Patria indipendente

Io disertore dalla Wehrmacht

 

di Joseph Reider

 

Il 24 marzo, un venerdì, si aperse la porta della cella e venni riportato alla luce. Mi vennero tolti i ferri e fui condotto in un’anticamera alla presenza di un sacerdote: don Pietro Pappagallo. Questi mi rivolse la parola e mi benedisse con grande ilarità dei poliziotti Schneider e Rippkens. Indi venne il brigadiere Krausnitzer con una corda e legò la mano destra di don Pietro alla mia sinistra, poi, passato il cortile, fummo condotti in istrada e fatti salire in un omnibus pieno di prigionieri. Ci scambiammo degli sguardi muti coi compagni di sventura e mentre un poliziotto diceva all’altro: «Di costoro si farà del letame...», il furgone si mosse. Durante il tragitto, sebbene approfondito in tristi pensieri, riconobbi una parte della via Appia antica. Don Pietro, trattenendo a stento le lagrime, recitava a bassa voce le preci. Passò certamente parecchio tempo, poi il carro si fermò. Discendemmo tutti e schierati a due a due procedemmo scortati da guardie della SS bene armate. A circa duecento metri da noi un gruppo di prigionieri arrivato prima, stava entrando in una spelonca, seguito da un secondo, e così via. Si trattava di generali, ufficiali, partigiani; franchi tiratori, carabinieri e ebrei. La spelonca doveva essere già piena, perché ad un tratto ci fu un ingorgo. Io con don Pietro rimasi un po’ indietro, mentre gli altri si adunarono in un semicerchio. Sembra che alcuni, non ancora consci della sorte che li attendeva, se ne fossero accorti appena allora. Da principio si poteva percepire un lieve mormorio, indi sempre crescenti e più eccitati lamenti dei poveri diavoli, di null’altro rei che di amare la pace. Vicino a me stavano, oltre a don Pietro, col quale ero sempre legato, il colonnello Rampulla, il generale Simoni, l’avv. Martini, un giovane napoletano di nome Forti ed altri. Il semicerchio si trasformò lentamente in un gruppo sempre più compatto di gente ammassata attorno a me e a don Pietro. Non oso descrivere i visi supplichevoli e disperati, né ricostruire in pieno il momento tragico e crudele. Accennerò soltanto ad un colonnello che stava davanti a me, credo un certo Montezemolo, dal volto già gonfio per le percosse e i colpi ricevuti, con un’enorme borsa sotto l’occhio destro, il cui aspetto stanco ma tuttavia marziale ed eroico non poteva nascondere le passate sofferenze. Tutti avevano i capelli irti e molti erano incanutiti nel frangente per le perdute speranze, assaliti dal terrore o colti da improvvisa pazzia. In mezzo al frastuono udii esclamare con voce mesta e supplichevole: «Padre, benediteci!». In quel momento accadde qualche cosa di sovrumano: deve avere operato la mano di Dio perché don Pietro riuscì a liberarsi dai suoi vincoli e pronunciò una preghiera, impartendo a tutti la sua paterna benedizione. Presso l’ingresso della grotta dovevano essere stati fatti già prima dei lavori di sterro, poiché nelle immediate vicinanze c’era della terra già secca che formava un muro. Dietro a questo c’era uno spazio, un praticello erboso cioè, che portava al disopra della grotta. Fui preso da una certa inquietudine quando credetti di scorgere nella configurazione del terreno un’ultima possibilità di salvezza. Poiché dopo la benedizione tutti si erano accalcati attorno a don Pietro, non fu possibile evitare una certa confusione che si ripercosse pure negli organi di polizia. Approfittai del momento; con uno sforzo supremo saltai sopra il muricciuolo di terra e arrampicatomi sopra l’antro mi lasciai andare giù rotolando in mezzo all’erba. Rimasto alcuni secondi senza far moto, mi decisi poi a scomparire dal sito. Tanto, non avrei potuto portare alcun aiuto a quei poveri diavoli. Quando mi alzai, per svignarmela venni sorpreso da una guardia