Patria indipendente
Prigionia e lavoro forzato
“Io, uno dei tanti IMI, sono stato schiavo di Hitler”
di Remo Ricci
Era il 10 settembre 1943, verso le ore 10 di sera, allorquando un Commando di SS tedesche, con 5 oppure 6 autoblindo circondarono la Caserma del Deposito del 48° Reggimento Fanteria di stanza ad Alba, Cuneo (Reggimento 46° della Divisione Forlì). Ero giunto in Alba quale recluta il 1° settembre 1943, quindi la mia fulgida carriera militare era durata appena 10 giorni. I tedeschi fermarono una tradotta militare italiana proveniente dalla II Divisione Celere di stanza in Costa Azzurra (Francia). I soldati italiani furono caricati su detta tradotta ed io mi ritrovai in un carro bestiame con altri 64 soldati. Il trasferimento da Alba a Meppen in Germania è durato 6 giorni (dal 13 al 19 settembre 1943) con una sosta igienica nei pressi di Bolzano ed una sola “gamella” di orzo bollito, quale pasto, nella stazione di Stoccarda e senza niente da bere durante tutto il viaggio. Durante il trasporto, il primo sgarbo ricevuto è stato la confisca (da parte del militare tedesco armato di mitra che dominava tutti noi nel carro bestiame dall’alto di una torretta) del mio orologio rettangolare da polso. Una volta scesi alla stazione di Meppen, abbiamo camminato per 16 km in una brughiera desolata ove vi era una sola quercia: ho raccattato le ghiande a terra e come i maiali me ne sono fatto una scorpacciata, con le conseguenze da immaginare. Giunti al Campo di Raccolta e di Smistamento (ove credo eravamo circa 4000 individui) i soldati tedeschi ci hanno tolto il vestiario superfluo e le scarpe, nuove di zecca, in cambio di zoccoli di legno. Ci davano da mangiare una gamella di orzo bollito al giorno e dormivamo a terra nelle baracche; pativamo il freddo perché fuori, malgrado fossimo in autunno, cadevano grandine e nevischio essendo il lager esposto alle intemperie del mare del Nord. Dopo un soggiorno di circa un mese a Meppen, sono stato portato, sempre in vagone piombato, a Bochum (Vestfalia) nella Rhur, in un lager situato all’interno del recinto della Eisen und Huttenwerke. Il lager della fabbrica dipendeva dallo Stalager VI C di Dortmund. Nel lager della fabbrica ci sono rimasto fino al giorno in cui sono diventato civile (Freiarbeiter) grazie all’accordo diretto tra Hitler e Mussolini. Nella fabbrica sono stato adibito alle più svariate mansioni:
1) DOLMETSCHER, dalla lingua italiana alla lingua francese (ho studiato in Francia durante la mia infanzia), con la quale comunicavo con i dirigenti della fabbrica che conoscevano il francese e non l’italiano, e ciò fino a quando non è arrivato al Campo l’interprete ufficiale (anche lui I.M.I.) il brigadiere dei carabinieri Giuseppe De Col, altoatesino. Nel frattempo i tedeschi hanno consegnato ad ognuno di noi un piastrino di zinco da appendere al collo e diviso in 2 parti: una parte doveva rimanere in caso di morte attaccata al collo del cadavere e l’altra parte sugli effetti personali del defunto, da consegnare ai parenti o alla Croce Rossa; inoltre i tedeschi, con un secchio di vernice bianca ed un pennello, hanno impresso la lettera I sulle spalle della giacca che indossavamo: eravamo diventati tutti INTERNATI MILITARI ITALIANI. Il piastrino di riconoscimento, che tuttora conservo, porta la scritta: KK.GEF. STALAG VI C N. 63301
2) TERRAZZIERE-MINATORE, addetto allo scavo di n. 2 bunker per rifugio dai bombardamenti aerei, bunker situati sempre nel recinto della fabbrica: facevo parte di una squadra composta da 6 individui, di cui 5 civili rastrellati ad Est (2 ucraini, 1 di Sebastopoli, 1 di Tanganrog, 1 polacco) ed io italiano; lavoravamo 12 ore a turno (dalle 6 della mattina alle ore 15 e dalle ore 18 alle ore 6 del mattino seguente), una settimana di giorno ed una di notte, alternandosi con un’altra squadra simile alla nostra e di cui l’italiano si chiamava Geminiani Decimo di Chiusura Imola 14 (Bologna). Scrivevo io per lui alla famiglia. Ogni squadra doveva “produrre” 1 metro lineare di avanzamento per turno di lavoro, compresa l’armatura in legno di abete per pilastri e travi della volta e con tavole di marciavanti per contenimento delle terre, sia sui fianchi che per la volta; io ero addetto alla manovra dei carrelli Decauvilles su rotaie, con carico e scarico del materiale di risulta dallo scavo. Il lavoro come sopra è durato per quasi tutto l’inverno 1943-1944.
