Patria indipendente

Il coraggioso ufficiale della Acqui che comandò la ribellione antinazista

Amos Pampaloni, il fucilato di Cefalonia, ci ha lasciati

Il suo lungo racconto sul massacro di migliaia di soldati e ufficiali. Rimase vivo sotto corpi dei suoi uomini. La sua battaglia per ricordare sempre e ovunque

 

Anche Amos Pampaloni ci ha lasciato. È morto a Firenze, nella sua casa, alla bella età di 95 anni. Una età straordinaria per uno dei fucilati della divisione Acqui, a Cefalonia. Pampaloni era stato l’ufficiale che aveva dato il via alla rivolta contro la minaccia di occupazione nazista dell’isola greca, da parte delle forze naziste, subito dopo l’8 settembre. I libri di storia dell’intera Europa hanno parlato e parlano di lui e dell’eroica resistenza della divisione Acqui che, dopo una lunga resistenza con morti e feriti, fu costretta alla resa dalle soverchianti forze nemiche. La divisione Acqui non ebbe mai rinforzi e venne schiacciata dai continui bombardamenti e dalla fine delle munizioni. I soldati italiani, caso più unico che raro, erano stati chiamati democraticamente a votare, se cedere le armi o reagire. Decisero, coraggiosamente, di dare battaglia. Fu uno sterminio atroce e terribile. Dopo gli scontri e la resa, migliaia di soldati e di ufficiali, l’intero Stato maggiore divisionale, i medici, gli infermieri, i carabinieri, i feriti del piccolo ospedale da campo e anche il comandante della divisione generale Gandin, furono massacrati a raffiche di mitragliatrice, benché fossero in divisa e si fossero arresi. Pochi superstiti furono imbarcati su alcuni pontoni e spinti in mare, lungo la costa, in una zona che si sapeva minata. Fu ancora strage. Pampaloni, fucilato insieme ai suoi artiglieri, sopravvisse sotto una catasta di corpi e si unì, con altri, ai partigiani greci per poi rientrare in Italia alla fine della guerra. Pampaloni non ha mai cessato, in tutti questi anni, di girare le scuole, di avere incontri e di partecipare a convegni, dibattiti e manifestazioni, per raccontare e spiegare il martirio della divisione Acqui e la Resistenza militare al fascismo e al nazismo. Quando il Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi, si è recato a Cefalonia per rendere omaggio ai soldati “ribelli”, lo ha accompagnato lui, Pampaloni che, a “Kefalonia”, tutti ricordano e conoscono. Soprattutto i vecchi partigiani del posto, i figli e i nipoti degli abitanti di Cefalonia che tanto aiutarono i soldati italiani. È stato Pampaloni ad aver chiesto alla famiglia di dare notizia della sua morte solo ad esequie avvenute. Qualche anno fa, nella sua casa di Firenze, il più famoso ufficiale della Acqui, aveva avuto un lungo incontro con il nostro direttore che ne aveva ricavato una intera pagina di racconto-intervista che era uscita su l’Unità dell’8 settembre 1993. La riproponiamo per i più giovani e per tutti coloro che non avevano mai avuto occasione di conoscere Pampaloni di persona.

