Patria indipendente
Promemoria - Il capitolo dedicato ad Auschwitz
di Luigi Meneghello
Nella
parte precedente s’è descritta la sorte degli ebrei di Russia, Ucraina e
Polonia, i «grandi serbatoi orientali del sangue semitico» che avevano
ossessionato Hitler fin dal tempo di Mein Kampf. S’è visto come in un
breve giro di mesi tra il ’41 e il ’42 le Einsatzgruppen riuscissero
a togliere di mezzo la maggior parte degli ebrei russi caduti in mano tedesca, e
come in poco più d’un anno (dal ’42 al ’43) l’«Azione Reinhardt»
eliminasse il grosso di quelli polacchi. Alla fine della guerra gli ebrei
“scomparsi” erano in cifra tonda tre milioni in Polonia e oltre un milione
in Russia: tenendo conto di ogni possibile fattore dispersivo, il numero minimo
di coloro la cui scomparsa – per usare l’espressione adottata da un
collaboratore di Himmler – «si può attribuire all’influenza tedesca» è
di circa due milioni e mezzo per la Polonia e di circa 700.000 per la Russia.
Queste due cifre si riferiscono naturalmente così agli ebrei abbattuti sulle
fosse comuni o avvelenati coi gas tossici come a quelli morti di fame, di
freddo, di stenti e di tifo nel corso o negli intervalli delle operazioni, ma
sempre in conseguenza di esse. Il rapporto numerico tra le due categorie si può
ritenere molto vicino a quello di 2:1. È appena necessario avvertire che questo
spaventoso episodio non appartiene esclusivamente alla storia
dell’anti-semitismo, ma rientra in parte nell’altra tragica storia dei
rapporti tra occidente tedesco e oriente slavo, di cui la guerra del 1941-’45
è uno dei capitoli più crudi. Nell’atmosfera di una guerra a oltranza e con
la scusa delle vaste rappresaglie anti-partigiane nei territori russi occupati,
fu consentito a modesti gruppi di massacratori di operare con efficacia
inaudita. Ma il problema di estinguere gli altri ebrei d’Europa era assai più
complesso. Nella sua soluzione l’ideologia del nazismo e la tecnologia della
Germania moderna produssero il loro atroce capolavoro: Auschwitz. Non bisogna
confondere Auschwitz con gli altri maggiori campi di concentramento per
indesiderabili ariani o ebrei, che erano stati aperti fin da prima della guerra
e i cui nomi divennero familiari al pubblico dopo il 1945: Dachau (che fu il
primo importante), Buchenwald, Mauthausen, ecc. Questi erano campi “normali”
in cui perirono bensì, mescolati coi compagni di sventura ariani, parecchie
decine di migliaia di ebrei, in circostanze di cui si ebbe la rivelazione quando
i campi stessi furono occupati dagli alleati nel 1945. Ma Auschwitz (o meglio,
come si vedrà, la dipendenza di Birkenau, nota anche come Auschwitz II) era
qualche cosa di diverso: era – come già i campi di annientamento dei ghetti
polacchi, ma su scala maggiore – uno stabilimento esplicitamente organizzato
per mettere a morte quegli ebrei d’Europa che erano rimasti esclusi dalla
Azione Reinhardt. S’è accennato a suo luogo come il micidiale meccanismo che
fece poi capo agli impianti di Birkenau fosse stato progettato assai per tempo.
L’intenzione di coinvolgere in un programma generale di sterminio tutti gli
ebrei presenti nei paesi occupati e satelliti fu enunciata ufficialmente il 20
gennaio 1942 in una riunione «Am Grossen Wannsee» presieduta da Heydrich.
Erano presenti, oltre a costui, 14 persone: 5 in rappresentanza di vari uffici
delle SS e della polizia e 9 in rappresentanza dei ministeri interessati. Scopo
della riunione era quello di ottenere la necessaria collaborazione delle autorità
civili e di coordinarne l’azione. Nella forma allora esposta da Heydrich il
progetto contemplava la «deportazione all’est» degli ebrei europei abili al
lavoro manuale e il loro impiego «nella costruzione di strade». Heydrich non
disse che cosa si intendesse fare degli inabili al lavoro manuale (di cui pure
era prevista la deportazione e che poi, come vedremo, si prese a uccidere
all’arrivo dei convogli nei luoghi di selezione, qualche ora dopo la
separazione dagli “abili”) ma annunciò chiaramente l’intenzione di far
perire tutti gli altri: «Non c’è dubbio che una buona parte soccomberà, per
un processo di eliminazione naturale, nel corso di questi lavori. Quanto a
coloro che riusciranno a sopravvivere (e saranno certamente i più resistenti)
bisognerà sottoporli al trattamento del caso. Infatti questo nucleo, che sarà
il residuo di una selezione naturale, potrebbe altrimenti formare il germe di un
nuovo sviluppo ebraico». Questo è appunto lo schema di ciò che avvenne.