delle SS il cui nome purtroppo mi sfugge. Comunque, la sorte volle che io lo riconoscessi poiché avevo fatto la sua conoscenza durante la mia passata attività di interprete. Anche egli mi riconobbe subito e fu molto sorpreso di trovarmi in quella situazione. Sopraggiunsero altre due guardie delle SS e il mio conoscente disse enfaticamente: «Qui, miei signori, vi presento un disertore che ci ha ingannato con un nome straniero». I “signori” si rallegrarono visibilmente. Mi caricarono su un carro e mi riportarono in via Tasso. Strada facendo mi sovvenne che dalla mia mano sinistra pendeva sempre la corda vuota; percepii l’anima di don Pietro, chiusi gli occhi e recitai un Paternostro per lui. Intanto eravamo giunti in via Tasso e il personale del carcere ironizzava sulle ore felici che mi attendevano. Citerò i sergenti Preusser e Tilpitz ed il presidio della camera delle “lucciole” del quarto piano. Ritornai così nella mia cella, davanti alla quale una sentinella passeggiava ora su e giù; ciò malgrado mi sentivo felice d’essere sfuggito alla morte. D’un tratto mi colse un nodo alla gola e piansi al pensiero dei miei genitori e dei miei cari di famiglia. Passarono 24 ore, poi fui chiamato. Mi trovavo di nuovo nella stanza n. 11 davanti ai ben noti aguzzini delle SS. Nominerò particolarmente Rueb, Wedner, Wieser e Bodenstedt. Dopo due ore di percosse a punizione del mio inganno, venni nuovamente incatenato e ricondotto in cella. I “signori” mi prendevano in giro perché mi dichiaravo austriaco. Ma il tragico si è che il mio corpo si consumava essendo rimasto due giorni senza mangiare e senza riuscire a dormire o riposare. Venni poi chiamato a firmare il nuovo protocollo in cui si accennava ad una condanna a morte per diserzione durata sei mesi, circostanza rivelata da quel traditore che m’aveva riconosciuto. Rientrai in cella, questa volta senza catene. Il 16 maggio i “signori” si ricordarono nuovamente di me e mi portarono presso la sezione della Wehrmacht nella pensione Santa Caterina in via Po, ove tornarono ad addebitarmi le varie accuse. Di nuovo dovevo venire interrogato dalla A alla Z. Questa volta rifiutai decisamente di rispondere, e quando fui invitato ad esporre i fatti, dissi semplicemente che nulla avevo da aggiungere. L’ufficiale Schuster, l’attuario, segnò queste parole e dovetti apporre la mia firma sotto il suo scritto. Verso le 6 di sera fui portato a Regina Coeli dove il sergente carcerario, un vecchio bavarese, dopo molti insulti, mi assegnò una cella, il n. 463, terzo braccio, terzo piano. Lì trovai due compagni, tutti e due giovani di 18 anni, i quali attendevano la loro condanna per viltà di fronte al nemico e per illecito allontanamento dalla truppa. L’uno, un certo Kuhl, uno stupido pomerano, deve avere nutrito una certa antipatia verso di me perché ripeté un’infinità di volte in modo chiaro ed inequivocabile: «Sì, sì, voi, canaglie austriache, verrete sperabilmente presto fucilate». L’altro, nativo della Slesia, non parlava bene il tedesco e litigava continuamente con l’idiota della Pomerania. Così, io attendevo la sentenza fra aspre, sconsiderate e stupide parole naziste. Fra le 10 e le 11 di ogni mattina venivamo condotti all’aria fresca, ove m’incontravo con numerosi disertori. Ben presto si rese evidente il fatto che il pericolo per le nostre teste aumentava a misura che si avvicinavano i tanto attesi amici americani. I mendaci giornali riferivano naturalmente, dal fronte meridionale, soltanto di grandi ritirate e di gravi perdite degli alleati, e di nuove avanzate e di estese occupazioni territoriali dei tedeschi. Tutte queste notizie riportavano i giornali, sulle quali noi non mancavamo di esercitare la nostra critica. Ci consigliammo così di trovare una via di scampo e riuscimmo ad accordarci in proposito. Fra