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FIRENZE. Eccolo Amos Pampaloni, il capitano della divisione Acqui, fucilato a Cefalonia dai nazisti e sopravvissuto accanto ai corpi dei suoi soldati, in quei giorni terribili, dopo l’8 settembre. Eroe? Lui sorride quando sente la buffa e un po’ consumata definizione. Un sorriso bello, franco, leale che piacque subito ai suoi soldati, ai “superiori” e ai partigiani greci. Pampaloni odia la retorica. A lui non piacciono le fanfare, le celebrazioni, le decorazioni. Sì, certo, il capitano ha avuto una Medaglia d’Argento al Valor Militare. La sua batteria, la prima che fece fuoco contro i nazisti che stavano sbarcando sull’isola ebbe, invece, quella d’Oro. Decine di libri italiani, tedeschi, francesi, inglesi, slavi e greci, parlano di quell’ufficiale fiorentino scampato alla morte non si sa bene perché, dopo quel massacro bestiale a Cefalonia, a due passi da Itaca: seimilacinquecento militari italiani fucilati e straziati dalle mitragliatrici, per aver combattuto e non aver voluto cedere le armi, dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre. Quasi l’intera divisione Acqui, “ribelle” e “badogliana”, cancellata per sempre, con tutto lo stato maggiore e lo stesso generale comandante Antonio Gandin, per un ordine diretto di Hitler. Gli altri, i sopravvissuti, furono spediti nei campi di lavoro, nei lager, in Germania, in Polonia e persino in Russia. Erano soldati in divisa che, stremati da una settimana di combattimenti, avevano deciso di arrendersi, credendo nella lealtà del nemico al quale si erano affidati feriti, affamati, senza più munizioni e dopo giorni e giorni di terribili bombardamenti aerei. La storia della Acqui e dei suoi soldati e ufficiali, fu rievocata durante il processo di Norimberga che condannò a qualche anno di carcere (cinque, di cui solo due scontati) un generale tedesco responsabile delle operazioni in Grecia e della tragedia della “grande unità” italiana. Pampaloni, oggi, ha 83 anni. Alto e magro come in tutte le foto che lo ritraggono in divisa, si muove con la sicurezza di allora e non ha mai smesso la vita attiva. Ovviamente è pensionato, una “pensioncina dell’Inps”, dice, dopo anni e anni di lavoro all’Aci di Firenze. «Con la tua storia – azzardiamo – avrai una pensione dallo Stato». E Pampaloni: «Non l’ho mai chiesta. Non mi interessava, né mi interessa!». «Possiamo darci del tu? – chiediamo – Sei un simbolo della Resistenza e quelli della mia generazione, a Firenze e in Toscana, hanno letto la tua storia sui libri o l’hanno sentita dai genitori. Insomma, è un po’ come conoscerti da sempre». «E come potrei – risponde – raccontare quello che capitò alla nostra divisione, con un lei un po’ buffo e un po’ forzato?», risponde. La moglie del “capitano”, signora Marisa, siede accanto a noi per qualche minuto. Poi esce. Conosce la storia della Acqui a memoria. «Sì, mio padre era un funzionario delle ferrovie dello Stato di idee socialiste. Ma io, politicamente, non ero proprio niente. Nel 1931 fui spedito al corso allievi ufficiali. Allora era obbligatorio. Quando uscii, ero sottotenente di artiglieria. Poco dopo mi laureai in economia e commercio. Il 3 settembre del 1939, fui richiamato e in pochi giorni fu costituita la “Acqui”. Poi, subito, partenza per la frontiera francese. Non ci crederai, ma avevamo ancora le divise estive addosso. Con quelle, ci mandarono all’assalto contro i francesi che erano già stati messi in ginocchio da Hitler. Credimi – racconta Pampaloni – non vidi neanche un soldato morto in guerra. Venivano giù dalle montagne tutti congelati e cascavano in terra. Dopo pochi minuti erano morti. Finalmente tornai a casa e al lavoro. Mi ero già sistemato presso un’agenzia di spedizioni. Ero ancora iscritto al Guf (i gruppi universitari fascisti) perché non si potevano dare esami se non in camicia nera. Vinsi un concorso al “Raci” (l’Automobil club di allora, ndr) e fui mandato a Trento». Pampaloni spiega e racconta con semplicità. Siamo nel soggiorno pieno di quadri, di ninnoli e libri. Niente che ricordi la guerra o la tragedia della Acqui. Da fuori, arriva una musica rock che qualche ragazzo sta ascoltando in casa. Lontano, si vedono le grandi “gabbie” con i fari dello stadio. Siamo a due passi dal Campo di Marte. Il capitano Pampaloni racconta del novembre del 1940. In quel periodo, lo richiamano ancora