Patria indipendente

Tre colpi di maglio

 

di Piero Boni

 

Fra le riflessioni sul 60° dovrebbe trovare adeguato approfondimento, a nostro avviso, una più attenta valutazione del contributo alla Resistenza dei lavoratori sia dell’industria (operai, impiegati, tecnici dei vari settori); sia delle campagne (braccianti e mezzadri) sia dei servizi (trasporti, commercio ecc.). Si può disporre di una bibliografia di ampiezza ed impegno notevoli prevalentemente però a livello locale o di zona, non esiste fino ad ora una trattazione complessiva che colga con efficacia il fenomeno nella sua continuità ed organicità. Nella storiografia resistenziale prevalgono l’aspetto politico e quello militare su quello sociale relativo ai lavoratori. Questa discrasia trova la sua motivazione principale nei limiti di quella cultura resistenziale che, specie negli anni ’50-’60, riduceva la Resistenza prevalentemente al contributo militare e politico. Erano solo i mitra ad aver fatto la storia. Non è stato così. Ora finalmente si sta facendo giustizia di questo errore. La Resistenza è stata per 20 mesi opposizione in modi e forme diverse al regime di occupazione nazista ed alle sue appendici fasciste. La Resistenza così intesa ha coinvolto non solo i partigiani della montagna e le formazioni cittadine ma quanti fra i militari rifiutarono l’adesione al regime occupante e furono deportati nei campi di concentramento; i militari che nei Balcani, ex Jugoslavia, Albania, Grecia resistettero ai tedeschi nelle giornate dell’8 settembre ’43 come a Cefalonia e in tanti altri posti o si associarono con proprie formazioni ai vari movimenti locali. In questo quadro vanno collocate altresì le unità del rinnovato esercito italiano riorganizzato nel Corpo Italiano di Liberazione (CIL) ed anche gli ebrei e i civili deportati nei lager nazisti. Giustamente nei suoi interventi il Presidente Ciampi sottolinea sempre questa concezione vasta e complessa della Resistenza e cerca fondatamente di metterla alla base di «quella memoria condivisa» nella quale dovrebbero riconoscersi tutti gli italiani e la nazione intera. La partecipazione dei lavoratori delle fabbriche e delle campagne fa parte di questa interpretazione e la CGIL ha deciso di favorire e promuovere in tal senso una serie di studi ed è augurabile che si possa presto disporre di risultati interessanti e tali da colmare le lacune fino ad ora riscontrate. Le cause di questo squilibrio sono duplici: la prima attiene alle ovvie difficoltà di poter disporre di una autentica e vasta documentazione. In clandestinità meno verbali si facevano e meglio era. La seconda causa riguarda un certo riserbo dei protagonisti, nella grande maggioranza dirigenti comunisti che probabilmente dai massimi livelli (Longo, Secchia, Mazzola, Amendola, Colombi ecc.) fino alla base preferirono non “spaventare” rivelando le caratteristiche complete della loro rete di opposizione clandestina e ciò per un complesso di ragioni facilmente intuibili e per comprensibili motivazioni unitarie. Nella storiografia resistenziale lo sciopero non è stata la sola arma specifica dei lavoratori delle fabbriche, dei servizi e delle campagne. Si pensi alla continua opera di ostruzionismo e di sabotaggio ed alla ferma opposizione in ogni tentativo di trasferimento di macchinari, all’azione costante dei ferrovieri, alla inosservanza delle disposizioni di conferimento all’ammasso nelle campagne. Lo sciopero resta però l’espressione più significativa e radicale. Nella sua linea di continuità ha contraddistinto sia a Torino che a Milano l’inizio della caduta del fascismo dal 5 marzo’43; ha proseguito un anno dopo, a Resistenza iniziata, nel marzo ’44, con lo sciopero generale in tutta l’Italia ancora occupata fino alla Toscana e alle Marche e si è concluso il 18 aprile ’45 con lo sciopero generale insurrezionale