3) MANOVALE COMUNE addetto ai lavori più disparati quali: demolizione e sgombero delle strutture in ferro di un capannone devastato da un bombardamento aereo; con un freddo intenso al contatto del metallo gelato e della neve, con le mani senza guanti di protezione: il freddo pervadeva tutte le ossa, dalla testa ai piedi! Montaggio di n. 2 baracche in legno, a disposizione dei pompieri della fabbrica, con rifiniture interne ed opera di tinteggiatura sia interna che esterna. Protezione dai bombardamenti aerei, con muratura a secco di blocchetti di cemento impastato con polvere di carbone coke, dei generatori elettrici sparsi un po’ dovunque nella immensa fabbrica. Il lavoro comprendeva lo scarrolamento e la sistemazione dei blocchetti in opera.
4) OPERAIO METALLURGICO addetto al forno di riscaldamento di blocchi di ferro e la successiva preparazione per il trasporto sui rulli della trafila nel reparto Blochstrasse. Il suddetto Reparto Blockstrasse si trovava tra lo Stahlwerk ed il Reparto Blockwalzurch. I blocchi fusi nello Stahlwerk (fusione degli scarti e avanzi provenienti da vagoni stracarichi delle acciaierie di Solingen, coltelli, forbici, lame, rasoi) a sezione trapezoidale (di dimensioni medie, cm 30xcm 18 di lunghezza) venivano adagiati su di un piano inclinato all’interno di un forno di riscaldamento a gas (Forno Besmer) di una lunghezza di circa m 6 con dei sulti che permettevano ad ogni singolo blocco di rotolarsi per poter essere riscaldato uniformemente su ogni singola faccia. Ed è qui che entravo in gioco io: siccome il blocco si disponeva leggermente distante dalla imboccatura del forno, io dovevo con l’aiuto di un soldato sovietico di origine Kasakistan (un macigno dalle larghe spalle che si chiamava Griegorieff) introdurre una stanga in acciaio a forma di bietta (del peso di kg 90 e lunga m 4) nella bocca del forno, per dare l’ultimo assestamento al blocco, in maniera che potesse essere abbrancato da una gru sospesa in alto che si muoveva a circa 1 metro da terra. La stanga d’acciaio veniva sollevata prima da Gregorieff, poi io la alzavo dalla parte della leva e la introducevo nella bocca del forno sotto uno spigolo del blocco riscaldato a 800 gradi centigradi; un piccolo colpo ed il blocco si trovava perfettamente in posizione, a portata della gru! Tutto questo avveniva di fronte ad un bocca infuocata a 800 gradi centigradi senza avere a disposizione un paio di occhiali affumicati come li avevano i metallurgici di origine tedesca (tedeschi tutti vecchi operai assuefatti alla bisogna). Io avevo 20 anni e provenivo, si può dire, dai banchi di scuola! Una volta abbrancato il blocco rovente, la gru lo deponeva sui rulli comandati elettricamente da una gigantesca gru (Pont Roulant) manovrata quasi sempre da giovani ragazze tedesche; i rulli spingevano il blocco verso la trafila composta da n. 3 rulli che con il loro movimento rotatorio e l’ausilio di un piano inclinato rimandava il blocco sul piano orizzontale e così di seguito fino a che il blocco si riduceva pian piano ad una lunga lastra incandescente di circa m 4 per 0,25 di larghezza a seconda del bisogno. Questa lunga lastra arrivava sempre con i rulli ad una trancia che la tagliava a pezzi di circa m 0,50 cadauno. La lastra rovente, verso la fine della corsa, sotto la trancia, non aveva la necessaria rigidità e tendeva a piegarsi in giù, allora occorreva il sollevamento della punta della lastra a mezzo di una lunga tenaglia