Patria indipendente
Il dramma di migliaia di soldati italiani
Quelli che a Cefalonia combatterono e morirono
di Serena D’Arbela
Undicimilacinquecento soldati, cinquecentoventicinque ufficiali: questa era la divisione Acqui che presidiava le isole di Cefalonia e Corfù agli ordini del generale Antonio Gandin. Qui, all’indomani dell’8 settembre 1943, avvenne uno dei più vergognosi massacri nazisti. A Cefalonia perirono dai 5.000 ai 6.500 militari italiani che si erano arresi dopo giorni di eroica resistenza nei vari punti dell’isola. Altri 3.000, stivati dai tedeschi in due navi dirette verso i campi di prigionia, s’inabissarono finendo sulle mine e sotto i bombardamenti alleati. Questo tragico evento ha ispirato la fiction televisiva diretta da Riccardo Milani, sceneggiata da Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Iniziativa coraggiosa e meritoria che ha portato sul piccolo schermo davanti a circa 7 milioni di spettatori, per ognuna delle due puntate, il primo atto resistenziale dell’esercito italiano e la verità su una strage rimossa e occultata per un cinquantennio, per ragioni politiche, dai governi che si sono succeduti. Anche i fascicoli sulle responsabilità del dramma di Cefalonia infatti finirono insabbiati nel famoso armadio della vergogna, in un corridoio della Procura generale militare, insieme ad altri documenti scottanti su attentati e misteri italiani di questi anni. Riscoperti solo nel 1995, dopo la scomparsa col tempo di molti indiziati e le avvenute prescrizioni, attendono ora di essere usati per ristabilire una giustizia tardiva, almeno emblematica. L’eliminazione dei militari della divisione Acqui catturati o arresi fu definita dal generale americano Telford Taylor, grande accusatore al processo di Norimberga, una strage deliberata, in dispregio di ogni convenzione internazionale, un crimine orrendo. Il genere della fiction mira ad avvicinare il grande pubblico al tema drammatico, partendo dal basso. Qui la narrazione è soprattutto un vissuto, una storia di uomini, che fa appello al buon senso popolare più che ad approfondimenti strategici o ideologici. Abbiamo di fronte i “figli di mamma” come li chiamava il generale Gandin, alle prese con scelte decisive ed estreme, proprio quando avevano intravisto la speranza del “tutti a casa” e la fine di un conflitto incomprensibile. È naturale a questo punto ricordare il prezzo esorbitante sempre pagato dai popoli per ogni guerra. Da questa angolazione preliminare, finalmente, andrebbero studiate nei libri di storia le vittorie e le sconfitte. I soldati del passato venivano strappati bruscamente alle famiglie e al lavoro per soccombere nelle trincee. Non a caso la pubblicistica socialista di fine Ottocento e del primo Novecento li chiamava “carne da cannone”. Poi l’imperialismo straccione di Mussolini li mandò allo sbaraglio in terre altrui. Oggi, garantiti da una Costituzione che ripudia la guerra come soluzione delle controversie internazionali, i nuovi militari, spinti il più delle volte dalla disoccupazione o dal precariato, continuano a morire, in modo insensato, stavolta da volontari, perché l’ingaggio rappresenta un lavoro ben retribuito. Nelle sequenze, la descrizione dei fatti è soggetta a fatali riduzioni filmiche e di cronaca militare frantumandosi in vari episodi e figure, ma il senso della tragedia rimane, scaturendo dalle varie storie individuali e sentimenti emblematici. Sfilano personaggi che traggono ispirazione più o meno vaga dai reali protagonisti. Il tenente Gualtieri, antifascista battagliero, il cappellano don Liborio sconvolto dai massacri, l’ufficiale medico fedele al suo compito di curare ogni ferito compagno o nemico. Un po’ sbiadita la figura di Gandin, stretto fra il desiderio di salvare i suoi soldati, l’ambiguità degli ordini dello Stato Maggiore, la combattività delle truppe e l’infida trattativa con i tedeschi. Meritava forse maggior risalto. Evanescente anche l’apparizione del capitano, che riecheggia Amos Pampaloni comandante della 1ª batteria del 33° Artiglieria, uno fra i più decisi animatori della Resistenza sul luogo. Tra la gente comune, spicca invece la parte di Feria, interpretata dalla brava Luisa Ranieri, una donna modesta, autentica che vuole vivere malgrado le avversità e l’abbandono del marito. Luca Zingaretti, attore valido ormai noto, anima un personaggio di fantasia, il sergente Saverio Blasco. Un veterano, uno dei tanti degli Anni ’40, ammaestrato dalle esperienze sul campo, che è al centro del filmato. Disilluso dalle imprese di Mussolini in casa d’altri ha dapprima un atteggiamento scettico, alla giornata, teso alla sopravvivenza e all’arte di arrangiarsi. Conosce bene la potenza della Wehrmacht, annusa il pericolo, sa che la battaglia è perduta. Mira soprattutto a tornare in patria, portando con sé anche Feria, la donna che ha incontrato sull’isola e che ama. Solo con l’incalzare dei tanti luttuosi avvenimenti diverrà un resistente. Dopo lo sbarco di rinforzi germanici i presidi di difesa italiani vengono sgominati ad uno ad uno, con l’appoggio delle bombe e dei mitragliamenti degli aerei hitleriani (gli Stukas). L’esempio dei compagni che si ribellano, la ferocia della vendetta, l’orgia di sangue scatenata dai nazisti, fanno leva sulla fierezza e indignazione di Blasco. Il generale Gandin fucilato alla schiena, gli ufficiali passati per le armi come traditori, il disprezzo e l’arroganza dei tedeschi della Wehrmacht hanno superato ogni limite. Così il sergente passa alla lotta e al sabotaggio, unendosi ai partigiani greci. Con il suo gruppo clandestino “i banditi di Acqui” darà al nemico filo da torcere. Tra le varie sequenze ci ha colpito quella del referendum tra i soldati. La consultazione del generale Gandin per decidere sugli out out imposti dal nemico, è un fatto assolutamente nuovo nell’esercito. Collaborare, consegnare le armi, o respingere la resa? Lo spettatore seduto davanti alla tv ora può cogliere, se pur alla lontana, lo smarrimento di chi è chiamato a scegliere sulla propria sorte, proprio quando l’armistizio aveva dischiuso altri orizzonti. Uomini soli con le risorse essenziali del loro animo. Difficile per i posteri afferrare quella tensione, capire quei silenzi prima delle parole. Considerata la schiacciante superiorità nazista, le chances di salvezza erano ridotte all’osso. Collaborare significava tradire. Cedere le armi, umiliazione e prigionia. Opporsi, il rischio totale. Il film ci mostra questa scena unica in cui era in gioco soprattutto l’identità di ognuno. Il responso degli ufficiali e soldati della Acqui di resistere è un momento altamente democratico e nello stesso tempo terribile di orgoglio personale e nazionale. Date le circostanze, senza retorica, può definirsi eroico. È la stessa scelta volontaria che faranno i partigiani nel nostro Paese. C’era una patria, una radice che non era affatto morta con l’8 settembre, come qualcuno teorizza oggi a tavolino e che trovava a Cefalonia e nell’Italia occupata i suoi veri difensori.
Patria
indipendente,
22
maggio 2005