dall’Emilia alle Alpi, sciopero che ha preceduto la Liberazione del 25 aprile. Ognuna di queste tre ondate di scioperi contrassegna ed inizia una fase importante della Resistenza. Nel marzo ’43 il Paese era già in guerra da 30 mesi. La situazione militare era ormai largamente compromessa. Gli anglo-americani avevano ripreso l’Africa e si preparavano a sbarcare in Sicilia e in Francia, sul fronte russo la vittoria dell’URSS a Stalingrado aveva distrutto il mito dell’imbattibilità dell’esercito tedesco e i nostri soldati reduci dalla Russia denunciavano le violenze subite dal cosiddetto  alleato. I centri principali – Napoli, Torino, Milano, Genova ecc. – erano oggetto di bombardamenti sistematici che ovunque producevano rovine e morte. I salari erano ormai inadeguati e i viveri scarseggiavano, nelle fabbriche e nelle famiglie cresceva il malcontento, la disperazione e la fame. L’organizzazione clandestina del PCI diretta fin dal 1940 in Italia da Umberto Massola si rende conto che è giunto il momento di cercare di avvicinare la pace e di accelerare la fine del fascismo. I gruppi comunisti nelle aziende non sono numerosi però sono formati da gente sperimentata, capace e coraggiosa, in grado di svolgere un ruolo efficace di avanguardia. Si discute del possibile sciopero specialmente a Torino ove il malcontento è più diffuso. Un volantino con le rivendicazioni economiche è distribuito nelle fabbriche: Pagamento a tutti di 192 ore di salario concesso solo a chi era sfollato, aumento dell’indennità di caro-vita, aumento razione di pane, carne e grassi. La firma è del Comitato operaio di fabbrica. Si discute altresì della data e delle modalità dello sciopero, se non recarsi al lavoro o scioperare rimanendo nei reparti. Si ritiene più congrua questa seconda ipotesi. La data è fissata al 5 marzo al suono abituale, alle ore 10.00, delle sirene di prova allarme. A Mirafiori, la FIAT, venuta a conoscenza delle decisioni, non fa suonare le sirene ma gli operai in alcuni reparti guidati da Leo Lanfranco cessano ugualmente il lavoro, l’esempio è trascinante e l’astensione si diffonde nei reparti; fabbriche vicine quali la Rasetti e la Microtecnica si fermano anch’esse. La voce e l’esempio corrono per la città. Nei giorni successivi lo sciopero si estende per periodi diversi alle Ferriere, FIAT Ricambi, Aeronautica Lancia, Lingotto ecc. e non solo nelle fabbriche metalmeccaniche ma anche in quelle chimiche Michelin e Schiapparelli ecc. o tessili come la Dall’Acqua, Snia Viscosa. In breve, nel periodo 5-20 marzo a Torino e provincia e località vicine si può ritenere che gli scioperi abbiano interessato circa 100.000 lavoratori tenendo conto che gli stabilimenti FIAT e RIV tutti scioperanti, vedevano occupati allora circa 50.000 lavoratori. Acquisiti i risultati di Torino il Comitato di agitazione passava a Milano e significative sospensioni del lavoro risultarono nel gruppo Falck a Sesto San Giovanni, alla Pirelli Bicocca, alla Ercole Marelli, Breda, Borletti, Isotta Fraschini ecc. Pur rilevanti gli scioperi milanesi non hanno assunto l’estensione di quelli torinesi. A Milano e provincia si può ritenere che dal 22 marzo ai primi di aprile, l’agitazione abbia interessato circa 30.000 lavoratori. Le ripercussioni degli scioperi sono di grande incidenza in tutto il Paese. Emergono con evidenza due dati fondamentali: il fascismo è battuto e l’apparato poliziesco non solo si è fatto sorprendere ma si è rivelato inefficiente. Gli scioperi, anche se motivati ufficialmente con ragioni economiche immediate, sono scioperi essenzialmente politici che sfidano il regime e le sue istituzioni. Si vuole la fine della guerra fascista e di Mussolini. Pane e Pace sono i veri obiettivi degli scioperanti. Ad essere consapevoli dell’importanza dell’accaduto sono per primi tedeschi. Hitler così commenta con i