Patria indipendente

Cefalonia ’43: una tragedia che fa ancora discutere

 

di Paolo Battifora

 

Ad oltre mezzo secolo di distanza la tragedia di Cefalonia continua a far discutere. Se per molto tempo il sacrificio della Divisione Acqui è andato soggetto ad un tendenziale oblio, dovuto sia agli imbarazzi dei vertici delle forze armate, gravemente responsabili dello sfascio dell’esercito italiano all’indomani dell’8 settembre, che ad una produzione storiografica tesa soprattutto a valorizzare la lotta partigiana, l’operato del CLN e la discontinuità con il passato regime, in anni recenti il fiorire di pubblicazioni e interventi mass mediologici ha contribuito a far riemergere alla memoria collettiva una pagina gloriosa della storia italiana cui nel 2001 ha reso omaggio Carlo Azeglio Ciampi, primo Presidente della Repubblica ad essersi recato, in forma ufficiale, sul luogo del massacro. Nota è la vicenda: su questa isola greca dello Ionio, unitamente a quella di Corfù, all’indomani dell’8 settembre 1943 si consumò la più efferata strage di militari italiani della seconda guerra mondiale. “Rei” di aver resistito, dopo l’armistizio, con le armi in pugno ai tedeschi, oltre 5.000 furono gli ufficiali e i soldati semplici che, dopo accaniti combattimenti, vennero fucilati una volta arresisi. Un massacro espressamente ordinato da Hitler, infuriato per l’inaspettata resistenza italiana, che andava a confliggere con le più elementari convenzioni internazionali di guerra in merito al trattamento dei prigionieri. Uno spaventoso crimine il cui bilancio finale fu aggravato dal naufragio, dovuto a mine, di alcune navi tedesche cariche di prigionieri dirette a Atene, sciagura nella quale sarebbero periti non meno di 1.350 soldati, stando alle cifre, basate sulle fonti tedesche, fornite da Gerhard Schreiber. Un sacrificio, quello della Divisione Acqui al comando del generale Gandin, vittima anch’egli della vendetta nazista che, pur rappresentando uno dei primi e più nobili atti di resistenza in nome della patria e dell’onore, è andato soggetto a contrastanti interpretazioni e accese polemiche, sfociate addirittura, negli anni Cinquanta, in un procedimento giudiziario militare a carico di ventotto ufficiali italiani accusati di cospirazione e rivolta, processo conclusosi nel luglio 1957 con una assoluzione. Per tracciare un bilancio storiografico della vicenda e fare chiarezza su alcuni punti tuttora controversi, il 5 novembre 2005 si è svolto a Genova un incontro dal titolo “Cefalonia 1943. Valore e sacrificio della Divisione Acqui”. Organizzato dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in collaborazione con il Centro culturale Terralba, il Consiglio regionale della Liguria, il Comando militare regionale e con il patrocinio di Comune e Provincia e l’adesione dell’Anpi provinciale, l’iniziativa ha visto la partecipazione degli storici Giorgio Rochat, massimo esperto di storia militare italiana e autore del recente Le guerre italiane. 1935-1943, e Gerhard Schreiber, collaboratore scientifico dell’ufficio storico dell’esercito tedesco di Friburgo, del presidente e vice-presidente dell’Associazione nazionale Divisione Acqui Antonio Sanseverino e Graziella Bettini, della medaglia d’argento al valor militare Luigi Zendri, fante del 317° reggimento di stanza a Cefalonia, dello scrittore Marcello Venturi, autore di Bandiera bianca a Cefalonia. Aperto dal generale Piercorrado Meano, a capo del Comando militare della Regione Liguria, l’incontro è entrato nel vivo con la relazione di Giorgio Rochat, il cui volume del 1993 La Divisione Acqui a Cefalonia, firmato con Marcello Venturi, resta uno dei punti fermi della letteratura storiografia sull’argomento. Scettico circa la presunta “damnatio memoriae” dell’eccidio consumatosi sull’isola ionica che a detta di molti avrebbe contraddistinto gli studi storici del dopoguerra, lo storico piemontese si è interrogato sulle ragioni del profluvio di pubblicazioni su Cefalonia avvenuto in questi ultimi anni, messe di libri dalla qualità scientifica spesso scadente e oscillante tra il sensazionalistico e il pamphlet. Il fatto che tale vicenda si sia consumata in un luogo fisico circoscritto (un’isola), in un arco temporale determinato (una decina di giorni) e tra due schieramenti ben definiti (italiani da una parte, tedeschi