Heydrich morì nel giugno 1942 e per sei mesi non ebbe successori. Proprio in
quei sei mesi Himmler fece iniziare le grandi deportazioni dall’occidente
realizzando l’idea del suo collaboratore con un’importante modifica: i treni
non andavano “all’est”, andavano ad Auschwitz, entro i confini del Grande
Reich. Tra i motivi della scelta furono senza dubbio la convenienza delle
comunicazioni ferroviarie e la buona posizione strategica del centro. Ma il
motivo principale era un altro. Ad Auschwitz (e cioè attorno alla città vera e
propria) era venuto sorgendo un complesso industriale assai importante per la
produzione bellica tedesca. Le fabbriche di gomma e di carburanti sintetici
rappresentavano un notevole progresso rispetto ai “lavori stradali” di
Heydrich. Qui si sarebbero potuti impiegare più utilmente gli ebrei abili al
lavoro, sostituendoli a mano a mano che essi perissero per «eliminazione
naturale», salvo eliminarne da ultimo gli eventuali residui secondo i criteri
esposti da Heydrich. Qui soprattutto si sarebbe trovato un’eccellente
copertura per le operazioni di selezione e di sterminio. L’attività degli
stabilimenti industriali di Auschwitz – protetta dal segreto bellico –
offriva un motivo plausibile e insieme vago a cui fare riferimento nella
corrispondenza ufficiale, nelle “trattative” con le varie comunità
ebraiche, nel rastrellamento e nel trasporto delle vittime, e infine nella
fatale separazione degli “abili al lavoro” dai vecchi, dai bambini e dagli
infermi. Qui sarebbe dunque sorta, con eccellente mimetizzazione, la fabbrica
della morte.
Il
campo
Generalmente
si parla di Auschwitz come di un unico campo, ma in realtà si trattava di un
gruppo di campi, suddivisi in tre complessi distinti: Auschwitz I, Auschwitz II
o Birkenau; e Auschwitz III che era il nome collettivo dato ad alcune altre
dipendenze. Il
nucleo originario (Auschwitz I) era un campo di concentramento non dissimile da
tanti altri, istituito nella primavera del 1940 e fin da allora comandato
dall’ergastolano Hoess, l’unico dei molti carcerati secondini dei Lager
tedeschi che fosse riuscito a farsi accettare nelle SS, forse per l’amicizia
personale di Bormann da lui conosciuto in prigione. Era un campo “duro”, con
il suo regime di terrore, le sue esecuzioni sommarie, la sua routine micidiale:
si calcola per esempio che i non moltissimi ebrei via via aggregati agli altri
detenuti ariani avessero in questo primo periodo una probabilità media di dieci
giorni di vita. Ma tutto ciò non riguarda in modo specifico la Soluzione
Finale, se non perché qui fecero la loro comparsa le maggiori figure che
dovevano poi dirigere gli straordinari impianti di Auschwitz II: Hoess, Graebner,
Palitch, Kramer. Auschwitz II, ossia il campo di sterminio vero e proprio, sorse
nella prima metà del 1942 a Birkenau, qualche chilometro a sud della città, e
assai lontano dalle fabbriche a cui avrebbe dovuto fornire la mano d’opera
servile. Ma contemporaneamente con i primi recinti e baraccamenti sorsero anche
i due primi crematori con le annesse camere a gas. Quando cominciò a funzionare
regolarmente al principio dell’estate 1942 il campo consisteva dunque di due
impianti ben distinti: da una parte i Lager per alloggiare gli “abili al
lavoro”; dall’altra gli stabilimenti per l’uccisione degli “inabili” e
per la distruzione dei cadaveri. Entrambi gl’impianti furono ampliati e
perfezionati nel corso dei due anni successivi; ai primi recinti separati per
gli uomini e per le donne ne furono via via aggiunti dei nuovi, spesso
improvvisati e orrendamente sovraffollati; e si approntarono altri quattro
crematori più grandi, sempre completi di camere a gas. Il centro strutturale di
tutta la macchina era il luogo di selezione, a poche centinaia di metri dai
crematori, per il quale furono fatti passare dall’estate 1942 all’autunno
1944 poco meno di un milione di ebrei francesi, belgi, olandesi, tedeschi,
italiani, ungheresi, greci, ecc.: la prudente stima minima del Reitlinger è
840.000.