suoi generali: «Per me è impossibile che si possa scioperare». Mussolini nel suo rapporto, rimasto segreto, al direttorio del partito il 17 aprile ’43 indica in «forse centomila» gli scioperanti di Torino e Milano. Il segretario del partito Vidussoni viene sostituito con il più energico e fedele Carlo Scorza. Epurazioni e sostituzioni di dirigenti del partito avvengono in molte province. Lo stesso accade nella polizia. Nessuno storico contesta più che il marzo ’43 è stata la premessa del 25 luglio e della caduta del fascismo. Gli operai sono stati i primi a muoversi con risultati andati oltre  le previsioni. Se agli inizi nelle fabbriche si è seguito l’esempio del gruppo dirigente coraggioso, lo sciopero poi, specie a Torino, è riuscito anche dove l’organizzazione non c’era ma perché si è spontaneamente seguito il crescendo del consenso. A un certo momento lo sciopero ha camminato da solo, e non lo hanno fermato gli arresti, i licenziamenti e le rappresaglie che pur ci sono stati in misura notevole (2.000 arresti nel periodo marzo/maggio ’43). Migliaia di operai per la prima volta avevano affrontato e superato dopo 20 anni di dittatura una prova così impegnativa. L’altra novità altrettanto rilevante era stato il protagonismo delle lavoratrici. Le donne avevano scioperato cogli uomini ed in più casi li avevano difesi dagli arresti e dalle violenze. Nelle fabbriche tessili la maggioranza delle lavoratrici non solo aveva scioperato ma impedito alle direzioni e agli esponenti dei sindacati fascisti di scendere nei reparti costringendoli talvolta a fuggire dalla fabbrica.  A un anno di distanza cogli scioperi all’inizio del marzo ’44, a Resistenza ormai iniziata e presente in ogni zona dell’Italia occupata, i lavoratori e la classe operaia si rendevano protagonisti nuovamente di un duro, formidabile colpo contro l’esercito invasore nazista e la sedicente Repubblica Sociale del fantoccio Mussolini, puro strumento degli occupanti. Anche questa volta i primi a muoversi sono i comunisti. Dopo lo sbarco degli Alleati ad Anzio (22 gennaio ’44) essi si rendono conto come fosse necessario reagire alle disillusioni della mancata presa di Roma e al quasi insuccesso dello sbarco di Anzio con una offensiva che dimostrasse le potenzialità e le capacità di azione della Resistenza. Essi riuniscono pertanto il loro Comitato di Agitazione per l’Alta Italia con sede a Milano e decidono di prospettare al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), che dopo l’8 settembre riuniva tutti i partiti antifascisti, la possibilità di uno sciopero generale, considerato che nelle fabbriche continuava a manifestarsi una viva agitazione contro l’occupante ed i fascisti. Alla metà di febbraio il CLN faceva proprio l’appello del Comitato Segreto di Agitazione e invitava i CLN regionali ed il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) ad iniziare la preparazione dello sciopero. Questa volta lo sciopero partiva da un largo consenso politico unitario e senza più ovviamente la possibilità di fare affidamento sull’effetto sorpresa, tanto che una delle reazioni dei tedeschi, dei fascisti e degli imprenditori fu quella, specie a Milano e Torino, di lasciare a casa gli operai con la motivazione ridicola della mancanza di energia elettrica. Queste misure non impedivano che alla data convenuta del 1° marzo tutta l’Italia settentrionale, dal Piemonte alla Lombardia, al Veneto, alla Liguria (meno Genova che risentiva di una precedente esperienza negativa) all’Emilia, alla Toscana fino a Firenze, alle Marche, si desse inizio nella grande maggioranza degli stabilimenti allo sciopero generale. Per diversi giorni la produzione bellica rimase paralizzata. Questa volta è Milano a recare l’apporto prevalente. Sono circa 350.000 gli operai scioperanti in Lombardia. Il Corriere della Sera non esce per tre giorni