dall’altra), avrebbe attirato, secondo Rochat, l’attenzione di molti studiosi o aspiranti tali, agevolati nel loro compito rispetto ad altri teatri bellici di ben maggiore complessità – si pensi, ad esempio, all’intera area balcanica – e problematicità. Un ruolo non certo secondario è stato poi giocato dalle impressionanti cifre del massacro, elemento dal forte richiamo mediatico. Un elemento, peraltro, da non sopravvalutare in sede storiografica ma da contestualizzare in maniera opportuna: a questo proposito Rochat ha evidenziato come rimangano tuttora pressoché ignorate certe stragi perpetrate dai nazisti nelle isole greche che, in termini relativi (rapporto vittime/militari presenti), appaiono ancor più gravi e sanguinose. Emblematica, secondo Rochat, la strage consumatasi a Kos, isola greca nella quale non esisterebbe neppure una lapide in ricordo delle centinaia di vittime italiane, caduti di una strage “minore” di cui si è colpevolmente persa la memoria. Nel rievocare la dinamica dei fatti Rochat si è soffermato sull’ambiguità degli ordini ricevuti dal generale Gandin, alle prese con dispacci del Comando supremo e del Comando dell’11ª armata dai toni palesemente contrastanti: uno stato di equivocità dovuto all’ignominiosa fuga dei vertici delle forze armate, più preoccupati di mettersi in salvo raggiungendo i territori dell’Italia meridionale già in mano agli Alleati che di impartire tempestivi e chiari ordini operativi alle centinaia di migliaia di soldati italiani sparsi lungo i vari fronti di guerra. Anche per quanto concerne il generale Gandin, oggetto in alcune recenti pubblicazioni di violenti attacchi, Rochat ha stigmatizzato certe prese di posizione il cui unilateralismo e sensazionalismo appare più consono alla sete di scoop del mondo giornalistico-televisivo che alla seria ricostruzione storiografica. Accusare Gandin, Medaglia d’Oro al Valor Militare, di una eccessiva condiscendenza ai voleri della truppa, espressasi per la resistenza in armi attraverso un referendum, o addirittura di oscure trame e criminali intese col nemico a danno dei propri soldati contrari alla resa, tesi recentemente avanzata da Paolo Paoletti sulla base di un passo (“di dubbia autenticità” per Rochat) del diario del generale tedesco Lanz, evidenzierebbe una sostanziale carenza metodologica, essendo la contestualizzazione storica il pre-requisito indispensabile per qualsiasi attendibile ricostruzione storiografica. La valutazione dell’operato di Gandin, non esente peraltro da pecche, incertezze ed errori, non può infatti prescindere dalle peculiarità del momento e dalla concreta situazione bellica. Un’astratta analisi, codice militare alla mano, del comportamento di Gandin e dei suoi ufficiali risulterebbe, per Rochat, non solo fuorviante ma del tutto inidonea nel restituirci il clima di quei giorni in cui maturarono ardue scelte dalle vitali implicazioni. «Non posso dimostrarlo inconfutabilmente – ha affermato a chiare lettere Rochat – ma la decisione finale di resistere ai tedeschi la prese Gandin, pur avendo ascoltato il parere dei suoi uomini», fatto quest’ultimo enfatizzato oltre misura da alcuni e non inquadrato nella sua effettiva e legittima portata. Una ricapitolazione dell’intera vicenda è stata compiuta da Gerhard Schreiber, autore di importanti volumi come I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945 e La vendetta tedesca 1943-1945, il quale, partendo dalla disposizione delle forze in campo, ha ripercorso le diverse fasi che portarono allo scontro armato. Spaventoso il bilancio finale delle vittime, calcolabile, come si evince dalle stesse fonti tedesche, in una cifra oscillante tra i 3.760 e i 5.326 uomini, tra ufficiali, sottufficiali e semplici soldati. Schreiber ha poi osservato come il massacro della Divisione Acqui sia stato per molto tempo pubblicamente ignorato sia in Germania che in Italia, “fenomeno difficile da spiegare”, anche alla luce delle oltre cento pubblicazioni, tra saggi e articoli, comparsi fino al 1969, della costituzione dell’Associazione nazionale superstiti, reduci, famiglie, caduti della Divisione Acqui e della realizzazione di diversi monumenti commemorativi, da quello nazionale, eretto a Verona nel 1966, a quelli di Roma, Padova, Acqui, San Remo e Argostoli, principale centro dell’isola di Cefalonia. Un