tenuta da un operaio; spesso il violento urto della lastra contro la trancia provocava l’inattesa perdita della tenaglia ed era molto difficile recuperarla, tanto è vero che il mio carissimo amico Italo Corrado Mercatini di Arezzo città (Via Guido Reni, 2) ha avuto tutto il palmo della mano destra con le 4 dita schiacciate dal ferro rovente che furono successivamente amputate. Non gli è rimasto che il pollice per tutta la mano. Successivamente, le lastre, tagliate come sopra, andavano trasportate al Reparto Blockwalzwek, dove, di nuovo trafilate, formavano lamiere da rivestimento per la corazza del carro armato Tigre. Una volta la settimana, i blocchi roventi (a seconda della lega metallica aggiunta in Stahlwerk) venivano trasformati in lunghi serpenti di fuoco di circa 8 m di lunghezza che servivano (così dicevano, ma non ne sono sicuro) per la formazione di canne da fucile. Per ottenere simili “spaghetti” era necessario cambiare i rulli della trafila e occorrevano n. 2 operai, uno per ogni piano della trafila, che con l’aiuto di una leva di ferro incanalavano il serpente di fuoco nella scanalatura giusta, altrimenti il ferro si snervava e veniva scartato con improperi a non finire e grandi urla da parte delle maestranze tedesche e degli ufficiali che controllavano la produzione. Ma come si faceva a fare le cose per bene, anche applicandosi scrupolosamente con un serpente di fuoco che ti passava, a grande velocità, vicino alle gambe fino ad avere, senza sufficiente protezione, le tibie arrostite dal fuoco e tutto ciò sempre in equilibrio instabile sul ponte di lavoro, quando non avevi la forza di reggerti in piedi e che ti girava la testa e che potevi cadere come una pera cotta, là sul posto di lavoro! Lavoro inumano, senza la necessaria alimentazione e senza tutela fisica adeguata! Anche la dirigenza tedesca della fabbrica riconosceva che il lavoro del 7° Gruppo (del quale facevo parte) era un lavoro pesante, anzi pesantissimo, e che quindi il lavoro era diviso in 3 turni, ma che non avevamo diritto a supplemento alimentare! I tre turni erano i seguenti: dalle ore 6 alle ore 14.00 la prima settimana;dalle ore 14.00 alle ore 22.00 la seconda settimana; dalle ore 22.00 alle ore 06.00 del mattino seguente per la terza settimana. Alla fine della terza settimana, quindi in piena notte, occorreva pulire i canali di scolo situati sotto i rulli della Blockstrasse, dalla trafila fino alla trancia e rimuovere i detriti ferrosi, ruggine e scaglie metalliche, con secchi e pale, camminando curvato, in ambiente surriscaldato e umido come se fossimo in una sauna finlandese! Incombenza mostruosa per le nostre forze! Io credo che questa ultima fatica sia stata la più pesante e penosa che abbia sopportato in Germania: i piedi in acqua tra i detriti ferrosi, la schiena, curva sotto la “strada” dei rulli, il sudore che ti esce da tutto il corpo, il fiato che ti manca a causa del vapore acqueo dell’ambiente surriscaldato dal passaggio delle lastre roventi prima della pulitura dei canali, l’infiacchimento per fame di tutto il tuo essere, fino a renderti privo di energia! Il lavoro, al Reparto Blockstrasse aveva un ritmo sostenuto e procedeva alacremente e tutto questo dall’inizio dell’estate fino a settembre 1944 inoltrato, fino a quando mi sono ammalato: tutte le sere verso le ore 19.00 faceva capolino una febbriciattola che via via diventava sempre più insistente e forte. Quando sei prigioniero di guerra, cioè