il personale carcerario, un buon amico nostro, un viennese, avrebbe dovuto abbattere mediante una spranga di ferro la sentinella notturna durante la sua ronda, incatenarla, portarle via le chiavi ed aprire le nostre celle. Tutto era bene organizzato e si attendeva il momento propizio per attuare il piano. Sembra che non fossimo stati abbastanza prudenti durante le nostre confabulazioni poiché un nazista ci udì e ci tradì. L’impresa cadde così nell’acqua. È ovvio che chi più ne sofferse fu il nostro amico viennese. Il 31 maggio s’iniziò il mio processo. Verso le 9 di mattina mi trovavo di nuovo in via Po, nel magnifico palazzo dell’ex giornalista italiano Perrone. Colà aveva sede il tribunale di guerra tedesco. Alle 9,30 si aperse il dibattimento, previo un breve colloquio di forse due minuti fra me e il mio difensore. Il campanello squillò e la causa ebbe inizio. Nella sala delle udienze, che era quella da ballo del giornalista, croci uncinate, simulacri di Hitler e simili ornamenti intendevano abbellire la sala. Venne un assessore, un appuntato, e disse, rivolgendosi a me: «Sì, sì, mio caro, le teste di voi austriaci devono rotolare». Presenti erano inoltre il consigliere superiore del tribunale supremo di guerra, nonché delinquente di guerra, dottor Kehl, un procuratore di stato ed altri banditi. Pareva dall’accusa del procuratore di stato che io avessi ucciso lo stesso Hitler con tutto il suo stato maggiore, sicché si decise immediatamente di condannarmi a morte. Non c’era bisogno di un esperto per comprendere che si trattava di una commedia inscenata in precedenza. Il difensore balbettò poche parole e la corte si ritirò per deliberare. Dopo circa mezz’ora ricomparvero i signori della corte pronunziando la mia condanna a morte. Così la pena mi venne inflitta per la seconda volta, ma ora in via giudiziaria. Venni invitato ad esprimere la mia ultima volontà. Io dissi di avere due desideri, l’uno privato e l’altro personale. Ciò destò l’ilarità della corte, che dovette però prendere atto delle mie parole. Io chiesi di non dare relazione, sotto alcun riguardo, ai miei genitori della mia infelice fine. Quale volontà personale espressi il desiderio di venire messo al muro non ammanettato, senza benda sugli occhi e di potere io stesso comandare il fuoco. Con sorrisi di scherno e sguardi maligni la corte prese atto di ciò e anche questa volta dovetti firmare un protocollo. Rientrai poi a Regina Coeli. Dalla finestra della mia cella potevo chiaramente percepire i tiri dell’artiglieria e gioivo dell’avanzata degli amici americani. Passava un giorno dopo l’altro. Finalmente, era il 3 giugno, alle 11,30 di notte, tutti venimmo svegliati. L’ordine era di approntarsi alla partenza. Venimmo tutti adunati, noi candidati alla morte, e portati fuori di città con un camion. Sembra che si trattasse della nostra testa. Il capitano, che era pure il direttore delle carceri, stava con noi. Egli aveva da sbrigare ancora delle pratiche presso il Comando militare di Roma e recatovisi vi si intrattenne a lungo. Un ufficiale delle guardie che era sul camion ci comunicò che gli americani si trovavano a cinque chilometri dalla città. Non posso descrivere i nostri sentimenti. Ricomparve il nostro capitano e con nostra meraviglia impartì l’ordine di fare ritorno a Regina Coeli. Quando i guardiani italiani delle carceri, dopo averci veduti partire, ci scorsero di ritorno, rimasero istupiditi. Sembra che avessero avuto sentore della sorte che ci era riserbata. Ci venne comunicato che saremmo definitivamente partiti per il nord alle 9 di sera, probabilmente per Firenze. Ma alle 7 del mattino ci fu un nuovo appello e ci schierammo nel terzo braccio del nostro reparto. Eravamo circa in duecento. Constatai che una diecina d’uomini si erano nascosti sotto i