Patria indipendente

Leone Efrati, un pugile ad Auschwitz

 

di Sergio Giuntini

 

Joseph Goebbels – ministro alla propaganda di Adolf Hitler – annotava nei suoi diari il 20 giugno 1936: «La signora Schmeling è arrivata. Aspettiamo ora l’incontro di boxe tra Max e Joe Louis. Siamo in tensione per tutta sera. La piccola Anny Ondra è del tutto fuori di sé. Eden ha annunciato alla Camera Bassa il termine delle sanzioni. Un trionfo completo per Mussolini. Una sconfitta senza pari per l’Inghilterra [...]. Di sera gioco ancora con i bambini. Poi alle tre di notte comincia l’incontro. Al 12° round Schmeling mette K.O. il negro. Meraviglioso, un incontro drammatico, eccitante. Schmeling si è battuto e ha vinto per la Germania. Il bianco vince sul negro e il bianco era un tedesco. Sua moglie è magnifica. In tutta la famiglia una gioia senza fine. Soltanto alle cinque del mattino riesco ad andare a letto». Come emerge chiaramente, ci troviamo di fronte all’esaltazione bieca d’uno sport, il pugilato, nato quale noble art dell’aristocrazia britannica, che nel folle disegno nazionalsocialista venne trasformato in pura e semplice violenza bruta al servizio della presunta superiorità razziale ariana. Queste rozze strumentalizzazioni sono state riproposte tempo or sono in bel un film statunitense, intitolato Oltre la vittoria (1990) che, diretto da Robert M. Young e interpretato da Willem Dafoe, è stato quasi interamente girato sui luoghi originali del lager di Auschwitz, il più terribile campo di morte del Novecento. Ma cosa racconta precisamente la pellicola di Young? Ripercorre la storia vera di Salamo Arush: un ebreo greco di Salonicco il quale, valente boxeur, ha vissuto la deportazione in quell’inferno concentrazionario polacco. Qui, egli sostenne una lunga serie d’incontri “pugilistici” (oltre 200) che avevano per posta in gioco la sua vita e quella dei suoi familiari. I combattimenti servivano infatti a svagare il pubblico di SS di guardia al lager e, per gli sconfitti, i K.O. inflittigli – suo malgrado – da Arush, sancivano la loro inesorabile e sadica condanna a morte. Dal “ring” essi transitavano pressoché direttamente alla camera a gas. Non fu comunque il solo Salamo Arush a guadagnarsi la sopravvivenza grazie ad un ultimo, bestiale “round” vittorioso. Nel medesimo campo Teddy Pietrzykovski, un boxeur dilettante polacco, conobbe la gloria d’uno sport ridotto a vero e proprio “darwinismo sociale”. Vi combatté più di trenta “match”, e al riguardo Hermann Langbein – autore del libro Uomini ad Auschwitz – ha scritto: «Nella primavera del 1941, in una domenica in cui non si lavorava, i kapos tedeschi organizzarono incontri di boxe tra di loro e le SS fecero da spettatori. Il kapo Walter, che era un boxeur professionista, sconfisse il suo avversario e a questo punto se ne cercò un altro. “Chi tira di boxe con Walter riceverà del pane” fu l’allettante invito. Teddy accettò la sfida e mandò Walter K.O.[...]. Le SS si erano entusiasmate, avevano confezionato guantoni da boxe adeguati, il comandante del Kommando addetto alla cucina, spettatore entusiasta, dopo ogni match ricompensava Teddy con una ciotola di zuppa». Di più: Wilhelm Claussen, responsabile nazista alle “attività sportive” ad Auschwitz, campo dove esistevano pure un terreno da gioco per il calcio, uno per la pallavolo e una piscina, si compiaceva d’«aver promosso la boxe presso gli internati» e d’aver «presenziato a quasi tutti gli incontri stando loro accanto». In questo cinico senso, avrà sicuramente conosciuto il pugile francotunisino – di origine ebrea – Victor Youki “Young” Perez. Già campione del mondo (NBA e IBU) dei “mosca”, titolo conquistato nel 1931 avendo sconfitto Frankie Genaro, Perez nel 1944 venne ucciso da una raffica di mitra durante un fallito tentativo di evasione da Auschwitz. Ma non basta. Da quell’atroce lager passò anche un nostro splendido boxeur: Leone Efrati. Come Perez di religione ebraica, Efrati – detto “Lelletto” – nacque a Roma nel 1913 e, il 29 dicembre 1938, a Chicago, contese senza fortuna a Leo Rodak il campionato mondiale dei pesi “mosca”, venendo superato solo ai punti. In Italia pareggiò con il forte Gino Bondavalli, e una volta deportato ad Auschwitz Birkenau fu anch’egli costretto a continuare a “far a pugni” per cercar di sopravvivere il più a lungo possibile. In proposito, merita riportare la testimonianza (resa al giornalista sportivo Valerio Piccioni) di Alberto Sed, che con “Lelletto” fu allora internato a Birkenau: «I tedeschi lo conoscevano, hai voglia se lo conoscevano. Era il pugile ideale per le scommesse. Un grande peso “piuma” contro un bel “medio”: e giù soldi, tanti soldi. Non c’era il ring, solo un piazzale e loro che urlavano, si divertivano, giocavano. Sempre di domenica, quando non si lavorava. Noi assistevamo, ma con che spirito, con che spirito vede un incontro di boxe uno che non sa che fine hanno fatto sua madre o sua sorella? [...] I tedeschi davano a chi combatteva un premio, spesso un pezzo di pane. Efrati si faceva onore, ma poi un giorno finì tutto. C’era anche suo fratello al campo. E lui tornando nel block, seppe che era stato picchiato a sangue da alcuni kapò. “Chi è stato, chi te l’ha date?” Si rifece e loro dopo aver preso tutte ’ste botte, avvertirono un soldato tedesco. Qualche ora dopo lo tramortirono, lo ridussero a un moribondo. Ogni sera le SS, davanti al block, ti strattonavano per vedere se stavi in piedi: chi cadeva per terra non aveva scampo e lui non riusciva neanche ad alzarsi. Fu così che “Lelletto” finì nei forni crematori». Leone Efrati morì il 16 aprile 1944. Erano trascorsi neppure sei anni da quando, in America, lottava per conquistare la cintura iridata del pugilato NBA.

Patria indipendente, 30 gennaio 2005

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