Patria indipendente
La
lunga notte di Elie Wiesel
“Lavorate
o finirete nel camino!”
di Serena D’Arbela
Le
parole di Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace 1986, tratte dal suo breve libro
La Notte (1) sono più forti e terribili delle immagini di un film.
L’autore parla in prima persona, testimone quindicenne degli orrori concentrazionari voluti da Hitler. Egli
non dimenticherà mai i piccoli volti di bambini i cui corpi aveva visto trasformarsi in volute di
fumo sotto un cielo muto. Né quel silenzio notturno che gli tolse per l’eternità il
desiderio di vivere. Il suo scritto è una sintesi vivente dell’Olocausto e fa della
parola un’incarnazione dei fatti. Nelle sue fasi preparatorie di incredulità e in quelle della paura,
dell’annichilimento, del calvario giornaliero, dei sussulti di impossibile rivolta e della caduta nel
fatalismo, nel degrado della volontà e dei principi morali. Sintesi di uno shock
progressivo che spezza la crescita armonica di un adolescente. Riassunto della demolizione
graduale e definitiva della persona umana. In questo senso il lager hitleriano
ha qualcosa di unico rispetto a tutti i campi di prigionia passati. Il suo fine
criminale è preciso, mirato alla distruzione fisica della psiche dell’uomo,
bollato come “diverso” prima ancora della sua riduzione in cenere. Fame,
sete, percosse, lavoro massacrante, sadiche torture, alienazione dello spazio e
del tempo sono armi sicure per minare ed annientare i comandi di un cervello
umano, per sbriciolarne il bagaglio di princìpi e gli impulsi affettivi più
sacri. I luoghi infernali di Birkenau, Auschwitz, Buna, dove passa il ragazzo,
sono tappe rappresentative verso il nulla. Le difese si sgretolano, scadono sempre più
di livello e si riducono all’istinto di sopravvivenza. Padri e figli arriveranno ad
essere estranei, addirittura nemici, per una crosta di pane, come ci mostrano alcune
vicende dell’ultima parte del libro che stentano ad essere recepite nella loro atrocità. Le
eccezioni sono prodigi di eroismo. Seguiamo alcuni momenti culminanti del racconto. “Credetemi! – aveva supplicato nel 1942
l’ebreo straccione di Sighet, piccola città della Transilvania, patria di
Wiesel – Questa è la sorte che
vi attende! Preparatevi!” Deportato per primo con altri “stranieri"
dal paese aveva conosciuto la ferocia della Gestapo ed era l’unico sopravvissuto
alle prime stragi. Nessuno della Comunità lo prese sul serio, pensarono che fosse
impazzito. Invece nella primavera del ’44 nella tranquilla cittadina, con l’arrivo dei
tedeschi, comincia l’escalation della persecuzione. Per gli ebrei, prima la stella
gialla obbligatoria, poi gli editti di divieto ad entrare nei caffè e ristoranti, poi la
reclusione in due ghetti. E ancora la gente continua ad illudersi con cieche speranze. La
guerra sta per concludersi. Forse il peggio è finito. Ma ad un certo punto, secondo
Wiesel, il cortile divenne come una camera operatoria. Tutti erano in attesa del terribile
verdetto che non tardò ad arrivare. La deportazione! Il protagonista, mescolato alla folla
dei partenti, coi loro inutili sacchi e bagagli, ha un’amara sensazione: che, celati
dietro, le imposte, i concittadini, amici di ieri, non vedono l’ora di saccheggiare le
loro case abbandonate. Il che purtroppo avvenne. L’antisemitismo nazista ebbe migliaia di complici silenziosi. Le immagini dei vagoni per il trasporto
sono solo l’inizio dell’incubo. Ottanta persone stipate in ogni
carro. Sete, paura, casi di follia. Le scene sono tormentose. A Birkenau il suono di certi
ordini evoca visioni angosciose, emozioni insopportabili. Come
