Patria indipendente
Olocausto
Un giorno per riflettere e ricordare l’orrore
di Franco Busetto
Una legge votata dall’unanimità del Parlamento italiano, primo firmatario Furio Colombo, ha istituito “Il 27 gennaio 1945 giornata della memoria”. Con essa, ogni anno, rinnoviamo il ricordo dell’Olocausto, o meglio, della Shoah che indica la rovina dell’uomo il senso della distruzione. Perché il 27 gennaio? Perché in quel giorno del ’45 reparti militari dell’allora esercito sovietico liberarono il lager di Auschwitz. Questo giorno ci sollecita a riflettere sul peggiore e più tragico evento accaduto nel secolo trascorso, un male che ha segnato l’Europa: la distruzione di undici milioni di cittadini ebrei, di diversi paesi europei, di zingari, di disabili e di omosessuali, e di oppositori antinazisti appartenenti ai Paesi occupati e dominati da governi fascisti e razzisti. Purtroppo, tra questi un ruolo importante ha avuto il Governo italiano di Mussolini. Un grande Paese come il nostro, per colpa del fascismo, ha contribuito sul piano morale, politico e legislativo, allo sterminio di migliaia di ebrei italiani. L’Olocausto è stato anche un delitto italiano. Dal settembre del 1938 fino ad aprile del 1942, il regime fascista ha varato una serie di provvedimenti antiebraici per la difesa della razza. Con essi gli ebrei italiani sono stati privati di ogni diritto, sono stati espulsi dalle scuole, dai posti di lavoro, dalle professioni. Il 6 ottobre 1943 la repubblica di Salò di Mussolini emanò la Carta della Razza che è entrata a far parte, il 14 novembre del ’43 della Carta di Verona che costituì la piattaforma politica programmatica della R.S.I. La Repubblica di Salò, d’intesa con i nazisti hitleriani istituì in Italia una serie di centri di internamento dei cittadini ebrei, e, successivamente, instaurò i campi di concentramento di Fossoli nei pressi di Modena, di Bolzano e della Risiera di San Sabba a Trieste, per la deportazione successiva in Germania nei lager di sterminio, degli ebrei arrestati dalla polizia della R.S.I, dalle Brigate nere, dalle Guardie repubblicane e dalle “SS italiane”. 8.566 ebrei italiani furono deportati; 7.557 morirono nei lager di Auschwitz, Mauthausen e Bergen-Belsen. Per un altro migliaio di deportati non si sono trovati i nomi per la loro identificazione. Riporto questi dati per obbedire all’imperativo morale di salvaguardare la memoria storica di quanto accaduto e anche per fare giustizia di una menzogna con cui si è accreditata l’opinione che i fascisti italiani siano stati dei razzisti “alla buona”, che “dovettero rassegnarsi a subire la caccia all’ebreo” (Renzo De Felice). In questi anni sono stato in tante scuole, ho parlato con migliaia di giovani e ragazze in occasione della Giornata della Memoria. È stata un’esperienza edificante e ricca di sviluppi. Il comportamento dei giovani, la loro intensa attenzione, una diffusa sensibilità nello scoprire un mondo, quello dell’Olocausto, del tutto sconosciuto, imprevedibile quanto orrido. «Di qui non si esce che per il Camino» ha scritto Primo Levi ed ha aggiunto «Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito uscire e rientrare, lavorare dormire, ammalarsi, guarire o morire. E fino a quando? Così si trascinano le nostre notti. Ci si sveglia a ogni istante, pieni di fame, gelidi notti di terrore, con un sussulto in tutte le membra sotto l’impressione di un ordine gridato da una voce piena di collera, in una lingua incompresa». Questi giorni, queste notti, furono vissuti anche da chi scrive lungo gli otto mesi durante i quali fui tenuto prigioniero nel lager di Mauthausen, dopo essere stato sottoposto a torture e all’arresto nelle prigioni delle SS di Padova. Al lager giunsi nell’autunno del 1944. Fui derubato di tutto, mi fu dato una divisa da deportato quella grigia a strisce azzurre e mi fu imposto il numero di matricola 113.922. Perché lo ricordo? Perché non era un dato burocratico ma un simbolo. Con esso dai nazisti mi veniva detto: «qui a Mauthausen tu non hai più diritti non hai più affetti, non hai libertà di lettura, di scrittura, e di comunicazione con l’esterno, hai solo il dovere di servire il grande Reich, la Germania. Solo noi decidiamo della tua vita, tu non hai più una personalità». Il campo di Mauthausen fu concepito come una grande fortezza a ridosso della collina più alta