Patria indipendente
Una
mostra a Firenze e alla Camera dei Deputati
Non dimenticare la Shoah
di Andrea Liparoto
Alla
fine del febbraio scorso si è conclusa a Roma, alla Camera dei Deputati, una
mostra
intitolata
La memoria della Shoah.
Si tratta di un’interessantissima esposizione di oggetti di varia natura
(cartoline, certificati, disegni, fotografie, lettere, pagine di giornali, ecc.)
raccolti e conservati nel tempo da uno dei sopravvissuti alla Shoah, Francesco
Moscati. Classe 1924, la persona in questione nel settembre del 1943 riuscì ad
evitare la deportazione nei campi di concentramento rifugiandosi in Svizzera.
Quindi, una volta rientrato in Italia iniziò a collezionare tutto ciò che
potesse avere un legame con lo sterminio degli ebrei. Non per semplice pulsione
hobbistica, ma per un dovere di civiltà: tramandare ciò che fu, per non farlo
ripetere. Da qui l’idea, appunto, di una mostra che negli anni è stata
ospitata dalle maggiori città d’Europa e di altri continenti.
Quella
che segue è un’intervista che Gianfranco Moscati ha rilasciato a “Patria”.
Che
cos’è la memoria per Gianfranco Moscati?
La
memoria è qualcosa da tener sempre presente per le generazioni a venire.
Ricordo sempre, a questo proposito, un cartello donatomi per una mia mostra nel
1974 che recava una frase contenuta in Gioele 1,3 (Vecchio Testamento): Raccontatelo
ai vostri figli, i vostri figli ai loro figli e questi alle generazioni seguenti.
La
sua preziosa raccolta contiene i documenti più disparati: locandine di film
antisemiti, cartoline provenienti da campi di concentramento, medaglie coniate
in memoria dei combattenti contro il nazismo, ecc. Con quale spirito, e forse
speranza, ha collezionato nel tempo tutto questo materiale?
Guardi,
bisogna dire innanzitutto che ho preso l’abitudine di “collezionare” da
mia madre che conservava tutto. Pensi che io ho ancora con me i riccioli di noi
cinque figli (tutti maschi ed io sono il più giovane) ancora bambini. Dopo la
guerra ho allargato i miei orizzonti di collezionista agli oggetti che portano
il segno della Shoah. Proprio per ciò che le ho detto all’inizio.
Che
successo di pubblico ha avuto la mostra?
A
Milano in un mese ha registrato la presenza di circa 40.000 visitatori di cui
6.000 erano studenti. Alle 8 sezioni di cui si compone la mia mostra, poi –
così come figurano sul catalogo – ho aggiunto a partire da quella appena
chiusasi a Firenze altre due sezioni: la gioventù trucidata e la partecipazione
ebraica alla Resistenza in Italia. Se posso vorrei ricordare, a riguardo, un
bimbo nato su un treno diretto ad Auschwitz, quindi morto senza neanche avere un
nome e il partigiano Osvaldo Tesoro che ha partecipato eroicamente alle cinque
giornate di Napoli.
Da
quanti anni va in giro per il mondo, con i suoi oggetti, per non far dimenticare
la Shoah?
Da
circa 35 anni.
Il
Presidente della Camera Casini, nella sua introduzione al catalogo della mostra,
si esprime ad un certo punto in questo modo: «Emergono anche segni concreti di
rifiuto della barbarie, di speranza, di accoglienza, che non di rado hanno visto
come protagonisti l’Italia e gli italiani». Quest’opinione collide con le
interpretazioni di quei non pochi storici secondo cui gli italiani cosiddetti
“brava gente” si mostrarono invece per lo più indifferenti – se non
addirittura collaboratori del regime – alle feroci ingiustizie perpetrate ai
danni degli ebrei. Qual è il suo pensiero a riguardo?
Beh!
i miei amici non ebrei, per esempio, dopo le leggi razziali continuarono ad
essere miei amici. Devo dire che conosco ben pochi esempi di italiani non
“brava gente”. Vorrei citarne uno in particolare. Si tratta della tragica
vicenda del piccolo Sergio De Simone – contenuta anche nel catalogo della
mostra – che insieme alla madre fu catturato a Fiume nel marzo del 1944, su
delazione di un italiano cattolico e di origine slava, e poi trasferito ad
Auschwitz. Da qui il piccolo Sergio fu poi condotto ad Amburgo dove, dopo aver
subito degli esperimenti di natura genetica, venne impiccato.