l’alternativa “sinistra o destra” posta davanti ai deportati, ignari delle
due diverse destinazioni, prigionia o crematorio. Per l’adolescente, il
comando “Uomini a sinistra! Donne a destra!” pronunciato con indifferenza
dal graduato delle SS, avrà un significato preciso, un taglio netto ed efferato: perdere
per sempre la mamma e la sorellina. Tutto fa parte dell’inferno. La parola d’ordine di Auschwitz Lavorate
o finirete nel camino! Il numero inciso sul braccio con un ago. La ricerca dei denti d’oro e successiva
estrazione dalla bocca dei malcapitati. Le percosse ed estorsioni dei capi blocco
e dei capisquadra. Il rogo che attende. Eliezel ha un pensiero
fisso come un chiodo nella mente, in mezzo alle peggiori sventure. Proteggere il
padre, per non perderlo. È una volontà conservata in pieno esaurimento delle
forze, perfino in mezzo ai pericoli di una marcia estenuante, la marcia forzata del campo nelle
retrovie, dopo l’evacuazione di Auschwitz. Quel trasferimento micidiale, all’arrivo imminente dei
russi, ha un solo scopo, eliminare i prigionieri, secondo la volontà di Hitler. Durante un allarme il
ragazzo ha smarrito il genitore, ormai scheletrico, divenuto un peso morto. Il proposito a lungo difeso cederà
per un attimo a un lampo di egoismo, pensare solo a se stesso e alla propria sopravvivenza. E poi subito egli
si vergogna di sé. Momenti indimenticabili colpiscono il lettore con la loro carica drammatica. L’esecuzione del
ragazzino chiamato dai detenuti “l’angelo dagli occhi tristi” impiccato
insieme a due adulti dopo un atto di sabotaggio. “Dov’è il buon Dio? Dov’è?”
domanda qualcuno, mentre il ragazzo non parla, non supplica, tarda a morire. Le preghiere dei reclusi l’ultimo
dell’anno. Diecimila uomini venuti ad assistere alla funzione solenne di Rosh Hashanà, presenti anche i capiblocco,
i kapò, i funzionari della morte. Sia benedetto il nome dell’Eterno! dice l’officiante –
e migliaia di bocche di uomini ridotti a schiavi ripetono la benedizione. Eliezel, un tempo così pio e
studioso del Talmud, ora ha perso la fede e nell’intimo rinnega Dio con rabbia.
Tutte le sue fibre si ribellano. Perché benedirlo? Per i bambini bruciati nelle fosse? Per i
crematori? Per tutte quelle fabbriche di morte?
Per non aver impedito tutto ciò ? La corsa dei prigionieri verso
Buchenwald, in mezzo alla neve. Chiunque si fermi sarà colpito a morte.
Correre! Correre! Per 70 chilometri. Dieci giorni e dieci notti da incubo. Finché dormire sulla
neve appare come un morbido sogno di riposo e il gelido tappeto, un piumino. L’accozzaglia di
prigionieri sovrapposti, morti e vivi accumulati nel capannone di Gleiwitz,
tappa del lungo cammino. La lotta per sopravvivere e farsi largo sotto il peso
di un cadavere o di un vivo che ti schiaccia. Succhiare la neve sulla schiena
del vicino per sedare la sete, poiché è vietato piegarsi per raccoglierla. “Qui non c'è
padre che tenga, né fratello, né amico. Qui ognuno vive e muore per sé,
solo”. Ecco lo spietato consiglio del responsabile del blocco ad Eliezel: non dare più la
sua razione di pane e la zuppa al padre morente. Ho riaperto in questi giorni sempre con la stessa
partecipe sofferenza il libro di Wiesel che François Mauriac definisce una
testimonianza singolare, unica dopo tante altre. È un’opera “da
comodino”, da rileggere per non dimenticare. Andrebbe ristampato, diffuso nei
licei malgrado la crudezza del suo contenuto, per scuotere da ogni superficiale
torpore, soprattutto oggi che ancora qualcuno ha il coraggio o la malafede di negare la tragedia dei lager.
Note
(1)
Editrice La Giuntina, Firenze, 2000.
Patria
indipendente, 19 febbraio
2006