Patria indipendente
Il
giudice Intelisano racconta:
“Così
scoprii l’armadio della vergogna”
di
Natalia Marino
«Il
governo ordinò di insabbiare e la magistratura militare eseguì con zelo».
Manca esattamente un mese alla conclusione dei lavori della Commissione
parlamentare d’inchiesta sull’occultamento dei fascicoli sui crimini
nazifascisti quando incontriamo il procuratore militare di Roma, Antonino
Intelisano. Il pubblico ministero divenuto celebre per aver scoperto l’armadio
della vergogna, precisa: «La magistratura militare non ha mai goduto di buona
letteratura, ma in guerra non tutto è lecito, e non lo era nemmeno nella
Seconda guerra mondiale, quando vennero infrante le Convenzioni dell’Aja».
L’ordine
è stato eseguito
La
Commissione comincia ad operare alla fine del 2003 col compito di appurare i
fatti e le circostanze che nel dopoguerra portarono la Procura generale
militare, guidata da Umberto Borsari prima e Arrigo Mirabella poi, a trattenere
695 faldoni con 2.274 fascicoli, molti dei quali contenenti i nomi degli autori
dei crimini perpetrati nel biennio 1943-’45. Il 14 gennaio 1960 i dossier
furono “archiviati provvisoriamente”, formula giuridicamente inesistente,
dal nuovo procuratore generale militare, Emilio Santacroce. Lo stesso che cinque
anni dopo, quando la Germania chiese quel materiale per giudicare i suoi
soldati, inviò soltanto 24 incartamenti, del tutto inutili al procedimento. Gli
altri fascicoli non giunsero mai alle competenti procure territoriali, le uniche
titolate ad avviare le inchieste giudiziarie. Come le vittime di quelle stragi,
i documenti finirono faccia
al muro, in un armadio nei sotterranei di Palazzo Cesi, sede della Procura
generale militare a Roma. Il giudice Intelisano racconta: «In Italia esiste
l’obbligatorietà dell’azione penale, e quando nel 1994 un giornalista
americano identificò in Argentina Erich Priebke, responsabile insieme con Karl
Hass della strage delle Fosse Ardeatine, mi preoccupai di avere tutte le carte
in regola per ottenerne l’estradizione. Simon Wiesenthal, il cacciatore di
nazisti che una volta avevo incontrato, si era mostrato molto scettico sulla mia
riuscita». Il PM si rivolge informalmente a Palazzo Cesi, che però tergiversa:
di quegli atti non c’è più traccia. Intelisano allora prende carta e penna e
fa una richiesta scritta. Le carte vengono alla luce e il caso dell’armadio
della vergogna esplode. Seguono un’inchiesta del Consiglio della magistratura
militare (il Csm del settore) e, nel 2001, un’indagine conoscitiva del
Parlamento. Si rinviene anche uno scambio di lettere, datato 10 ottobre 1956 e
secretato fino al 1998, tra i ministri Gaetano Martino e Paolo Emilio Taviani,
rispettivamente a capo dei dicasteri degli Esteri e della Difesa. Martino
sottolinea al collega di governo l’inopportunità «di alimentare polemiche
sul soldato tedesco nell’attuale collaborazione atlantica» e Taviani «concorda
pienamente».
Nostalgici
in Commissione
La
Commissione parlamentare d’inchiesta istituita in questa legislatura, e
presieduta da Flavio Tanzilli dell’UDC, ha gli stessi poteri della
magistratura. Tra i 15 deputati e 15 senatori che la compongono ha suscitato
perplessità la presenza di una folta pattuglia di ex missini ed ex militanti di
formazioni neofasciste. Tra gli altri, Italo Bocchino ed Enzo Raisi di AN e
Emiddio Novi, eletto da Forza Italia nel collegio di Capua. Quest’ultimo, per
intenderci, quando lavorava al quotidiano Roma di Napoli aveva arredato
il suo ufficio con un busto bronzeo di Adolf Hitler. Nonostante le difficoltà
che il lettore può immaginare, la Commissione riesce ad acquisire materiali
inediti da archivi italiani e stranieri: più di 80.000 documenti ufficiali. E
ascolta, per la prima volta, testimoni e
persone informate dei fatti. Uno
dei primi testi ad essere ascoltato è proprio Intelisano. Il procuratore
ripercorre le vicende che lo videro protagonista nel processo Priebke e
riferisce di una mini-commissione costituita nel 1995 a Palazzo Cesi, subito
dopo l’ufficiale ritrovamento dei fascicoli. Era composta da Giuseppe
Scandurra, procuratore generale presso la Corte militare di appello, Vindicio
Bonagura, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione e Alfio
Massimo Nicolosi, avvocato generale presso la Corte militare di appello con
delega a tutta l’attività giudiziaria. Il gruppetto smistò 695 faldoni alle
varie procure, militari e ordinarie. Di questi, Intelisano ne ricevette 129:
tutti contenevano notizie di crimini di guerra compiuti dai tedeschi, nessuno
riguardava appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana. E comunque era ormai
troppo tardi per avviare indagini: morti i responsabili, morti i testimoni. I
parlamentari dell’Unione presenti in Commissione verificano tuttavia che il
terzetto non aveva ricevuto nessun incarico ufficiale e scoprono che oltre a
quei 695 faldoni esistono 273 fascicoli rimasti in un cassetto fino al 2004,
bollati da Nicolosi con un “non luogo a provvedere”. 71 denunciano altri
crimini nazisti, 202 invece contengono notizie di reato a carico di formazioni
repubblichine, tra cui la divisione Monterosa e la brigata Ettore Muti. Nei
dieci anni trascorsi, Scandurra ha continuato a lavorare sui 202 fascicoli,
facendo indagini private, senza nessuna competenza e senza mai comunicarne i
risultati. Nel frattempo è stato promosso a procuratore generale presso la
Corte di Cassazione e ha contribuito alla stesura del testo di legge che prevede
il carcere duro per i giornalisti che diffondono informazioni sulle missioni
militari italiane. Anche Bonagura è stato promosso: oggi è procuratore
generale militare presso la Corte di appello di Roma, di cui Nicolosi (unico
teste ad aver ammesso di aver visto il famoso armadio) è diventato presidente.