Le
proporzioni della strage
Che
cosa accadde a questi 800-900.000 ebrei che furono condotti in due anni davanti
all’ingresso di un campo capace soltanto di qualche decina di migliaia di
persone? La risposta si può riassumere in poche cifre: 500-600.000 furono
gassati all’arrivo subito dopo la prima selezione; gli altri furono ammessi a
turno ai recinti del campo e quivi, sempre a turno, circa 300.000 di essi
perirono parte naturalmente, parte in successive ri-selezioni, parte nei tragici
traslochi del 1945. Coloro che erano ancora vivi alla fine della guerra,
formano, numericamente, un residuo trascurabile. Questi dati complessivi (con il
loro margine calcolabile di approssimazione) sono fondati su un’enorme massa
di dati parziali accertati, la cui esattezza dà un’idea anche più concreta
dei fatti. Non è possibile entrare qui nei particolari a cui il Reitlinger
dedica tanta parte del suo lavoro. Basti che il primo convoglio di cui è
attestata la selezione immediata è quello di mille ebrei francesi che
raggiunsero Auschwitz il 22 giugno 1942, inaugurando così il periodo di
funzionamento sistematico del campo. Solo duecento dei mille deportati furono
quel giorno messi a morte. Fino all’agosto 1942 era raro che si gassassero più
del 30% dei nuovi arrivi. Ma già in agosto si raggiunsero punte di 700 persone
al giorno, con un salto della percentuale verso l’indice del 70% sul quale finì
per fissarsi. (Naturalmente ci furono sempre casi di convogli “fortunati”:
per esempio quelli di ebrei berlinesi del 4, 5 e 13 marzo 1943, che arrivarono
preceduti da una raccomandazione ufficiale a Hoess per l’abilitazione del
maggior numero possibile di deportati. Il primo convoglio era composto di 1.118
donne e bambini e 632 uomini, di cui si gassarono 918 donne e bambini e nessun
uomo. Il secondo treno portò 1.128 persone, di cui solo 643 furono messe a
morte. Il terzo 964, di cui i gassati furono 599). Il funzionamento del
meccanismo che rese possibili questi risultati s’imperniava dunque sulle
selezioni, la cui mortale efficacia era a sua volta basata sulla loro estrema
semplicità.
Le
selezioni
I
deportati arrivavano dai vari paesi europei in vagoni sigillati. In certi casi
una parte delle persone stipate nei carri bestiame per giorni e giorni moriva in
viaggio e arrivava ad Auschwitz già pronta per i crematori. Ma, salvo in
occasione di eccezionali ritardi dei treni, la maggior parte dei deportati
giungevano a destinazione vivi. I vagoni venivano aperti e il personale ebraico
di servi zio
faceva scendere i nuovi arrivati incamminandoli in colonna verso il punto di
selezione. Questo era in origine a qualche minuto di cammino dal campo e dai
crematori, ma fu poi portato tanto innanzi che da uno dei recinti era possibile
seguire le operazioni. Due dottori delle SS operavano la separazione dei vari
gruppi familiari a mano a mano che essi arrivavano davanti a loro. Non c’era
nessuna formalità: né visita medica, né identificazione personale, né
registrazione. C’era soltanto il cenno della mano d’un ufficiale tedesco: da
una parte i condannati, dall’altra i risparmiati. Da una parte gli uomini
dell’età apparente di più di cinquant’anni, le donne di più di
quarantacinque, i bambini sotto i quindici, le madri coi figli al collo o per
mano. Dall’altra parte gli altri, gli “abili al lavoro”. I primi, come si
vedrà, venivano gassati nel più breve tempo possibile dopo l’arrivo. Era
nell’interesse dell’organizzazione far presto, dato che non esisteva modo di
accomodarli anche solo per breve tempo. Morivano anonimi, senza bisogno anche
solo di una firma o di un timbro, o che qualcuno spuntasse un numero di
matricola in un elenco. Sparivano dalla faccia della terra ariana. A chi tocca
la responsabilità di questa raccapricciante routine che si protrasse per
vent’otto mesi? Ai dottori che pronunciavano la condanna segnando le vittime
col dito? Al comandante del campo che ordinava di applicare il criterio di
scelta con maggiore o minor rigore a seconda delle disponibilità di posto nei
recinti? A Eichmann che faceva precedere ciascun convoglio dal messaggio: «Da
trattarsi secondo le direttive per l’applicazione del trattamento speciale (Sonderbehandlung)»?