oblio favorito, secondo Schreiber, dal clima della Guerra fredda, alle cui logiche vennero sacrificati i procedimenti giudiziari a carico degli ex nazisti macchiatisi di crimini di guerra durante il conflitto. Schreiber, a questo proposito, ha ricordato la vicenda processuale del generale Hubert Lanz, comandante del XXII Corpo d’armata di montagna e membro del Comando supremo del settore sudest dei Balcani: condannato il 19 febbraio 1948 da un tribunale militare americano a dodici anni di prigione per la fucilazione, in spregio ad ogni convenzione internazionale sul trattamento dei prigionieri, di ostaggi e soldati arresisi, finì per scontare solo tre anni di detenzione. Quanto al governo italiano, nel 1956 venne assunta la decisione di non presentare alcuna richiesta di estradizione a Bonn dei presunti colpevoli dell’eccidio: un insabbiamento che, censurabile e scandaloso da un punto di vista etico, rispondeva alla necessità politica di non mettere in imbarazzo e indebolire una Repubblica federale tedesca avviatasi al riarmo quale fondamentale baluardo della Nato. Maggiori successi giudiziari non si verificarono, come è facile supporre, in Germania, ove un’indagine preliminare, avviata dall’Ufficio centrale del Land Nord-Rhein-Westphalen nel 1964 presso la Procura generale di Dortmund, venne chiusa quattro anni dopo per mancanza di prospettive; al settembre 2001 risalgono invece nuove indagini, promosse dall’Avvocatura dello stato di Dortmund. L’incontro genovese, continuato con le testimonianze di alcuni reduci di Cefalonia e dei rappresentanti della relativa associazione nazionale, si è giovato anche della presenza di Franco Manzitti, capo-redattore di Repubblica, che ha moderato un dialogo con i relatori e gli ospiti presenti. Al generale di brigata Enrico Mocellin e al presidente dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea Raimondo Ricci sono state affidate le conclusioni finali. Nel sottolineare il valore simbolico di un convegno sulla Resistenza svoltosi in una sede militare, «indice dell’attuale relazione fra le forze armate italiane ed il popolo che le esprime», il generale Mocellin ha accennato alla guerra mossa dall’Italia fascista alla Grecia, costata al nostro Paese, tra caduti e dispersi, circa 40.000 vittime, e alla situazione della 11ª Armata, al comando del generale Vecchiarelli, divenuta, a fine luglio 1943, armata mista italotedesca alle dipendenze del generale von Gyldenfeld di stanza ad Atene. Fatto unico nella lotta armata contro i tedeschi dopo l’8 settembre, «la resistenza della “Acqui” – ha affermato Mocellin – è un esempio singolare di reazione di massa di una Divisione compatta al comando del suo generale», figura, quest’ultima, particolarmente drammatica e tormentata, alle prese con dilemmi neanche ipotizzabili ai giorni nostri e di certo non risolvibili facendo ricorso ad aride formule legali. A testimonianza dell’eroismo della Divisione Acqui cinque furono le medaglie d’oro al valor militare concesse alle bandiere dei reparti, venti le medaglie d’oro alla memoria, novanta le altre ricompense a caduti e superstiti: un nobile sacrificio che, unitamente a quello sofferto da tutti gli italiani per l’onore e l’indipendenza della Patria, sempre più deve divenire – ha auspicato il generale – «patrimonio comune e conosciuto della nostra Nazione». Un concetto ribadito anche da Raimondo Ricci, per il quale la tragedia di Cefalonia non può esaurirsi nella rievocazione di un evento lontano ma deve, al contrario, costituire una vivida memoria per la formazione delle coscienze delle giovani generazioni. Cefalonia, infatti, rappresenta un episodio oltremodo significativo della Resistenza italiana, connotatasi non solo per le dimensioni (dopo quella jugoslava fu la più importante d’Europa) e il ruolo svolto nella lotta al nazifascismo ma anche per i valori incarnati di libertà e democrazia. Nel ricordare la sua scelta, effettuata in quei drammatici giorni del settembre 1943 in qualità di ufficiale di Marina, di salire in montagna per dar vita alle prime formazioni partigiane, Raimondo Ricci ha parlato di Cefalonia come di un evento tra i più emblematici, difficili e gloriosi della nostra storia di quel tormentato periodo

Patria indipendente, 11 dicembre 2005

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