militare, i tedeschi ti mandano a lavorare anche con 38° di febbre, ma ormai eravamo diventati civili dal 1° settembre 1944 e allora il nostro medico, tenente medico Arnaud (di origine piemontese, di Cuneo) potè far valere le sue ragioni e mi fece ricoverare all’infermeria del Campo. Il riposo (cioè senza il lavoro da metallurgico) mi giovò molto, anche se sempre febbricitante, e siccome gli ammalati al campo erano molti e crescevano a dismisura (foruncolosi acuta, deperimento organico, abbassamento della vista, incidenti e infortuni sul lavoro dovuti a esaurimento delle forze, ecc. ecc.) il medico Arnaud ottenne dal medico di fabbrica (una dottoressa olandese) il permesso per farmi rimanere a disposizione del campo in aiuto all’infermiere Granati Carlo di Strabella (Pavia) che da civile esercitava la stessa professione. Granati Carlo era un vero gentiluomo, ed io l’aiutavo per quello che ero capace di fare: passare con la spatola spalmata di ittiolo per i foruncoli, distribuire aspirine, ma soprattutto portare i malati che ne avevano bisogno dagli specialisti (oculista, chirurgo, dermatologo ecc. ecc.) perché conoscevo una lingua tedesca rudimentale, ma benissimo la lingua francese, con la quale mi facevo intendere dai professori sanitari. Da civili gli I.M.I. avevano lasciato il lager all’interno della fabbrica (rimpiazzati dai prigionieri russi) ed alloggiavamo in un campo meglio attrezzato, con piscina per gli incendi, con cucina in proprio, con baracche più accoglienti ma soprattutto non avevamo più i soldati tedeschi di guardia, armati di fucile. Avevamo soltanto una guardia giurata alle dipendenze della fabbrica per controllare tutto il campo, di servizio ad un unico cancello d’ingresso, sempre aperto, che chiudeva alle ore 23.00 di ogni sera. Avevamo a disposizione anche il tram, con la fermata davanti al campo e potevamo uscire a piacimento durante le poche ore libere. Mi ricordo di essere andato insieme ad altri amici a Gelsenkirchen un paio di volte, per controllare la nostra virilità con l’aiuto di donnine compiacenti. Il risultato fu veramente catastrofico e deludente per quanto mi riguarda: il fisico era talmente debilitato che per poter riprendere vigore ci vollero almeno 6 mesi di convalescenza in Italia. Ripeto che potevamo uscire, andare a Bochum, andare e venire in fabbrica con il tram con l’accortezza però di dire sempre, salendo e scendendo dal tram, a mo’ di saluto (Buongiorno o buonasera): Heil Hitler. Tutti quanti sul tram, compresi i manovratori e i bigliettai, rispondevano allo stesso modo. E dire che sentivamo le camionette degli americani al di là del Reno! A proposito di americani, al mio amico Ferri Guido di Campaldino Porrena in Cosentino (Arezzo) che ebbe la malaugurata idea di apostrofare un tedesco che lo aveva redarguito con la frase: “Jetz American Kommen”! non lo avesse mai fatto! Il tedesco lo denunciò e un poliziotto della Gestapo lo prelevò e fu internato in un campo di punizione ove rimase per tre mesi! Quando tornò al campo era diafano e trasparente. Ho saputo tramite un altro mio amico Arcucci Giacomo di Soci Pontina (Arezzo) che incontrai sulla filovia Firenze-Fiesole quando faceva il fattorino della ATAF che Ferri Guido veniva anche lui a Firenze. Non l’ho più rivisto ma spero che anche lui abbia avuto fortuna! Per ritornare alle mie faccende, io, malaticcio, vegetavo nel campo per Freiarbeiter (libero lavoratore). I responsabili tedeschi