A chi aveva per primo concepito l’idea di questo trattamento speciale? A chi
aveva dato il potere a Eichmann e ai suoi colleghi? Certo a tutti costoro, ma
non solo ad essi, e a nessuno di essi in modo esclusivo. Il concetto di
responsabilità individuale è inadeguato a esprimere il rapporto tra i fatti e
coloro che vi ebbero parte. La natura stessa di questo assassinio multiplo
d’ordinaria amministrazione lo colloca in una specie di vuoto giuridico e
morale. La macchina continuò ad ammazzare ebrei per due anni con efficienza
tanto più sinistra quanto più disordinata e impersonale. Solo un intervento
esplicito di Hitler o di Himmler avrebbe potuto fermarla. In mancanza di esso
era più che sufficiente che ciascun subordinato continuasse a fare la sua
parte. Sappiamo che in certi periodi le alte autorità naziste erano inclini
(per motivi di presunta convenienza economica) a riprendere in esame l’intero
problema del trattamento agli ebrei dell’Europa occupata: ma intanto le SS
continuavano a prelevare, i treni ad arrivare a Birkenau, i dottori a separare,
i crematori a bruciare. La sorte di ciascun individuo non dipendeva nemmeno
dall’intenzione specifica dei suoi persecutori nei suoi riguardi, dipendeva
dallo stato delle linee, dalla disponibilità dei vagoni, dall’ora
dell’arrivo, dalla stanchezza dei selezionatori, dalle condizioni dei
crematori. Una volta preso nell’ingranaggio un ebreo innocente non aveva molto
da sperare, mentre le prospettive erano assai migliori per coloro che si fossero
resi colpevoli di qualche reato comune o politico, riacquistando così una
qualche forma di personalità giuridica. «Per chi era nato ebreo c’erano due
sole possibilità sicure di sfuggire alle camere a gas. Bisognava aver rubato
dell’argenteria, oppure aver fatto parte di un movimento clandestino».
La
fabbrica della morte
Dopo
la selezione gli “scartati” ancora ignari venivano incamminati verso gli
“stabilimenti bagni”, fatti spogliare e avviati a turno alle camere a gas
annesse ai crematori. Fino all’agosto 1942 funzionarono soltanto i due
crematori più piccoli la cui costruzione era iniziata nella prima metà
dell’anno. Come s’è accennato, ad essi se ne aggiunsero successivamente
altri quattro più grandi, sulle cui fasi di costruzione ci sono rimasti
parecchi documenti (sappiamo per esempio che il crematorio grande n. 2 doveva
essere finito entro il 20 gennaio 1943, ma non fu pronto fino al 13 marzo,
ecc.). Ai crematori era dunque annesso l’impianto per ammazzare i deportati
prima di gettarli nelle fornaci, in modo da garantire lo svolgimento rapido e
ordinato dell’operazione. Ciascun gruppo veniva introdotto in una camera a gas
truccata da reparto docce e sottoposto alla Sonderbehandlung per meno di
mezz’ora. Il metodo impiegato per la produzione dei gas venefici differiva da
quelli adottati in Polonia, ed era una specie di cavallo di battaglia del
comandante del campo Hoess, al quale spetta il merito di aver caldeggiato
l’idea di fronte all’iniziale scetticismo dei colleghi, e di aver saputo
perfino resistere a certe pressioni dei superiori. Il metodo si basava sul
cosiddetto Zyklon B. Si trattava di utilizzare i cristalli di cianuro in
uso per certi procedimenti di disinfezione dei campi. Gettati in quantità
sufficiente in un ambiente chiuso, essi sono in grado di produrre la morte di un
soggetto normale in circa un quarto d’ora. I primissimi esperimenti da parte
di Hoess risalgono forse all’autunno 1941, le prime applicazioni funzionali
alla primavera 1942. I cristalli venivano acquistati dalla ditta Tesch e
Stabenow di Amburgo, e dalla Degesch di Dessau. Sono sopravvissute le fatture da
cui si ricava l’entità delle forniture. (Il permesso di svincolo era concesso
dal generale delle SS Gluecks, ispettore capo dei campi di concentramento, il
quale usava in proposito il termine tecnico Zyklon B, mentre il suo vice,
A. Liebehenschel preferiva uno di quei tipici eufemismi di cui s’è già
parlato: «Materiale per il trasferimento degli ebrei»). Parte delle camere a
gas erano sotterranee, parte a livello con le fornaci. Dalle prime i cadaveri
venivano trasportati mediante elevatori meccanici: nelle altre viaggiavano su
carrelli a binari. Gli edifici e gli impianti furono naturalmente smantellati
nell’imminenza della chiusura del campo e dell’arrivo dei russi; ma ci è
rimasta la descrizione di qualche testimonio oculare. «L’aspetto degli
edifici – scrive il Reitlinger riferendosi alla testimonianza del dott.