Comunque vorrei aggiungere che
gli italiani davvero “brava gente” furono sicuramente tanti.
Ci
racconti brevemente la storia di qualcuno di questi, che le è stata
testimoniata direttamente.
A
Milano in via Cenesio 75, in un grande caseggiato operaio, vivevano il mio amico
ebreo Moshé Dana, con i nonni ed uno zio. Durante un bombardamento alleato il
loro appartamento rimase quasi indenne ed un altro inquilino – la cui casa
invece era stata semidistrutta – fece loro la proposta di scambio cosicché
quando fossero venuti ad arrestarli (noi ebrei eravamo tutti schedati) non
sarebbero stati trovati. Durante un altro bombardamento, poi, Moshé sentì
bussare alla porta: era il “capofabbricato” che disse di sapere tutto ma che
potevano scendere anche loro nel rifugio. Morale: tutto il caseggiato sapeva di
loro ebrei, ma «nessuno fece la spia». Dopo la Liberazione Moshé andò
in Israele dove vive. Oggi è nonno ed io vado ogni tanto a trovarlo. Avrei
voluto far iscrivere nell’Albo dei Giusti in Israele i bravi inquilini di quel
caseggiato ed ho il rimorso di averlo saputo troppo tardi perché ormai nessuno
di questi era più vivo. Un altro esempio è quello del battello fluviale Pentcho
che nell’ottobre del 1940 tentò di trasportare 600 profughi ebrei in
Palestina. Il risultato fu un naufragio. Carlo Orlandi, capitano della motonave
militare Camogli trasse in salvo tutti. Per questa sua impresa l’Orlandi
stesso fu arrestato dai nazifascisti e deportato in un lager tedesco.
Arriviamo
ora al rapporto fascismo-antisemitismo: lei crede che l’odio razziale – per
ciò che ha potuto leggere, ascoltare o vivere in prima persona – era nel DNA
del fascismo?
No,
non era presente nel DNA dei fascisti. Ricordo che Mussolini dopo il 1933 affermò
che in Italia non esisteva un problema ebraico. Poi, che vuole, seminando,
seminando, come fece per esempio Farinacei o, nei secoli passati, la Chiesa
Cattolica, successe quel che successe...
In
che misura, secondo lei, si sono fatti i conti in Italia – fino in fondo –
con la persecuzione degli ebrei?
C’è
da dire che il nostro gran bel Paese è arrivato per ultimo. Sei anni fa
l’Austria ha concesso un vitalizio ai sopravvissuti della Shoah. E in questo
caso mi piace ricordare che Susanna Silbertstein – sopravvissuta – destinò
il suddetto denaro all’ospedale Alyn per bambini handicappati in Israele.
Il
Giorno della Memoria: secondo molti tale evento rischia di cadere in una vuota e
sterile ritualizzazione. È d’accordo?
No.
Va assolutamente conservato. Finché ci saranno scuole in cui non si è mai
raccontato della Shoah dobbiamo impegnarci con tutti i mezzi possibili a colmare
questa grave lacuna. Io per esempio, nel 1974, in Polonia, feci richiesta per
ottenere un documentario girato dai nazisti nel ghetto di Varsavia.
S’intitolava Requiem per 500.000. Mi impegnai. Ci riuscii, pagando. Lo
feci proiettare a Roma nella comunità di S.
Egidio
in occasione dei 25 anni dalla deportazione dal Ghetto di Roma. In seguito
realizzai la stessa cosa in altre città italiane. Poi nel 1978 regalai il
documentario al CDEC (Centro documentazione ebraica contemporanea) di Milano: fu
la prima pellicola della loro grande cineteca.
Da
un articolo a firma del sociologo Franco Ferrarotti, pubblicato su un
recentissimo numero de Il Messaggero, abbiamo appreso che 1 giovane su 4
sarebbe razzista. Cosa c’è da fare ancora, secondo lei, per risolvere questo
antico, doloroso e pernicioso vulnus sociale?
Continuare
a parlarne, ma soprattutto testimoniare, attraverso, per esempio, le mie
raccolte o documentari veri come il mio Requiem o ancora le interviste ai
sopravvissuti, finché saranno ancora in vita...
Nota:
parte dei proventi della
vendita del catalogo della mostra saranno destinati al già citato ospedale Alyn
e al museo israeliano Yad Layeled dedicato al 1.500.000 di bambini ebrei
trucidati dai nazisti nei campi di concentramento.
Patria
indipendente 23 maggio 2004