della fabbrica non potevano giustificare la presenza di ammalati tra i dipendenti stranieri e quindi decisero di rimpatriare i più vulnerabili e cronici. Il nostro tenente medico, appartenendo alla Sanità, era rimasto con noi civili e vergò di proprio pugno una lista di n. 12 aspiranti al rimpatrio, tra i quali mi trovavo inserito; la dottoressa capo-medico della fabbrica (di origine olandese) ne promosse soltanto n. 9 che purtroppo dovevano subire il controllo dei medici militari della Wehrmacht ed il loro benestare al rimpatrio. Io facevo parte dei 9 individui scartati dalla fabbrica; fummo chiamati alla visita di controllo: seduto davanti ad un semplice tavolo si trovava un colonnello medico, che una volta allontanato il suo attendente e a porte chiuse, ci apostrofò in perfetto dialetto napoletano: “nè guaglioni, che vulimmo fà!”. Meraviglia delle meraviglie, un vero miracolo! Ci raccontò, il colonnello medico, che si era laureato a Napoli. Non visitò e controllò nessuno di noi e, mise il visto per il rimpatrio a tutti i nove italiani rimasti in lista. Non credevamo ai nostri occhi! Dovemmo aspettare circa 2 mesi prima di partire per l’Italia. La mattina dell’11 febbraio 1945, alle ore 6, un poliziotto della Gestapo ci prelevò tutti e nove e ci accompagnò, con tutti i documenti in regola, alla stazione ferroviaria di Bochum! Credevamo, una volta saliti sul treno, di andare verso il Sud, ma andammo ad Hannover perché lungo il fiume Reno la ferrovia era interrotta e gli americani erano a ridosso del fiume; proseguimmo da Hannover a Norimberga e fino a Monaco di Baviera con trenini locali, ed io, che ero il responsabile dei documenti di tutti noi, riuscii a condurre il drappello fino a Monaco (furioso bombardamento aereo nella nottata), poi Innsbruck, poi Brennero (ove fummo veramente rifocillati a sazietà con gamelle di orzo bollito), poi fino a Bolzano. Lì ci dividemmo perché i miei compagni di rimpatrio erano tutti del Nord Italia o avevano parenti al Nord Italia; i miei genitori ed altri parenti stretti erano tutti al di là della Linea Gotica, a Fiesole (Firenze) ed a Roma. Con un mezzo di fortuna giunsi a Rovereto ove nessuno ci volle ospitare malgrado la neve ed un freddo intenso. Passai la notte, assieme ad altri profughi come me, in un rifugio antiaereo senza finestre, con 10°-12° sottozero! Sempre con mezzi di fortuna arrivai a Verona ove per circa una settimana fui ricoverato al Palazzo della Gran Guardia (di fronte all’Arena) a piazza Brà, poi fui mandato a Grezzana e a S. Bonifacio dal 23 febbraio al 26 aprile 1945. L’ospedale di Grezzana era una scuola di Agraria: la radioscopia accertò che in Germania ero stato affetto da pleurite secca al polmone sinistro e deperimento organico in generale, con sospetta T.B.C. L’ospedale di S. Bonifacio (Verona) era una scuola media ove fui trattato degnamente, come in famiglia, fra tanta brava e buona gente e tante dame di carità. A S. Bonifacio arrivò una colonna di soldati canadesi (parlai in francese con loro). Nel cortile dell’ospedale di S. Bonifacio, il 25 aprile 1945, giorno della Liberazione di Milano e dell’occupazione della sede della Radio Italiana, ritrovai il mio amico Mercantini Italo Corrado di Arezzo, che era riuscito a farsi rimpatriare anche lui, dopo essere stato accantonato alla prima richiesta di rimpatrio. Mercantini ed io facemmo il ritorno a casa insieme partendo da S. Bonifacio muniti di “Foglio di via”, autorizzazione