del paese e di una cava di trachite nella quale lavoravano i deportati in condizioni disumane, costretti a portare sulle spalle lungo uno scalone di 186 gradoni le pietre squadrate, pena la morte se non ce la facevano e crollavano lungo il trasporto. Era una scala di punizione, una vera scala della morte. All’inizio fui anch’io addetto a questo lavoro, per fortuna, per poco tempo e così mi salvai. Successivamente ho lavorato con altri deportati al penoso servizio di trasporto di cadaveri di quanti morivano per la fame, le malattie, le persecuzioni e la terribile depressione psichica e morale che colpiva molti prigionieri. Il nostro lavoro consisteva nel raccogliere in ogni baracca (ce ne erano 20 nel lager) i cadaveri dei giacenti, legare uno straccio ai piedi dei morti e trascinarli fino a dei carretti con cui venivano portati ai forni crematori o in fosse comuni. Il forno “Krematorium” si trovava in un fabbricato costruito su due piani. Nel piano inferiore avveniva la gasificazione dei deportati condannati a morte, in una camera a gas camuffata da sala addetta alle docce. Questa orribile operazione avveniva in 15 minuti. Da qui lungo uno scivolo, le salme scendevano in una camera mortuaria nella quale alcuni dentisti estraevano ai cadaveri le eventuali protesi d’oro o d’argento, considerate bottino di guerra delle SS. Infine, le salme venivano introdotte da appartenenti a squadre di deportati ebrei nei forni crematori funzionanti giorno e notte. I componenti di queste squadre ogni mese venivano soppressi per non lasciare testimoni. Al piano superiore vi erano prigioni dove i deportati venivano chiusi in celle anguste per punizioni o per subire interrogatori. In esse si eseguivano le torture più efferate e quasi nessuno usciva vivo. Le vittime nel lager di Mauthausen sono state 127.767, tra esse circa 6.000 italiani tra ebrei e deportati politici. Il viaggio nel cuore di una cultura che ha permesso il delitto della Shoah ha due sole vie di uscita: – una è la dimenticanza. Anche quando non intende negare quel che è accaduto, la dimenticanza serve ad assolvere senza giudicare, ad archiviare senza capire, lasciando intatto un terribile male che potrebbe riprodursi (quel che temeva Primo Levi); – l’altra via d’uscita è ricordare, la sola doverosa e moralmente accettabile. E ricordare vuol dire non dimenticare e celebrare coloro che hanno rifiutato di partecipare al delitto, che si sono opposti. Si ricordino i protagonisti della Resistenza italiana ed europea, che hanno dato e rischiato la vita, anche quelli che si trovavano tra le file di coloro che avrebbero dovuto essere persecutori. A questo proposito, due nomi devono essere conosciuti da tutti i giovani italiani: quello di Giorgio Perlasca, che in Ungheria si è adoperato per salvare migliaia di ebrei di quel Paese; e quello di Giovanni Palatucci, giovane questore di Fiume morto a 36 anni a Dachau, dopo aver organizzato fughe e salvato vite di ebrei in Dalmazia. Tre riflessioni scaturiscono da questa Giornata della Memoria. Una grande fede nell’uomo, nell’umanità, perché le drammatiche esperienze dei lager mi hanno convinto che nelle condizioni più gravi e imprevedibili l’uomo è in grado di esprimere volontà, creatività, resistenza fisica, ma soprattutto morale ed intellettuale, e dedizione agli altri a livelli alti, quasi insospettabili, da non credersi. La funzione della cultura, della memoria intellettuale, della volontà di ricordare, perché questi elementi hanno consentito a tanti di noi deportati nel lager di poter intraprendere e vincere la prima sfida che i nazisti ci imponevano, quella dell’annullamento psicofisico del prigioniero, per ridurlo in stato di schiavitù, unicamente a servizio del grande Reich. Il valore profondo ed essenziale degli ideali di pace, dei valori civili, umani, politici che avevano ispirato la nostra vita e ci hanno aiutato tanto a resistere; mi riferisco alla fede nella libertà, nella democrazia, nella pace, nell’indipendenza del proprio Paese, non meno importante della fede religiosa. Allo stesso modo, quanto abbiano contato l’amicizia e la solidarietà. Questi sentimenti, questi pensieri si ritrovano nell’appello che con i compagni dell’associazione clandestina, nata proprio nel lager, scrivemmo subito dopo la liberazione avvenuta nel maggio del 1945.
Patria
indipendente,
29
gennaio 2006