Nyiszli che lavorò in uno di essi per sei mesi – non era sgradevole, malgrado
quei camini così sinistramente sproporzionati a un semplice stabilimento bagni.
Il terreno al di sopra delle camere a gas era stato trasformato in un fraticello
ben tenuto, dal quale spuntavano a intervalli regolari delle calotte a forma di
fungo. Probabilmente le vittime in arrivo non ci facevano troppo caso: ma era
proprio attraverso di esse che, dopo averne svitato i coperchi, gli infermieri
di servizio dovevano gettare i cristalli bluametista, al momento in cui il
sergente maggiore Moll dava l’ordine: “Nah, gib ihnen schon zu fressen! (Su,
dagli da sbafare!)”». In corrispondenza di ciascuna calotta scendeva nella
camera sottostante una colonna di metallo perforato dai cui fori si sprigionava
il gas mortale. «Normalmente le vittime erano troppo fittamente accatastate
all’interno per rendersi conto di quel che stava accadendo. Poi, quando si
accorgevano delle esalazioni sprigionatisi da quelle curiose colonne
bucherellate, cercavano di allontanarsene il più possibile, ammucchiandosi e
schiacciandosi contro la gran porta di metallo. E qui restavano accatastati in
una piramide bluastra, sanguinosa. Dopo venticinque minuti entravano in azione
delle pompe elettriche che aspiravano rapidamente i gas infetti, la porta di
metallo scorreva sui rulli e gli ebrei del reparto speciale addetto alle camere
a gas si mettevano al lavoro con maschere antigas e stivaloni di gomma». Si
trattava di ripulire alla meglio mediante getti d’acqua i cadaveri sporchi di
sangue e di feci, di separarli, staccarne i denti d’oro e i capelli,
considerati dai tedeschi materiale strategico, e finalmente perquisirli. Quindi
i cadaveri venivano ammassati sugli elevatori meccanici o sui carrelli e gettati
nelle fornaci. Le ceneri venivano infine trasportate su autocarri e scaricate
nelle acque della Sola. Finché a ciascun crematorio non furono avviate più di
alcune centinaia di vittime al giorno, il lavoro procedette abbastanza
ordinatamente. Ma in periodi di alta stagione, come durante l’incredibile
macello degli ebrei ungheresi nell’estate del 1944, il personale e
gl’impianti venivano sottoposti a uno sforzo eccezionale e ci furono dei
disguidi. Basti pensare che in 46 giorni tra il maggio e il giugno 1944 furono
“scartati” e fatti fuori circa 300.000 ebrei ungheresi. Si dovette
improvvisare in prossimità del campo un impianto supplementare per
l’abbattimento di parte delle vittime a colpi d’arma da fuoco; l’intero
meccanismo minacciò più volte di incepparsi; e accaddero cose di cui ci è
rimasto qualche resoconto. Ma sarà meglio risparmiarlo al lettore. Non c’è
dubbio che il rendimento teorico di questa fabbrica della morte era assai alto.