una volta e lui si presenta al reggimento e sceglie i suoi artiglieri tra i toscani e i bergamaschi. Tutti da regioni che sentiva vicine. Poi, subito, la partenza per l’Albania. Arriva a Valona e incontra le prime difficoltà. I cannoni della sua batteria, tutti preda bellica della guerra ’15-’18, sono al porto regolarmente, ma non ci sono i muli per il trasporto, «insomma – spiega Pampaloni – i soliti casini all’italiana». E aggiunge: «Andiamo in prima linea nel freddo e nel fango. Riusciamo a “vincere”, come tutti sanno, soltanto con l’aiuto dei tedeschi. Era dura. Entriamo in Grecia e anche su quei monti un dramma. Vedevo, dalla mia postazione, i greci che venivano su con grande coraggio. Tutti ragazzi giovani come noi e salivano, salivano all’attacco, senza paura». Da fuori arriva ancora una bordata di musica. Poi silenzio. Il ragazzo del rock, forse si è stufato. «Siamo tra il ’41 e il ’42 – riprende Pampaloni – ed è Capodanno. La guerra mi ha già reso molto più maturo di quello che dovrei essere. Noi della classe 1910, siamo stati sempre tutti un po’ così, proprio per colpa della guerra. Dovevamo far festa. Ma era esploso un obice in un cannone della batteria e aveva ammazzato otto miei soldati. Siamo a Corfù, in quei giorni, e il Capodanno diventa niente. La mia batteria, la prima del Trentesimo reggimento artiglieria, viene mandata a Cefalonia. Niente licenze e niente permessi. La vita sull’isola, però, non è male. Noi siamo gli occupanti, ma i greci ci vogliono bene. Dicono che non siamo cattivi. Loro ci danno un po’ di frutta e noi le scatolette. Io sono diventato amico dell’ufficiale postale di Argostoli, dove c’è il comando, del farmacista e di un vecchio avvocato. Ogni tanto, mi invitano a cena. La sera, quando scende il sole, mi fermo spesso lungo i sentieri e a guardare Itaca che è proprio di fronte. Penso a Maria, una ragazza del paese, penso a Firenze, ai miei genitori e alla guerra. Mi pare di aver già capito molto. Sarà una tragedia, lo so. Non abbiamo niente per fare una guerra e ci hanno mandato laggiù contro gente tanto simile a noi. Parlo anche con i soldati di queste cose. Ne ho duecento con me. Dopo due anni è proprio come una famiglia. Sono sempre stato uno sportivo e anche a Cefalonia faccio grandi camminate, vado a cavallo, e mi butto in mare ogni volta che posso. Un mare splendido quello greco. Ma la guerra… Noi ufficiali già sapevamo dell’Africa e di che cosa era accaduto in Russia con l’Armir. La guerra doveva finire, doveva…». Pampaloni, ora, si ferma un attimo. Sembra stranamente commosso. Poi beve un po’ di acqua. «Che succede l’8 settembre? Racconta di quel giorno capitano», dico. «Sì, quel giorno. Un giorno bellissimo. Dalla radio arriva il famoso messaggio di Badoglio che comunica l’armistizio. Siamo tutti senza fiato per l’emozione – riprende – ma poi esplode la gioia. I miei soldati si abbracciano, cominciano a correre da tutte le parti. Per le strade di Argostoli anche i greci corrono felici. Non siamo più nemici. Ora basta davvero. Ci sono piccoli nuclei di tedeschi sull’isola e alcuni di loro abbracciano gli italiani e ridono, dicendo: “Per voi è finita, è finita… Italiani tutti a casa”. Ma non è così. Bastano poche ore e tutto cambia. Al mio reggimento arriva la notizia che i nazisti vogliono la nostra resa immediata e tutte le nostre armi, leggere e pesanti. Poi, penseranno loro a farci arrivare a casa». Pampaloni ferma di nuovo il racconto. Solo per un momento. Poi riprende: «A quel punto, i soldati della mia batteria cominciano a discutere e a gridare. Non si fidano dei tedeschi. Molti urlano che i nazisti ci faranno finire nei campi di concentramento e a lavorare come schiavi in Germania. Argostoli, ora è un formicolare di divise. Gli ufficiali richiamati sono, in maggioranza assoluta, per non consegnare le armi. Molti soldati cominciano a gridare che chi si arrenderà è un fascista. C’è una grande tensione, c’è ansia. Chi “annuncia” che vuole tornare a casa e chi, invece, spiega che non si arrenderà mai. Capire quei momenti è difficile. Ho già saputo che il generale comandante della Acqui, Antonio Gandin, sta trattando con il presidio tedesco. Parlo con altri ufficiali che, come me, sono per combattere. Noi non siamo con i fascisti e non possiamo arrenderci ai tedeschi. Sono momenti di grande confusione, di emozione. Discuto continuamente con i miei soldati: non vogliono consegnare i cannoni ai tedeschi. Mi raccontano di altri commilitoni che hanno addirittura sparato contro le auto degli ufficiali che volevano cedere. Con altri ufficiali della batteria ci mettiamo a rapporto dal generale Gandin che ci ascolta: ormai conosce la situazione della fanteria, dell’artiglieria e della marina. I disposti ad arrendersi sono pochissimi. Nessuno si fida dei tedeschi. Sappiamo degli ultimatum e sappiamo anche che ad Atene, allo Stato maggiore, non c’è chi è in grado di dare ordini. A Roma sono scappati tutti e per la Acqui nessuno ha deciso qualcosa. Una vergogna. Gandin ci spiega che se non ci arrenderemo, i tedeschi arriveranno subito e ci bombarderanno con i loro aerei. Aggiunge anche che gli ufficiali “ribelli” saranno fucilati e che i comandanti nazisti sono stati chiari in questo senso. Torno alla batteria e spiego ai ragazzi la situazione. In quel momento arriva il comandante di reggimento. Siamo tutti sull’attenti e lui ci invita ad obbedire e arrenderci. La tensione è enorme. Mentre l’ufficiale parla, un soldato prende il fucile per la canna, scatta e colpisce il colonnello alla testa, urlando che è un nazista e che lui non cederà mai. Se non fossi intervenuto immediatamente – dice Pampaloni – i miei soldati avrebbero linciato quell’ufficiale. Sappiamo già che “loro”, i tedeschi, stanno per arrivare. Ricevo una telefonata del generale Gandin, un uomo serio, posato, calmo. Dice che ha indetto una specie di rapido referendum in tutta la divisione per sapere se i soldati e gli ufficiali sono per la resa o il combattimento. È il più alto gesto rivoluzionario che abbia mai visto fare da un generale. Gandin non ordina, ma chiede alla Acqui, e cioè a più di undicimila uomini, che cosa fare. La risposta della mia batteria è chiara e netta: niente resa». Pampaloni beve di nuovo. Poi si ferma. I ricordi, evidentemente, sono un misto di orgoglio e di dolore che rendono difficile spiegare e raccontare. Poi riprende di nuovo: «Ho ancora in mente quella risposta ai tedeschi, consegnata alle ore 12 del 14 settembre. Diceva: “Per ordine del Comando supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la divisione Acqui non cede le armi. Il comando supremo tedesco, sulla base di questa decisione, è pregato di presentare una risposta definitiva entro le ore 9 di domani 15 settembre”. E la risposta non si fa attendere – spiega Pampaloni – dato che poche ore dopo i tedeschi tentano di sbarcare a Cefalonia, con alcuni “pontoni” carichi di armi e truppa. È proprio la mia batteria che, per prima apre il fuoco. Ricordo ancora l’urlo dei ragazzi, ai pezzi, quando centrano in pieno uno dei mezzi. Da quel momento, sull’isola è l’inferno. Più tardi e per tutti i giorni seguenti, sono centinaia gli Stukas che sganciano centinaia di tonnellate di bombe sulle nostre posizioni. Tanti, tanti morti, sai. Non potevamo curare i feriti perché l’ospedaletto era ad Argostoli. Anche il paese viene comunque bombardato e ci sono grandi incendi». Da fuori entra di nuovo, nel soggiorno di Pampaloni, la musica rock. Il ragazzo ha ricominciato. Amos sorride paziente. Aspetta un po’. Il volume della musica viene di nuovo abbassato. Lui riprende: «Combattiamo dal 15 al 22 settembre. Noi non abbiamo aerei. Per radio, dalla divisione, viene chiesto aiuto al governo del Sud e agli alleati, ma non arriva niente. Ormai i tedeschi dilagano. Sono sbarcati in tanti. Abbiamo un mucchio di morti e di feriti. La resa viene chiesta nel pomeriggio del 22 settembre. Io, con la mia batteria, sono stato fatto spostare dal comando. Mentre cerco di sistemare i cannoni nella nuova posizione, vedo i tedeschi che arrivano giù e ci circondano. I ragazzi spaccano gli otturatori dei cannoni e io, a rivoltellate, distruggo i congegni di puntamento. Poi alziamo le mani. Siamo prigionieri. Sono soldati altoatesini, mi pare e di unità speciali. L’interprete ci chiede dove abbiamo messo gli otturatori e i congegni di mira, io rispondo che non lo so. Loro ci fanno segno di metterci tutti in fila, l’uno dietro l’altro. Io mi piazzo in fondo, ma l’ufficiale, un uomo grassottello e con gli occhiali, mi fa cenno di mettermi in testa alla colonna. Vado e cominciamo a muoverci». Amos Pampaloni si ferma di nuovo. Ha gli occhi rossi e non sorride. Ricomincia a parlare, ma ci vogliono alcuni minuti perché la voce torni ferma e sicura. «L’ufficiale