Patria indipendente
Sono
Giovanni Panosetti nato in un lager
di Leoncarlo Settimelli
Quella
domenica di febbraio del 1944 forse c’era il sole nella campagna attorno al
lager di Esslingen sul Neckar, a Sudest di Stoccarda, o forse no, ma Vittorio
Panosetti e Amalia Scovazzi si ritrovarono mano nella mano all’inizio del
bosco. Erano felici, forse perché era trapelata qualche notizia sull’esercito
rosso che stava avanzando verso Berlino e sugli americani e gli inglesi che
erano sbarcati in Normandia. E cominciarono a pensare che forse ce l’avrebbero
fatta a riportare a casa la pelle. Faceva un freddo cane ma i due sposi parevano
non accorgersene e quel giorno, nel grande silenzio delle colline che si alzano
lungo il fiume Neckar, fecero all’amore come forse non lo avevano fatto mai. E
concepirono Giovanni, che venne alla luce il 3 novembre di quello stesso anno,
che restò nel lager ancora otto mesi, fino alla liberazione dei soldati
francesi, e che adesso è qui davanti a me, seduto ad un tavolino, per
raccontarmi la sua incredibile storia, quella di un italiano che nasce
praticamente tra i reticolati di un campo di concentramento.
«Fui battezzato il 28 gennaio
del ’45 ma purtroppo il giorno dopo mio padre chiuse gli occhi per sempre –
mi dice Giovanni Panosetti – e davvero non ce la fece a riportare a casa la
pelle come aveva sperato. Ecco,
vedi? – aggiunge mostrandomi la foto di una sepoltura coperta da una
incredibile quantità di mazzi di fiori – questa è la sua tomba, fuori del
lager. E tutti questi fiori gli furono messi dagli altri italiani il giorno
della partenza per il ritorno a casa, nel luglio del 1945». Sulla croce c’è
scritto «Victor Panosetti». Naturalmente, Giovanni non ha ricordi di quei
giorni, e come potrebbe? E tutto ciò che sa glielo ha raccontato la mamma,
scomparsa tre anni fa. Lei, nata nell’astigiano, lavorava a Torino, come donna
di servizio presso due coniugi di religione ebraica, lui avvocato, lei dirigente
delle poste, licenziata con la promulgazione delle leggi razziali del ’38. All’inizio
degli anni ’30, Amalia conosce un giovane violinista svizzero, figlio di un
emigrato italiano, Gottardo Panosetti, andato sposo ad una tedesca in quel di
Zurigo e morto al fronte durante la prima guerra mondiale. Il violinista si
chiama Vittorio e si è trasferito a Torino per perfezionarsi al conservatorio
ed entrare poi –questa era almeno l’intenzione – nell’orchestra
sinfonica. Ma di prendere la tessera del fascio, come gli avevano intimato più
volte se voleva andare avanti nella professione, proprio non gli andava. Non gli
andava? E allora niente conservatorio e niente orchestra sinfonica, che suonasse
qualcos’altro. E Vittorio, per mesi e mesi, andò a suonare ai mercati
generali, dove scaricava casse di frutta. «Ormai Torino era una piazza bruciata
per mio padre – racconta Giovanni – che pensò allora di trasferirsi a Roma
con la fidanzata. Prima trovò un
nuovo lavoro, poi si sposarono, il 26 agosto del 1940».
Nel 1940 l’Italia è in piena guerra e Vittorio Panosetti riesce a
sopravvivere grazie al fatto
di conoscere spagnolo, tedesco, francese e italiano. Lavora infatti presso la
tipografia Marietti, che stampa libri sacri ed ha una clientela di religiosi
provenienti da tutto il mondo. Tutto sommato, la coppia è fortunata e poi
quella tipografia prospera all’ombra del Vaticano, che consente una certa
copertura. Ma dopo la caduta del fascismo e l’armistizio con gli alleati,
quando la guerra sembra finita, Vittorio e la moglie hanno la malsana idea di
fare un salto si fa per dire – a Torino e recuperare le cose lasciate a suo
tempo. Proprio fuori della stazione
di Porta Nuova, ecco scattare una retata dei tedeschi nella quale incappano i
due sposi, che vengono portati alla caserma Valdocco, insieme a decine di
antifascisti. La caserma Valdocco è un luogo di tortura, praticata dai tedeschi
e dai fascisti per ottenere informazioni sull’organizzazione della Resistenza.