Hoess calcolava che a pieno regime la sua organizzazione fosse in grado di
uccidere e bruciare (in teoria) fino a 16.000 persone al giorno. Ma è assodato
che in pratica, anche durante le deportazioni ungheresi, non si riuscì a
superare una media di circa 6.000 persone al giorno, e non è restata memoria di
alcun record giornaliero superiore alle 10.000. Il maggior imbarazzo tecnico fu
causato a quanto pare proprio dalla parte più imponente e in apparenza più
poderosa degli impianti: i crematori, rivelatisi incapaci di tener dietro al
ritmo delle uccisioni. Nel 1944 si dovette ricorrere a una serie di mezzi
sussidiari per la combustione dei cadaveri all’aperto. Particolarmente
soddisfacenti si rivelarono le vaste fosse – scavate nei pressi dei crematori
a fine primavera – nelle quali i cadaveri venivano bruciati “assai
rapidamente” in un bagno di sostanze combustibili. Il solo inconveniente erano
i bagliori che illuminavano le notti dei reclusi e che figurano nei racconti dei
sopravvissuti come uno dei loro incubi più atroci.
I
«lavoratori» di Birkenau
Che
cosa accadeva dunque a coloro che sopravvivevano alle selezioni? La separazione
di costoro dai loro familiari inabili al lavoro avveniva prima che gli uni o gli
altri potessero rendersi ben conto di ciò che stava accadendo. Strano riusciva
alle madri giovani l’invito da parte del personale ebraico di servizio di
passare i figlioletti ai nonni prima di arrivare davanti ai selezionatori.
Soltanto a notte, dopo il bagno collettivo, la depilazione e la disinfezione,
intruppandosi nelle baracche buie come branchi di bestie, i sopravvissuti
apprendevano dalle urla dei secondini che cosa stesse bruciando nei crematori e
nelle fosse che si vedevano ardere nei pressi dell’altro stabilimento bagni a
cui i loro genitori e parenti erano stati avviati qualche ora prima. S’è
visto che in totale circa un terzo di milione di ebrei furono presi in forza a
Birkenau, naturalmente in turni successivi. La capacità teorica del campo non
arrivava a un decimo di quella cifra. La sua popolazione effettiva fu però
spesso assai superiore, e in parecchie settimane di punta toccò i 70.000. Le
baracche tipo erano sul modello delle stalle militari per 52 cavalli e si
consideravano capaci di circa 300 persone ciascuna. Ma durante la stagione è
assodato che si riusciva a farci star dentro più di 1.000 subumani. Non è
difficile immaginare le conseguenze del mostruoso affollamento. Ma non è questo
il luogo per descrivere la vita dei “lavoratori” di cui una parte venivano
periodicamente riselezionati nelle così dette azioni di spidocchiamento, altri
morivano da sé di malattia o di stenti. Ischeletriti, tosati, affamati e mal
ravvolti nei loro stracci, i lavoratori di Birkenau prima di entrare in agonia
passavano per una strana fase di preagonia, definita nel gergo del campo col
dire che diventavano “mussulmani”. Perdevano l’uso della parola e a quanto
pare ogni senso chiaro della realtà, limitandosi a trascinarsi di appello in
appello e lasciandosi passivamente e quasi insensibilmente morire. Normalmente
ci voleva almeno qualche settimana perché un soggetto normale diventasse un
“mussulmano”; ma, al solito, il periodo variava a seconda delle condizioni
del campo, ed è restata notizia di deportati arrivati ad Auschwitz già
“mussulmani” dopo le lunghe soste nei campi di raccolta e l’interminabile
viaggio. Le probabilità di sopravvivenza erano trascurabili nel 1942-’43, ma
aumentarono considerevolmente (pur restando in senso assoluto assai basse) nel
1944: ed è appunto all’ultimo periodo che quasi tutta la vasta letteratura su
Auschwitz si riferisce. Del periodo precedente possiamo farci un’idea dalle
frammentarie registrazioni che ci sono pervenute: così è stato possibile alla
Croce Rossa danese rintracciare le date di arrivo di 257 prigionieri di cui
erano note le date di morte. Si riscontrò che la morte era avvenuta da quattro
a settantadue giorni dopo l’ammissione. Media di vita 38 giorni. Una parte dei
prigionieri erano occupati nei servizi del campo (cucine, infermeria, ecc.), una
parte si guadagnavano i galloni di “anziani” e formavano l’odiata
aristocrazia dei reclusi-secondini. Gli uni e gli altri godevano di certi
privilegi, secondo lo schema di ogni altro campo di concentramento. Eccezionale
era invece la posizione dei Sonderkommandos o reparti speciali addetti
alle camere a gas e ai crematori. Toccava a costoro compiere gli atti materiali
del lavoro di sterminio e di distruzione, in attesa di essere poi – come