del Comitato di Liberazione Nazionale - Sezione del Comune di S. Bonifacio, in data 28 aprile 1945. Il tragitto di ritorno fu lungo e faticoso, attraversammo il Po su di una barchetta, a Castelmassa, giungemmo a Finale nell’Emilia, Pieve di Cento, Bologna. A Bologna dovemmo aspettare a causa del cordone sanitario e quando giungemmo a Firenze l’amico Mercantini proseguì per Arezzo ed io raggiunsi la mia famiglia a Fiesole. Mi presentai al Distretto Militare di Firenze il 5 giugno 1945 facendo presente il mio ritorno a casa. Il mio rimpatrio in Italia, con il visto del Commissariato Nazionale del lavoro – Ufficio assistenza Brennero – in data 13 febbraio 1945, è facilmente deducibile sia dal documento tedesco che dal ”Foglio Matricolare e Caratteristico” del Distretto militare di Arezzo n. matricola 19471, vistato dal Distretto Militare di Firenze in data 3 gennaio 1986. Il mio racconto, fino ad ora, segue una traccia prevalentemente cronologica per parlare delle svariate mansioni alle quali sono stato adibito. A distanza di 56 anni riaffiorano nella mia mente le figure dei soldati tedeschi addetti alla nostra custodia nel lager all’interno del recinto della Werke. Erano tutti soldati feriti o convalescenti provenienti dal fronte russo, che venivano comandati alla nostra custodia anziché andare in convalescenza dalle proprie famiglie: non erano assolutamente cattivi. Erano soltanto rigidi, ligi alle loro direttive, cioè teutonici, e a volte si divertivano a farci svegliare (quando non erano le sirene a dare l’allarme) e a radunarci in piena notte col freddo, in mezzo al cortile, per effettuare la conta: eravamo contati dai soldati quando uscivamo per andare al lavoro, contati dalle guardie giurate che ci prendevano in consegna, contati sul luogo di lavoro; al momento della distribuzione del rancio, al rientro in baracca prima dalle guardie giurate, poi dai soldati. Eravamo soltanto numeri o quantità di individui! Mi sono rimasti fissi nella mente i primi quattro soldati preposti alla nostra sorveglianza: un caporalmaggiore che comandava il campo, di nome Hermann (di Kohn am Rhain), sorriso stampato sulle labbra, ironico, beffardo e borioso con la divisa attillata, linda e lustra, piena di nastri e medaglie; poi un ragazzo della mia età, dei Sudeti, che non diceva mai niente; poi un tedesco della Prussia orientale, di Komgsberg, un poco evanescente, ed infine un bolso contadino originario della Carinzia, in Austria, che si chiamava Johann Varga. Ebbi modo di sapere il suo nome perché intratteneva lunghi conciliaboli in lingua slovena con alcuni nostri connazionali di Gorizia ed in modo particolare con il nostro addetto “tutto fare” Franz Mosetic, appunto di Gorizia. Mi ricordo di Giovanni Varga perché ebbi modo di conoscere la sua ira quando mi trovò nascosto in baracca mentre tutti gli altri prigionieri erano in bunker durante un allarme aereo: montò su tutte le furie e mi assestò un colpo con il calcio del suo fucile sul “groppone” tanto da farmi ruzzolare in mezzo al cortile e farmi correre immediatamente al riparo nel bunker. La colpa era stata mia, soltanto mia e Giovanni Varga si riteneva responsabile della mia incolumità! Però mi fece male! A parte questo episodio dovuto alla mia testardaggine non sono mai stato picchiato o maltrattato fisicamente dai tedeschi, siano essi stati militari, poliziotti o civili. I quattro soldati menzionati sopra furono avvicendati da altri soldati man mano