Nel luglio scorso, per le vicende di questo ennesimo insabbiamento, i tre sono
stati assolti da ogni responsabilità dal Cmm, il Consiglio della magistratura
militare.
I
colpevoli? Uno, nessuno e centomila
Altri
fascicoli vengono ritrovati presso il Comando Regione Emilia-Romagna dell’Arma
dei carabinieri. Si tratta degli “specchi” compilati dai carabinieri tra il
1943 e il ’45 e relativi a numerosissimi eccidi nazifascisti avvenuti nella
regione. In qualche caso racchiudono i nomi dei presunti colpevoli, ma nessun
magistrato ne conosceva finora l’esistenza. Due mesi fa la Commissione
parlamentare d’inchiesta li ha finalmente trasmessi alla procura di Bologna
che potrà indagare in prima persona sui civili italiani autori di quelle
stragi. Per le responsabilità di militari tedeschi dovrà invece trasmettere
gli atti alla competente Procura di La Spezia. Ma con sessant’anni di ritardo.
«I crimini contro l’umanità, come le stragi di Marzabotto o S. Anna di
Stazzema, non vanno mai in prescrizione – spiega Antonino Intelisano –. Ma
troppi colpevoli, sostenitori di
ideologie aberranti sono morti
tranquillamente nel loro letto». A fine legislatura, poche settimane fa, la
Commissione parlamentare d’inchiesta conclude i suoi lavori. Il relatore, on.
Enzo Raisi, presenta la sua ricostruzione: le stragi furono eventi eccezionali,
“atti politici” giustificati dalla guerra civile. Non ci fu volontà
politica nell’occultare quei reati ma semplicemente il “comune sentire” di
un Paese che voleva lasciarsi alle spalle gli anni della guerra. La condotta dei
governi DC fu determinata solo da problemi pratico-giuridici. Inutile cercare
ancora di scoprire i criminali italiani, essi rientravano perfettamente
nell’amnistia decisa da Togliatti nel dopoguerra. L’Unione insorge, anche i
moderati del centrodestra avvertono un certo disagio. Prove scritte e
testimoniali hanno raccontato un’altra storia: non fu guerra civile, ma guerra
ai civili. Per decenni eminenze grigie inarrivabili, intriganti di palazzo
offrirono ai criminali coperture e protezioni. Anche sul piano internazionale i
governi italiani scelsero la strada dell’oblio per facilitare il riarmo della
Germania Ovest nella Nato, in funzione antisovietica. Contro il “pericolo
rosso” perfino i servizi di informazione statunitensi, già dall’ultimo anno
di guerra, avevano cominciato ad arruolare alti ufficiali tedeschi ed ex
funzionari della polizia nazista. C’è di più: come documenta un carteggio
rinvenuto all’archivio dell’ONU di New York, perseguire i reati dei militari
tedeschi nel nostro Paese avrebbe costretto l’Italia a cedere alle continue
richieste della Jugoslavia di Tito, che reclamava un processo ai nostri capi
militari per le atrocità subite dalla popolazione civile slava. I governi
italiani disposero e notabili scampati all’epurazione obbedirono: Mirabella e
Santacroce, custodi negli anni ’50 e ’60 dei primi insabbiamenti, avevano
ricoperto incarichi di rilievo nel corso del ventennio fascista. Il primo giurò
anche fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana. I loro successori rispettarono
per sessant’anni la consegna del silenzio. Quindicimila vittime di oltre 400
stragi in 20 mesi, trucidate dalla Wehrmacht, dalle SS e dai repubblichini di
Salò, aspettano invano giustizia.
Patria
indipendente 19 febbraio 2006