furono quasi senza eccezione – a loro volta sterminati. Nell’imminenza della
smobilitazione totale del campo ci furono anzi tra i membri dei Sonderkommandos
alcuni malriusciti tentativi di ammutinamento e resistenza armata, che
precipitarono la loro distruzione. Una piccola parte dei prigionieri fu
effettivamente impiegata in vari lavori industriali, ma con indicibile sperpero
di capacità lavorativa e di vite. Il potenziale del campo non fu mai sfruttato
per più che una frazione della sua consistenza teorica, e soltanto
nell’ultimo periodo alcuni gruppi di lavoratori vennero sottratti al regime
mortale dei loro compagni, decentrati in una serie di campi di lavoro veri; nutriti
e alloggiati in modo che avessero davvero una probabilità di sopravvivere. Sono
appunto questi distaccamenti che formarono nel 1944 la terza grande sezione del
campo, nota come Auschwitz III. Resterebbe da spiegare perché un nucleo –
costantemente rinnovato – di parecchie decine di migliaia di deportati non
utilizzati fosse lasciato in vita per settimane e mesi senza alcuna necessità.
Può darsi che si intendesse tener pronta una riserva (e sia pure di
“mussulmani”) per eventuali futuri sviluppi industriali, a cui pare che
Himmler non cessasse mai di pensare: ma è più probabile che si volesse invece
semplicemente attestare l’esistenza di un campo e mascherare in maniera
provvisoria e approssimativa la vera natura del concentramento di ebrei nella
zona.
La
fine di Auschwitz. Le marce della morte. Gli orrori di Belsen
Le
selezioni per le camere a gas cessarono nell’ottobre 1944. Nei mesi successivi
il campo fu smobilitato, i crematori e le camere a gas furono distrutti, e la
popolazione residua fu evacuata a scaglioni in altri campi di concentramento
“normali” all’interno del Reich. Qualche cosa di simile andava avvenendo
per i superstiti campi di lavoro ausiliari più prossimi al fronte orientale. La
Soluzione Finale, che aveva preso le mosse proprio dall’espulsione degli ebrei
dal territorio tedesco, tornava ora, dopo essersi avvolta in un cerchio
sanguinoso, al suo punto di partenza. Questa grottesca marcia sul Reich tedesco
degli ebrei superstiti, quali nei soliti vagoni bestiame, quali a piedi, avvolti
nei pigiami carcerari o in un pezzo di coperta, riportava nella patria dei
carnefici soltanto una minuscola frazione del numero totale delle vittime: e
tuttavia si trattava sempre di un branco abbastanza considerevole. Al principio
del 1945 circa 200.000 ebrei – comprese alcune decine di migliaia provenienti
da Auschwitz – sopravvivevano in mano tedesca. Da Auschwitz ci furono vari
trasferimenti parziali negli ultimi due mesi del 1944 (2.096 a Dachau, 1.023 a
Buchenwald, 494 a Mauthausen, ecc.). Il 18 gennaio 1945 fu effettuata
l’evacuazione in massa dei superstiti. Nel cuore dell’inverno i disgraziati
furono caricati sui carri aperti o avviati a piedi. Alcuni contingenti (come
quelli diretti a Flossenbürg e Belsen) marciarono per più d’un mese,
diminuendo ben s’intende per via. Per un concorso di circostanze che non è
stato finora spiegato, 2.819 persone vive furono lasciate nel campo dove i russi
le trovarono il 28 gennaio. Negli ultimi mesi della guerra c’erano in
Germania, o piuttosto tra il Reno e l’Oder, dodici campi di concentramento con
parecchie dipendenze. In essi, oltre agli internati ariani, c’erano come s’è
detto circa 200.000 ebrei. Ma alla fine della guerra solo una parte di costoro
erano vivi. La storia della Soluzione Finale si mescola qui con quella di altre
attività tedesche, e non è il caso di raccontarne i particolari. Basti che nei
tre ultimi mesi della guerra perirono non meno di 80.000 prigionieri, di cui
circa la metà nel solo campo di Belsen. Su quest’ultimo campo conviene dire
qualcosa, perché esso raccolse in qualche modo l’eredità di Auschwitz
e completò l’opera dell’antisemitismo tedesco. Il 15 aprile 1945 le
truppe inglesi, entrando nel campo n. 1 di Belsen–Bergen, si trovarono davanti
a uno spettacolo singolare. In un recinto di 1.500 metri per 400 giacevano in
varie baracche di legno 28.000 donne e 12.000 uomini vivi mescolati con 13.000
donne e uomini morti. Alcune altre decine di migliaia di cadaveri erano stati
recentemente ammonticchiati alla rinfusa nelle fosse comuni del campo. Altre
13.000 persone morirono subito dopo la liberazione. In fondo non era altro che
un piccolo frammento della Soluzione Finale. Ma migliaia di soldati inglesi lo
videro coi loro occhi, e separarono con le loro mani i vivi dai morti.