tedesco mi si affianca e, dopo qualche secondo, sento che armeggia con la machine-pistole. Ancora un istante e sento un colpo dietro al collo. Sembra un pugno terribile, una bastonata. Mi ha sparato, penso. Mi ha dato il colpo di grazia. Poi casco in avanti, con la bocca nella terra e nell’erba e sento il caldo del sangue che mi scende lungo il collo. Sono attimi. Mi viene in mente di essere già morto. Sento le raffiche di due mitragliatrici che cominciano a sparare e le voci dei miei soldati. Alcuni mormorano qualcosa. Altri gridano soltanto due o tre volte “mamma, mamma”. Dietro a me, qualcuno dice: “Dio, Dio, perché…”. Sulle gambe ho la testa del mio tenente. È coperto di sangue e non si muove più. Rimango fermo, immobile, tra altre braccia e gambe. Sento i tedeschi che sparano il colpo di grazia a chi si muove ancora. Poi capisco che stanno prendendo portafogli, catenine e orologi. Subito dopo, girano sui tacchi e vanno via cantando una marcia militare». «Lo so, lo so – aggiunge Pampaloni – è una storia assurda, incredibile. Mi alzo dopo un’ora, forse due, e sposto teste e braccia per mettermi in piedi. A me, il colpo di mitraglietta dell’ufficiale tedesco, ha solo trapassato il collo, sfiorando la spina dorsale. Vedo tutti i miei soldati, una cinquantina, in strani mucchi, straziati, coperti di sangue e in pose assurde. La testa mi martella. Che massacro, penso e mi domando subito perché. Non trovo risposta, non capisco. Che tragedia terribile, che angoscia. Ricordo le lacrime e tutto quel sangue. La mia camicia è inzuppata. Vado via barcollando. È sera. Cammino a lungo. Ho una sete terribile e sento il sangue che continua a scendere. Alla fine trovo un pastorello che, in mezzo alle pecore, mi guarda terrorizzato. Chiedo a gesti da bere. Mi fa segno di aspettare poi torna con dell’acqua. Bevo come un pazzo. Cammino ancora e trovo un contadino. Lo imploro di accompagnarmi all’ospedale militare italiano. Si offre la moglie. Per strada incontro ancora una ragazza. Si chiama Marika e dice di essere la figlia del prete del paesino dove sono finito. Spiega che non devo andare all’ospedale italiano perché è già stato occupato dai tedeschi. Poi verrò a sapere che, anche all’ospedale, loro erano arrivati davvero e avevano ammazzato tutti. Sono stremato e non mi reggo più in piedi. Marika mi porta a casa del padre, in un fienile. Arrivano altri greci e uno mi cura con impiastri e pomate. Poi, vengo trasferito in montagna, dai partigiani. Lassù, ritrovo proprio i maggiorenti del paese che mi invitavano sempre a cena. Erano tutti della Resistenza. Sono loro a spiegarmi che la divisione Acqui è stata massacrata dai nazisti. Tutta al completo. Fucilati, a Casetta rossa, il generale Gandin e 193 ufficiali, diciassette marinai e cinquemila soldati. I corpi gettati nei pozzi, abbandonati per strada o gettati in mare, a centinaia, con delle pietre alle gambe. Quei corpi, insomma, dovevano sparire ad ogni costo. Altri 65 ufficiali e più di mille soldati erano morti nei giorni dei combattimenti». Non riesco a dire una parola o a chiedere qualcosa. Che si può domandare? Pampaloni, dietro gli occhiali da miope guarda fisso da qualche parte in silenzio. Riprende: «Sono rimasto un anno con i partigiani greci e c’erano con me tanti altri soldati italiani. Abbiamo combattuto insieme. Ci hanno aiutato, eccome. Hanno salvato tanti di noi, pagando un prezzo altissimo. I nazisti hanno massacrato molti greci che avevano aiutato gli italiani. Vedi, il fratello di Marika, la ragazza che mi portò a casa sua, dal padre prete, fu preso e impiccato. Aveva aiutato me e portato armi italiane ai partigiani. Mentre, davanti a tutto il paese, in piazza, stavano mettendogli il cappio intorno al collo, suo padre, il pope, recitava il viatico e lo benediceva. Lui, con quella fune già stretta e che stava per strozzarlo diceva: “Padre, non tremare, prega. Pensa semplicemente che sto morendo in guerra. Ti ricordi quando ero in guerra? Mi decorarono. Prega… Prega”. Non riesco a dimenticarlo sai, quel ragazzo. Come non posso dimenticare i miei soldati, là in quella valle. Vedi… Avevano scelto di combattere e di non arrendersi…». Amos Pampaloni ha finito di raccontare. Di quell’8 settembre 1943, a Cefalonia, a due passi da Itaca, nella bella Grecia.

Patria indipendente, 23 luglio 2006

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