di fila. Scioperano altresì i tranvieri e gli studenti. In Piemonte sono circa 150.000 e così via per le altre regioni. Concorre alla riuscita dello sciopero segnatamente a Torino, a Milano fino a Bologna e Firenze, l’entrata in azione delle formazioni partigiane e dei GAP in particolare, che bloccano nelle stazioni i treni operai e fanno saltare le rotaie e gli scambi delle rimesse tranviarie. Come già rilevato fu larga ed attiva la partecipazione delle lavoratrici. Dalle campagne, specie in Emilia, arrivano viveri agli scioperanti ed alle loro famiglie. Questa volta le motivazioni dello sciopero non sono più prevalentemente e apparentemente economiche, sono invece dichiaratamente politiche. Ci si batte contro i tedeschi e i fascisti per una rapida fine del conflitto e per la pace. Se nel marzo 1943 gli scioperi erano stati la premessa per la caduta del fascismo, gli scioperi del ’44 sono la premessa, con la loro dimostrazione di forza e maturità, dell’insurrezione nazionale. Il 5 marzo il Comitato di Agitazione dava l’ordine di cessazione degli scioperi e la situazione ritornava in apparente normalità, ma una impegnativa battaglia politica era stata vinta. Hitler fra i primi aveva colto quest’aspetto sostenendo «che bisognava deportare il 20% degli scioperanti e metterli subito a disposizione di Himmler per il servizio del lavoro». Progetto che non riceveva attuazione anche per le incertezze dell’ambasciatore in Italia, Rahn, che denunciava che «il moto ha scopi politici di carattere comunista». Il governo fascista della Repubblica di Salò era completamente delegittimato e vedeva vanificare quella pseudo-socializzazione delle imprese decisa il 12 febbraio ’44, socializzazione che nelle poche fabbriche nelle quali era stata tentata aveva visto la diserzione degli operai e le poche schede recanti insulti e scherni. Le ripercussioni anche all’estero furono di ampiezza notevole. In data 8 marzo il New York Times scriveva che «in fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa assomigliare alla rivolta degli operai italiani». Anche negli Alleati cresceva notevolmente l’apprezzamento e la considerazione per la Resistenza che si dimostrava forte, capace, matura e politicamente unitaria. Il successo degli scioperi poneva le condizioni per l’offensiva resistenziale dell’estate che, con la costituzione delle Repubbliche partigiane dall’Ossola, al Piemonte al Veneto e all’Emilia, avrebbe portato all’impegno di diverse divisioni tedesche. Con gli scioperi ed il loro successo era inoltre definitivamente perdente la tesi moderata sostenuta nel CLN dai liberali, dalla maggioranza dei democratici cristiani e dai demolaburisti di non impegnarsi nella guerriglia e nell’opposizione sociale in azioni di grande ampiezza al fine di evitare reazioni e rappresaglie tedesche. Secondo queste forze era meglio attendere l’evoluzione politico-militare senza il pericolo di protagonismi che avrebbero potuto rivelarsi controproducenti. Dagli scioperi l’attesismo usciva battuto e prevalevano nella conduzione politico-militare della Resistenza gli indirizzi di una «guerra di popolo» sostenuti dai comunisti, dai socialisti e dagli azionisti. La libertà e la democrazia agli italiani non dovevano essere solo una conseguenza della vittoria militare delle forze angloamericane, ma anche la conseguenza di un proprio specifico apporto di tutto il popolo italiano. Questo evidenziavano gli scioperi. La libertà e la democrazia per essere stabili e valide non possono essere ricevute in dono bensì risultanti di dolorose, travagliate e consapevoli conquiste. Gli storici (Battaglia, Bocca, Oliva) non concordano sul numero complessivo di scioperanti. Si va dai 500.000 al milione. Oreste Lizzadri, socialista, segretario della CGIL, fornisce addirittura una indicazione di 1.200.000. Longo, comunista e responsabile