L’effetto sull’opinione pubblica europea fu enorme, e accadde così che
proprio uno dei campi meno “duri” dovesse paradossalmente diventare il
simbolo della persecuzione tedesca degli ebrei. Dopo tutto quello che i soldati
inglesi videro qui non era diverso da quello che era accaduto in altri luoghi
dove però s’era avuto tempo di bruciare o interrare i cadaveri. Da parte
nazista ci furono in seguito dei tentativi di attribuire gli orrori di Belsen a
un malaugurato concorso di circostanze avverse, e in modo particolare a
un’epidemia di tifo che s’era sviluppata nel campo. Ma a tre chilometri dai
recinti gli alleati trovarono 800 tonnellate di viveri e un impianto capace di
sfornare 60.000 pagnotte al giorno. Come mai la marmaglia di Belsen moriva,
oltre al resto, anche di fame? Come mai gli alleati riuscirono a bloccare
l’epidemia, malgrado il modo in cui la si era lasciata diffondere, con la
semplice applicazione delle più elementari misure igieniche e impiegando assai
meno personale sanitario di quanto non avrebbe potuto fornirne il reparto di SS
che era stato tenuto inattivo nei pressi del campo durante le settimane
cruciali? Dopo le rivelazioni di Belsen e quelle analoghe di Buchenwald i
tedeschi cercarono di evacuare i campi via via lasciati scoperti dalla ritirata
della Wehrmacht. Si ebbero le ultime miserabili sfilate di “mussulmani”, le
ultime esecuzioni dei caduti per via, gli ultimi ingorghi nei campi superstiti.
Dopo il 20 aprile 1945 (ossia negli ultimi dieci giorni prima della morte di
Hitler!) arrivarono a Theresienstadt 12.863 persone, un terzo della popolazione
presente nel campo quando la Croce Rossa ne assunse l’amministrazione il 2
maggio, essendo stati abbandonati i piani per la liquidazione in massa dei
sopravvissuti. Quanti degli ebrei coinvolti in questi ultimi assurdi traslochi
perissero così a poche ore dalla liberazione non è possibile dire. Sappiamo
per esempio che dal piccolo campo di Rehmsdorf furono fatte partire 2.775
persone. Sappiamo che un migliaio furono messi a morte a colpi di pistola nei
pressi della stazione di Marienbad, ma sappiamo anche che a Theresienstadt ne
arrivarono soltanto 500. Della sorte degli altri milleduecento circa non siamo
perciò completamente sicuri. Alcuni campi – come Theresienstadt, Dachau e
Mauthausen – furono finalmente consegnati alle autorità alleate o
internazionali. Ma per quelli di Ravensbrueck, Oranienburg e Sachsenhausen il
criterio dell’evacuazione ad oltranza fu tenuto fermo anche quando – nel
collasso palese di ciò che restava della Germania – aveva cessato di avere
qualsiasi parvenza di senso. Alla fine d’aprile ciascuno di quei tre campi
avviò a piedi, non si sa verso che cosa, un ultimo gruppo di internati. La
storia della Soluzione Finale si chiude con la marcia di queste tre colonne in
disintegrazione, seguite dai camion della Croce Rossa. All’ultimo momento
l’ispettorato generale dei campi aveva deciso di escludere le donne
dall’ordine di esecuzione sommaria di coloro che perdevano contatto.
Patria
indipendente, 30 gennaio 2005