Cominciano gli interrogatori e «lei che parla benissimo il tedesco ci deve fare
da interprete», dicono le SS a Vittorio. Ma lui si rifiuta e questo segna la
sua condanna e quella della moglie. «Li mandarono a Esslingen, vicino a
Stoccarda, in un campo di lavoro: i deportati uscivano al mattino per andare
presso alcune industrie a lavorare. In
una si confezionavano divise per l’esercito, in un’altra pezzi per
aeroplani, forse parti elettriche della Bosch». Naturalmente, maschi e femmine
sono ben divisi nel campo e solo la domenica i signori Panosetti possono passare
qualche ora insieme. Qualche volta
si spingono fino a Esslingen, una quarantina di chilometri dal campo, servendosi
di un trenino. Lì si accorgono che Esslingen è una cittadina operaia di grandi
tradizioni di lotta e che gran parte della popolazione è tutt’altro che di
idee naziste. Qualche volta riescono persino ad assistere a qualche spettacolo
nel locale teatro, dove una volta arriva anche Beniamino Gigli, che ha cantato
per Hitler, ma loro non lo sanno. «Mia madre faceva un doppio lavoro prosegue
Giovanni – e dopo quello presso l’industria di guerra
andava a servizio dalla moglie
di un ufficiale del campo». È questa donna, ormai affezionata ad Amalia, a
farla partorire presso l’ospedale Robert Bosch e a trovare una bàlia per il
piccolo Giovanni quando la madre si accorge di non avere latte. Ma intanto si
intensificano i bombardamenti alleati, sia su Stoccarda, sia su Esslingen e
Vittorio Panosetti viene incaricato di suonare la sirena dell’allarme quando
– ad orecchio –sente avvicinarsi l’arrivo delle fortezze volanti. Proprio
in uno di questi bombardamenti, Vittorio resta gravemente ferito: le bombe
cadono a grappoli, centinaia di deportati muoiono, i loro corpi volano sugli
alberi e vi restano penzolanti come frutti di morte. Per il violinista italiano
ci sono ferite gravissime che portano all’amputazione di una gamba. Le sue
condizioni sono gravi e all’ospedale non è che si facciano particolari sforzi
per salvarlo. Il 28 gennaio del
1945, a due mesi dalla nascita, il figlio Giovanni viene battezzato nello stesso
ospedale dove il padre si sta rapidamente spegnendo.
«Non c’era più il trenino che dal lager portava a Esslingen –dice
Giovanni – le bombe avevano danneggiato i binari e mia madre mi raccontava che
il giorno del battesimo c’era stata una grande nevicata e gli altri deportati
avevano costruito una specie di slitta con alcuni tronchi d’albero sulla quale
mi trasportarono fino in città. Non fu un percorso facile. Ad un certo punto,
la slitta si rovesciò. Ma io non mi feci nulla, la neve attutì la caduta. Sia
come sia, arrivammo all’ospedale e
il battesimo si fece: erano
padrino e madrina due fidanzati di Sampierdarena, anche loro deportati, Ondina
Savelli e William Benati, carabiniere. Io
non so se mio padre era ancora in grado di rendersi conto della cerimonia.
So solo che il giorno dopo cessò di vivere, all’età di trentaquattro
anni». Giovanni Panosetti, che vive a Cavour, è riuscito a trovare l’atto di
morte del padre. In esso si dice che «l’impiegato» Vittorio Panosetti
«residente in Stuttgard Weil in Dorf in Gemeinschaftlager è deceduto il 29
gennaio 1945… a causa di un tumore maligno con aderenze ai polmoni. Il defunto
era coniugato con Amalia nata Scovazzi residente in Stuttgard Weil in Dorf.
Morte registrata su denuncia orale di Karl Wagenhals». Nessun cenno al fatto
che fossero entrambi deportati, nessun cenno alle ferite da bombardamento,
bensì ad un tumore che – mi dice Giovanni – «mia madre ha sempre ecluso
che mio padre avesse». Perché
queste menzogne? Paura che all’arrivo dei liberatori si chiedesse conto di
quella morte e di tutte le altre? «Non sei mai tornato a Esslingen?», chiedo a
Giovanni. «No, non me la sono sentita di rivivere questa storia. Non voglio
tornare dove pure sono nato». Al ritorno a Torino (quindici giorni di viaggio),
la madre trovò per lui un posto in collegio, per poter riprendere a lavorare
come donna di servizio. Ma appena fu in età, Giovanni cominciò a lavorare,
prima alla Carello, poi alla Fiat, dove da operaio metalmeccanico fu uno dei
protagonisti delle lotte
sindacali degli anni ’60. «Il mio “maestro” fu un sindacalista che era
fuori dai cancelli della Carello a distribuire volantini per uno sciopero. Non
si fermava nessuno. Io, che non sapevo di correre dei rischi, mi fermai e lessi
il volantino. Il sindacalista allora mi parlò a lungo e mi schiuse le ragioni
di una lotta. È questo che mi ha fregato per sempre».