del Comitato di Agitazione parla di un milione. Alla stessa cifra di riferisce l’azionista Valiani. La stampa fascista ammette in modo incompleto 119.000 scioperanti a Milano, 72.000 a Torino, 12.000 a Firenze, 4.000 a La Spezia, ma sono dati parziali che tuttavia lasciano intravedere l’ampiezza del fenomeno che se non arriva al milione e duecentomila indicati da Lizzadri, con fondatezza maggiore si può avvicinare a circa un milione di scioperanti. Il calcolo resta difficile, ma ciò che resta storicamente incontestabile è il dato che con questi scioperi «l’Italia si è desta». Le deportazioni purtroppo numerose, gli almeno 2.000 arresti, l’annullamento dei permessi per le produzioni di guerra e tutte le altre forme di ritorsione, non fermarono i lavoratori delle fabbriche e delle campagne dallo svolgere un ruolo decisivo fino alla Liberazione. Alle missioni alleate operanti fra i partigiani dell’Emilia, l’ordine di attacco per la battaglia finale perviene alle ore 11,00 del 5 aprile ’45. Da quella data, giorno più o giorno meno, inizia nelle fabbriche e nelle campagne la preparazione operativa per il tanto atteso sciopero insurrezionale. Ormai nelle fabbriche e nelle campagne oltre la Linea Gotica, sotto la guida dei CLN locali sono pronti i piani e i depositi di armi. Sono due gli obiettivi prioritari dell’insurrezione. Primo, la salvaguardia degli impianti per consentire una ripresa produttiva più rapida possibile, indispensabile per la ricostruzione o per un eventuale prolungamento della guerra (nelle fabbriche e nelle centrali elettriche vanno rese inoperanti le cariche distruttive predisposte dal nemico, ed i presidi vanno eliminati). Secondo obiettivo concorrere alla liberazione delle città più importanti in collaborazione coi GAP e con le SAP con azioni possibilmente coordinate in attesa dell’arrivo delle divisioni partigiane e eliminazione dei franchi tiratori. La fabbrica insomma fortezza e base dell’insurrezione. Questa volta nel CLNAI non vi è incertezza. Tutti i partiti concordano con l’esigenza dell’insurrezione e dello sciopero generale, e la relativa decisione formale viene assunta il 19 aprile mentre già il 29 marzo era stato costituito un Comitato esecutivo insurrezionale composto da Luigi Longo, Sandro Pertini e Leo Valiani. Torino il 18 era stata già bloccata da uno sciopero preinsurrezionale, a Bologna partiva il 19 aprile in tutte le fabbriche, fino all’arrivo degli Alleati il giorno 21. Il movimento insurrezionale, nella sua particolare combinazione di mobilitazione popolare e di intervento delle formazioni armate, trovava le sue espressioni migliori nel triangolo industriale. Dal 23 al 25 Genova salvava il suo porto e costringeva una divisione tedesca ad arrendersi al CLN. Nel milanese la Pirelli, il 24 sera, iniziava l’insurrezione con l’eliminazione del Presidio di fabbrica. Nelle ore seguenti insorgevano tutte le altre fabbriche milanesi e di Sesto: l’Alfa Romeo, la Marelli, la Brown-Boveri, la Snia, le Falck, le Breda ecc. Operai e cittadinanza si prodigavano instancabili. All’arrivo delle prime formazioni partigiane la città era libera, i tram funzionavano ed il Prefetto del CLN, Riccardo Lombardi, aveva già assunto il suo ufficio. Egualmente la sera del 24 esplodeva Torino dopo un inutile tentativo di rinvio della missione alleata. Si liberarono le FIAT da Mirafiori al Lingotto, alle Ferriere alle Grandi motori, alle fabbriche chimiche Michelin, CIR, a quelle tessili. Variano solo le date ma gli avvenimenti sono analoghi a Brescia, Bergamo, Varese e a tutta la Lombardia, al Piemonte con Novara, Biella, Cuneo, al Veneto con Venezia, Verona, Vicenza ecc. I lavoratori dell’industria all’epoca si aggiravano intorno ai 5 milioni, dislocati in prevalenza nell’Italia settentrionale; non ci si allontana molto dalla realtà se si calcola che 2 milioni di