento del suo vissuto, forse non molto noto, la conoscenza dal vivo della lotta clandestina, si ritrova nella sua opera di regista come una traccia durevole. Autore intelligente e cosmopolita, ironico e giocoso, gentile e schivo, Pontecorvo occupa un posto importante nella storia del cinema. Tra i suoi altri film, Giovanna (1956), La grande strada azzurra (1957), Queimada (1969) con l’attore Marlon Brando, e Ogro (1979) con Gian Maria Volonté, ispirato all’attentato a Carrero Blanco ad opera dei terroristi baschi, risalta Kapò (1959. In esso, come nella battaglia algerina, il regista scava profondamente nell’individuale e nel collettivo. Nel primo, affonda nella condizione concentrazionaria attraverso il dramma della fragile protagonista quattordicenne, fatta specchio dell’Olocausto e delle sue sofferenze. L’elemento corale va e viene dallo sfondo al primo piano intrecciandosi col personaggio. Nel secondo, abbraccia la vicenda di un intero popolo per l’affrancamento dal colonialismo. Dall’escalation di fatti trasudano le ragioni profonde che animano l’azione, fatta di tanti frammenti umani, scelte decisive, gestualità di parti avverse. Nel primo film, ci si immerge nel relativo, nei momenti eroici e negli angoli oscuri infernali del lager nazista ove l’estrema barbarie detta le sue regole e solo l’istinto di sopravvivenza galleggia. Nel secondo, i ritratti di combattenti algerini riportano alla lotta sotterranea che, via via, diviene generale. Grazie allo sprezzo del pericolo, al sacrificio, alla forza di pochi, la fiducia si estende, in difesa dei valori nazionali negati, malgrado le torture inflitte dai francesi. Incisive le figure dei resistenti, Djafar, Ben Bouali, di Alì La Pointe, che il carcere tramuta da malavitoso in combattente e poi capo dell’organizzazione patriottica. Nelle sequenze iniziali, quella significativa di una larva d’uomo divenuto spia dopo le torture. Come sempre, i deboli e i forti. Ben disegnati i francesi ormai radicati in Algeri, tracotanti, convinti di essere “padroni” in una terra non loro, che chiamano “topi” i nativi. Il dritto e il rovescio, il bene e il male, terrorismo e torture, razzie, linciaggi. I volti rappresentano per Gillo una prova indispensabile degli eventi. Uno per uno. L’obbiettivo li centra per esprimere un momento di verità insostituibile. Fruga nello sguardo di Edith, la quattordicenne di Kapò, ove si concentrano la paura e il desiderio accanito di vivere. Svela il passaggio della ragazza da vittima terrorizzata a prostituta e complice delle SS. Mostra l’amore che le restituisce l’identità, la speranza nel futuro e la redime fino al sacrificio della vita. Nella dedizione dei militanti della battaglia di Algeri a un rischio totale, per la causa, troviamo un uguale risultato ideale ed espressivo. Forti, quasi impassibili, le donne algerine che nascondono l'esplosivo nelle borse, passano, tese, determinate, attraverso i posti di blocco dei paracadutisti francesi. Quei primi piani suscitano il batticuore. Gillo, di famiglia israelita, appartiene alla generazione che subì le persecuzioni fasciste e fu costretto a emigrare in Francia. Questo spiega la sua particolare capacità di penetrare nel tema dell’Olocausto. Il senso di quel tempo sinistro guida i ritmi delle sequenze, la descrizione tagliente dell’arrivo dei convogli nei campi, dei fischi dei treni, delle fumate dei forni crematori, dei bastoni che si agitano e colpiscono, degli ordini gutturali germanici, già di per sé arma offensiva. I prigionieri nudi e indifesi corrono in fila sospinti verso le camere a gas. L’azione è fatta di tante sciabolate visive con sorprese agghiaccianti, alternate al volto sensibilissimo di Susan Strasberg. E Gillo rende con incisività, dal di dentro, anche la spietatezza della guerra che, alla fine, obbliga la giovane protagonista, anelante alla vita, a rinunciarvi immolandosi per la Storia. Infatti i suoi stessi compagni e l’uomo amato, il russo Sascia (Laurent Terzieff), la sacrificano per una ragione “superiore”, perché non c’è alternativa. Ucciderne uno per salvarne mille. La contrapposizione del soggetto alla collettività è un elemento interessante e problematico del film, che porta a riflettere sulla unicità di ogni vita umana. Oggi, di fronte al proliferare di eccidi da ogni parte, osserviamo più che mai l’inadeguatezza di calcoli numerici in un campo come l’etica, non misurabile in cifre. Fa riflettere lo scetticismo di Edith morente, turbano le sue parole «Ci hanno fregati» e l’infinito dolore della sua preghiera finale. Ma torniamo al Gillo partigiano. Ritroviamo gli echi della sua esperienza nei fotogrammi della rivolta algerina, serrati, impietosi, con la provvisorietà e fulmineità della lotta. Pur nelle differenze di epoche e contesti, i resistenti hanno sempre qualcosa di comune, la clandestinità, le parole d’ordine, i biglietti passati di mano in mano, le donne e i bambini come messaggeri, gli attentati nei luoghi del nemico. Il film si muove documentando le crudeltà contrapposte. Le esplosioni nei caffé. L’infamia della tortura praticata dai francesi. Poi l’astuzia poliziesca. Il colonnello dei parà, Mathieu (Jean Martin), tesse la sua ragnatela di spionaggio approfittando di uno sciopero generale, per identificare ed eliminare i vertici del Fronte di Liberazione Nazionale, e ci riesce. Ma La Pointe, l’ultimo capo rimasto, con i suoi, asserragliato dietro una parete, si fa saltare in aria insieme ai paracadutisti. È una sconfitta, ma provvisoria. C’è poco da fare quando la causa è giusta. La forza del consenso popolare sta montando tra i vicoli e le persiane socchiuse della Casbah, sui tetti bianchi che fanno da scalini e passaggi ai resistenti e alle scorribande dei militari. Ben presto (nel 1960) l’Algeria sarà libera e indipendente. Nel film non c’è un particolare in più, tutto “cresce” nel tempo e nella coesione, sotto lo stile scarno delle immagini. C’è poi l’apporto notevole della colonna sonora, in chiave narrativa, che accompagna, sottolinea, introduce. Gillo ama la musica, conosce bene il suo potere psicologico. Con Ennio Morricone sceglie il commento dei tamburi, dei suoni magrebini e del jazz, come in Kapò aveva scelto il clavicembalo per certe scene di grande interiorità e, per altre, gli inni tedeschi a fiancheggiare le fasi delle sevizie sui prigionieri. Uomo di cultura, sempre curioso come può esserlo un artista, Gillo si mostrò sempre aperto al nuovo, anche come Direttore della Mostra del Cinema di Venezia dal 1992 al ’96, disponibile con gli amici e compagni, comprensivo verso i giovani autori, per i quali promosse nel 1986 il Premio intitolato all’amico sceneggiatore Franco Solinas, che fu un incontro decisivo nella sua vita. Forse non aveva dimenticato la lontana occasione del 1946, quando entrò quasi casualmente nel mondo della celluloide, scelto come attore non professionista nel film di Aldo Vergano Il sole sorge ancora (1946), finanziato dall’ANPI. Interpreta un giovane operaio, prigioniero dei nazisti che va alla fucilazione. Nella celebre sequenza, lo accompagna e sostiene la folla dei paesani che pronuncia in coro, con toni sempre più severi, la litania iniziata dal sacerdote (Carlo Lizzani).
Patria indipendente, 29 ottobre 2006