che si ristabilivano fisicamente e ritornavano al fronte russo: non ho saputo più nulla di loro. Tra coloro che li hanno rimpiazzati mi ricordo un Feldwebel taciturno ma preciso e non invadente, ed un alsaziano, piccolo di statura che ogni tanto parlava in francese, ma che si sentiva appartenente al Grande Reich. Quando gli italiani diventarono civili, anche i soldati tedeschi che ci facevano la guardia, sparirono dai nostri occhi. Tra i personaggi maggiorenti del lager militare vi sono sicuramente l’interprete italo-tedesco, il tenente medico ed il cappellano militare. L’interprete di tedesco si chiamava Giuseppe De Col ed era, come ho già detto, brigadiere dei carabinieri, altoatesino, che aveva fatto le scuole in Austria, nella sua infanzia. Era un tipo dall’aspetto rude, autoritario che era diventato, con il beneplacito dei tedeschi, il vero comandante del campo. Si arrogava il diritto anche di malmenare con sonori schiaffi chi non rispettava le regole del campo, regole imposte dai tedeschi. Il tenente medico Arnaud (non ricordo il suo nome di battesimo) era della provincia di Cuneo o di Cuneo città. Era di piccola statura e portava gli occhiali. Era un buon e bravo medico, ma cosa poteva fare con la carenza della alimentazione? La vera medicina che occorreva era il mangiare sano. Il mangiare era la sola cosa che poteva lenire i “morsi del lupo”! La mia povera madre chiamava “morsi del lupo” i dolori di stomaco causati dalla fame. Eppoi le medicine erano insufficienti o addirittura mancanti. Io ho un profondo rispetto del tenente medico Arnaud e lo ringrazio di tutto cuore per quello che ha fatto per me quando mi sono ammalato e mi ha fatto rimpatriare! Il tenente cappellano militare che si chiamava Giulio Pacini merita anche lui una menzione speciale: arrivò al lager dopo tutti noi, ma vi giunse in quanto volontario. Si era proposto di sollevare e confortare le anime perse dei poveri soldati italiani. Ma noi più che di conforto religioso avevamo bisogno di conforto materiale, di cibo. Il suo ufficio pastorale non era seguito da nessuno; allora per potere dire la santa messa escogitò un sistema molto semplice: faceva richiesta al Comando tedesco e quindi all’interprete di una adunata, con la scusa della conta; una volta sugli attenti, e prima della distribuzione del rancio, si presentava con il suo trabiccolo di altarino e ci faceva assistere di malavoglia alla santa messa! Non so se gli improperi cancellassero gli effetti della messa, ma di sicuro la messa non cancellava gli improperi perché erano tanti! Un’altra cosa di questo frate francescano con convento in Borgo Ognissanti in Firenze riguarda la tazzina di caffé (orzo tostato). Egli aveva la sua cameretta adiacente alla infermeria anche per essere il più vicino possibile per lenire le sofferenze spirituali a chi era in lunga degenza o candidato al trapasso. Succedeva che durante la distribuzione settimanale della razione di zucchero nel campo avanzasse una piccola quantità di zucchero che non poteva essere ripartita tra tutti noi. Ora, di comune accordo, questa piccola quantità residua fu consegnata al frate affinché la distribuisse ai bisognosi, cioè agli ammalati perché in infermeria, prima o poi, ci passavamo tutti. Ma siccome faceva tanto freddo il prete veniva spesso in infermeria a scaldare il suo gamellino di caffé d’orzo sulla stufa sempre accesa; il prete andava troppo spesso durante la giornata a scaldare il suo caffé; un