Giovanni Panosetti ha accumulato
sulle sue spalle decine di licenziamenti per attività sindacali, è stato
confinato nei reparti dove non lo facevano lavorare purché restasse lontano
dagli altri operai, è stato un protagonista delle grandi lotte nelle fabbriche
di Torino, fino a diventare anche membro del Comitato centrale del PCI. Una vita
di lotte, che non finiscono mai. Adesso per esempio – che lavora in proprio
– Giovanni Panosetti comincerà una battaglia perché dai locali della ex
fabbrica Carello, che diventeranno presto un supermercato, non sparisca la targa
ricordo dei 30 operai che durante gli scioperi del 1943 furono deportati a
Mauthausen. Furono i fascisti repubblichini a denunciare gli attivisti e a far
intervenire le SS. Di quei trenta deportati, solo 5 fecero ritorno. E Giovanni
Panosetti, nato ai bordi del lager di Esslingen, farà di tutto perché non si
approfitti di un cambio d’uso per far scomparire il ricordo di quei trenta
operai mandati a Mauthausen. «So benissimo che con l’aria che tira sarà
difficile salvare quella lapide. Ma io non lascerò nulla di intentato». È l’impegno
di Giovanni Panosetti, che rappresenta incredibilmente uno sprazzo di vita nel
panorama dei milioni di morti nei lager nazisti.
Il
lungo viaggio per Auschwitz
Un
treno, un treno pieno di ragazzi e ragazze delle scuole medie e dei licei di
tutta la Toscana è partito, il 28 gennaio, dalla Stazione Centrale di Firenze
diretto a Cracovia, la città del Papa polacco.
Poi, tutti insieme, con gli insegnanti, gli accompagnatori, i
rappresentanti della Regione Toscana, i medici, gli addetti ai pasti sul treno e
alcuni genitori, i ragazzi sono arrivati ai cancelli del campo di sterminio di
Auschwitz. Lungo la strada, piano piano, tra i vari gruppi, è sceso il
silenzio. Un silenzio nervoso con
un sottofondo di angoscia. La campagna intorno è bella, proprio come sessanta
anni fa, quando dietro i reticolati e nelle baracche migliaia e migliaia di
creature venivano martoriate, uccise, messe nei crematori o morivano di fame,
freddo o per le botte degli aguzzini nazisti. La visita al campo non è stata
né facile né semplice per nessuno. Anche i ragazzi e le ragazze, sempre pronti
alle battute di spirito, non hanno più osato parlare e hanno chiesto
indicazioni e chiarimenti con voce bassa e gesti sommessi. È stata la Regione
Toscana ad organizzare il viaggio in treno che è durato tre giorni. Non come i
lunghi e terribili viaggi di coloro che finivano nel campo di sterminio, ma una
lentezza, tra una stazioncina e l’altra, che ha lasciato molto tempo alla
riflessione, alla discussione e alla testimonianza di qualcuno degli
accompagnatori che era reduce dall’orrore di sessanta anni fa. Poi, appunto, l’arrivo.
Raccontano in molti che ad Auschwitz, nel dopoguerra, non si erano mai visti
tanti ragazzi tutti insieme passare nelle baracche e nella zona dei crematori,
così compunti e silenziosi. La sera, al Palazzetto dello Sport di Cracovia,
tutti hanno preso posto sulle gradinate per seguire un lungo spettacolo
musicale. Hanno cantato Leoncarlo Settimelli e Enrico Fink. Il primo musiche e
composizioni sui campi di sterminio riprese dal libro Dal profondo
dell’inferno (Editore Marsilio). Il secondo, invece, una serie di ballate
direttamente in yddish. L’attenzione e l’emozione sono stati grandi e la
commozione è salita sul viso e negli occhi dei ragazzi molto spesso. A casa
hanno raccontato che il viaggio non è stato per niente facile o semplice. Il
discutere così a lungo dell’orrore, le musiche e le canzoni, la lunga visita
tra i fili spinati e le baracche, hanno lasciato in tutti profonda impressione.
Non c’è dubbio: i 1.500 ragazzi e ragazze della Toscana, racconteranno,
spiegheranno, scriveranno di quel che hanno visto. Ogni volta sarà, cosi, una straordinaria lezione di storia
per tutti. Una storia lontana, ma vista e controllata personalmente nel lungo
viaggio per Auschwitz.
Patria indipendente, 30 gennaio 2005