letti o sotto i pagliericci ed anche nei canali di scolo. Davanti la casa, nuovo schieramento. Vennero distribuite delle frattaglie e del pane, ed in questa occasione sparirono altri due. Data la grande confusione e l’eccitazione comprendemmo che la liberazione di Roma non poteva tardare che qualche ora. Il mio pensiero ricorse di nuovo alla fuga e con questa preoccupazione mi misi in colonna. Prendemmo la direzione nord per la via Flaminia, naturalmente a piedi, poiché l’armata di Hitler non disponeva più di veicoli a motore già da tempo. Raggiungemmo il Foro Mussolini. A circa due chilometri da me vidi una fila di case ed ebbi subito la sensazione che lì giunti si sarebbe deciso il mio destino: o vita o morte. Finalmente vi arrivammo: l’intera colonna si fermò proprio vicino a quel blocco, per dissetarsi ad una fontana. Di nuovo risuonarono, fra eccitazione e confusione, le imprecazioni bestiali dei guardiani prussiani. Era il momento giusto per me. Un’occhiata davanti e un’altra dietro a me: a tergo la via era libera mentre dovevo guardarmi di fronte. Sgattaiolai in una sartoria e dall’uscita posteriore del locale in un cortile, nascondendomi dietro una siepe. Restai lì in attesa dei miei persecutori, ma nessuno apparve. Il sudore mi colava dalla fronte, il cuore pareva mi martellasse sino in testa. Per 20 minuti rimasi in forse sulla mia situazione, indi venne una donna, la padrona della sartoria, e mi comunicò che i tedeschi se n’erano andati. Me ne assicurai di persona e, preso posto su una sedia che la brava donna mi offerse, mi feci raccontare come era andata la faccenda. Appena capite le mie intenzioni, essa aveva chiuso dietro di me la porta di comunicazione fra locale e cortile e l’aveva mascherata con una tenda. Il trucco era riuscito così bene che un ufficiale delle guardie che aveva avuto sentore della mia fuga e che aveva anche ispezionato il locale, nulla scorgendo di sospetto, se n’era andato. A questa buona ed intelligente signora devo la massima riconoscenza per avere contribuito a salvarmi la vita. Verso sera m’incamminai in direzione della città e incontrai vari nazisti nella loro vittoriosa ritirata. Presi alloggio all’albergo Perugia, non distante dal Colosseo. Dopo essermi alquanto rimesso dallo spavento, salii sul terrazzo ad ammirare il panorama della Città Eterna, mentre gli ultimi residui delle scompaginate bande naziste la stavano abbandonando. Ogni tanto si udiva il crepitìo delle mitragliatrici, poi si ristabiliva il silenzio. Alzati gli occhi verso il cielo, seguii il volo vorticoso delle rondinelle ed affidai a loro i saluti per i miei genitori. Scesi poi nel vestibolo, intrattenendomi con gli altri ospiti. All’improvviso udimmo alte grida di giubilo e un rumore festoso. Che cosa poteva essere accaduto? Uno di noi uscì in fretta e ritornò subito. «Correte» disse, «arrivano gli americani, entrano in città, sono già qui!». Corsi fuori e mi rincantucciai in un angolo presso il Colosseo. Dal mio osservatorio vidi il giubilo di un’infinità di persone, udii le loro esclamazioni di esultanza e di gioia. In quel momento della mia vita, si fusero in me insieme gioia e felicità, dolore e sofferenza, riconoscenza e brama del paese natìo. Dal mio tranquillo cantuccio, alzai le mani verso il cielo, ringraziando l’Onnipotente per il Suo aiuto, per la sua grazia, per tutto il bene che gli uomini devono a lui... Ho pure versato una lagrima silenziosa da quel piccolo, indimenticabile angolo presso il Colosseo donde rinacqui a una vita nuova, gioiosa, felice e benedetta.

(Tratto dal libro di Antonio Lisi: «24-3-44 Fosse Ardeatine (ricostruzione storica) - Don Pietro Pappagallo – un eroe, un santo», Libreria Moderna, Rieti, 1995)

Patria indipendente, 31 marzo 2005

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