ammalato di soppiatto lo assaggiò e lo trovò molto dolce! Lo zucchero degli ammalati finiva nello stomaco del cappellano. La notizia fece immediatamente il giro del campo e fu veramente uno smacco per il prete: anche i sacerdoti, dissero tutti, sono persone comuni! Quando per ragioni pensionistiche andai da Roma a Firenze nel 1986, a ritirare il mio Foglio matricolare e caratteristico, feci una capatina al Convento di Borgo Ognissanti e cercai del Padre Giulio Pacini (da Bottegone, Pistoia). Mi dissero che era deceduto alcuni anni prima dopo una caduta per le scale del convento mentre di notte si recava al capezzale di un malato! Pace all’anima sua! Prima di accomiatarmi, è gioco forza da parte mia, ricordare alcune cose della vita nel Lager I.M.I. all’interno del recinto della Eisen und Huttenwerke di Bochum. Sono cose che ricorrono spesso nella mia mente e che non mi lasciano mai! Ricordo con profondo disgusto i pidocchi, pidocchi, pidocchi. Quando ci presero nel settembre del 1943, per ben due mesi interi, i tedeschi non ci dettero mai né saponi, né detersivi per lavarci dopo le fatiche giornaliere, così che in poco tempo ci riempimmo di pidocchi ed io i pidocchi me li sono tolti da dosso soltanto al mio rientro in Italia. A proposito di pidocchi mi ricordo di Mazzei Mario, della provincia di Cosenza, un bravo ragazzo, con barbetta nera, della Cavalleria di stanza a Pinerolo, che vantava un fratello Capitano nell’Esercito. Mi ricordo ancora i pidocchi che scendevano dalla branda superiore (letto a castello, a 2 piani) sulla mia coperta al piano inferiore: era successo che durante la notte Mazzei Mario era stato colpito da una meningite fulminante ed era deceduto, senza che qualcuno in baracca se ne accorgesse! I pidocchi abbandonavano il sangue già freddo e cercavano sangue caldo! Cioè il mio. Penso spesso a questo! Mi viene spesso in mente di quando ci portavano, incolonnati una volta al mese, alla disinfestazione e disinfezione: durante il viaggio dal lager al luogo della pulizia generale ci facevano attraversare il centro di Bochum, anche davanti al Rathaus, il municipio, la popolazione adulta ci guardava passare, inveiva contro di noi “Italiener Badoglio, verflucht in euch, scheiβer” e i bambini sui 10 anni ci deridevano, ingiuriavano e ci sputavano addosso! La disinfestazione avveniva in un capannone di due stanze: ci facevano spogliare in una stanza e tutti nudi facevamo la doccia mentre nell’altra stanza avveniva la disinfestazione dei nostri panni con l’ausilio di autoclave surriscaldata e sotto pressione. Quando i panni uscivano erano bollenti e noi dovevamo aspettare, tutti nudi, con le serrande aperte e la neve sulle strade e freddo intenso, che i panni ancora umidicci si asciugassero, per poterli indossare di nuovo! Così fioccavano le malattie, le polmoniti, le bronchiti ecc. ecc. Era la maniera scientifica, forse legale, per eliminare gli individui della sottospecie umana d’Italia! Tanto eravamo considerati. Tutto quanto vengo di narrare, non me lo posso scordare, ormai è radicato nel mio cervello ed ancora oggi mi domando per quale volontà sovrannaturale sono scampato a tale orrore e come ho fatto ad invecchiare. Oggi ho 77 anni ed è per questo che lascio questi ricordi ai figli miei, per testimoniare la crudeltà e la inutilità della guerra! Pace e Bene avrebbe detto padre Giulio Pacini, il nostro tenente cappellano in Bochum (Germania).
Patria
indipendente,
16 aprile 2006