lavoratori e lavoratrici abbiano partecipato all’insurrezione. Tutti gli impianti sono stati salvati, la capacità produttiva del Paese, o meglio, quanto di essa era sfuggita alle distruzioni belliche, era in grado di tornare subito a funzionare. Il salvataggio del nostro apparato industriale resta un credito storico dei lavoratori verso tutto il Paese, credito che non sarà nel futuro mai degnamente riconosciuto ed onorato. Di esso era consapevole il CLNAI che con una sua delibera del 17 aprile riconosceva l’esigenza dell’intervento delle rappresentanze dei lavoratori nella gestione dell’azienda ed a tal fine si istituivano i Consigli di Gestione. L’istituzione dei Consigli di Gestione sarà poi prevista nel disegno di legge del Ministro dell’Industria, il socialista Rodolfo Morandi, del dicembre 1946. Questo progetto non ebbe seguito ma i suoi princìpi riceveranno sanzione nell’art. 46 della Costituzione che riconosce ai lavoratori il diritto a collaborare alla gestione delle aziende. Quest’articolo non ha mai ricevuto attuazione e resta ancora disatteso a 56 anni dalla entrata in vigore della Costituzione nata dalla Resistenza. A 60 anni dagli avvenimenti sommariamente richiamati, non solo sono disattesi i princìpi costituzionali, ma si cerca ancora con ostinazione e pervicacia di negare e contestare i valori di libertà e democrazia di cui la Resistenza resta espressione fondamentale. Il Presidente del Senato vuol cancellare il «mito della Resistenza» ed il Presidente del Consiglio afferma che gli antifascisti durante il regime mandati al confino «erano inviati in luoghi di villeggiatura». Alle nuove generazioni non c’è che indicare che la Resistenza continua e che ora spetta ad esse conservare ed accrescere il patrimonio dei padri. Non c’è da sorprendersi né da disperare. Basta riflettere che tutta la storia del nostro Risorgimento cui la Resistenza si collega è contraddistinta da periodi esaltanti e da reazioni altrettanto negative. A Giuseppe Garibaldi ed ai garibaldini che hanno fatto l’Italia e si sono battuti per la sua unità, è toccato il piombo dell’Aspromonte e di Mentana. Ci sono voluti decenni per una cultura ed una memoria storica condivisa del Risorgimento. Per la Resistenza 60 anni non sono ancora sufficienti, data la complessità del fenomeno e l’andamento, dopo il conflitto, non solo della nostra storia nazionale ma di quella europea e mondiale. La generosa e significativa azione del Presidente Ciampi costituisce per tutti i veri antifascisti di ogni generazione un esempio trascinante e una guida sicura. Ciò che più colpisce ed amareggia è la volontà preordinata di negare e contestare l’evidenza dei fatti o l’esasperazione di alcuni fatali e inevitabili aspetti negativi come nel caso dell’infelice libro di Pansa. Si colloca in questo revisionismo, strumentale e politicizzato, la negazione che la Resistenza sia stata «guerra di popolo» partecipata in modo diretto o indiretto dalla maggioranza dei cittadini interessati. Proprio le vicende degli scioperi generali sono la dimostrazione della inesistenza della cosiddetta «zona grigia», intendendo sostenere con tale definizione che la maggioranza degli italiani nelle zone interessate è restata indifferente e lontana dalle vicende resistenziali e il fenomeno si è limitato a scontri tra poche migliaia di partigiani ed altrettanti esigui «repubblichini». Dietro le migliaia di scioperanti c’è stato il sostegno delle famiglie e di ogni ceto professionale, della cultura e della scuola della maggioranza della società civile. Sostenere l’esistenza della «zona grigia» è negare l’evidenza e commettere un falso storico. Come si è già osservato in nessun Paese d’Europa, non in Francia, non in Belgio, non in Olanda, non in Polonia, non in Norvegia, in nessun Paese occupato dai tedeschi, i lavoratori sono ricorsi a questo tipo di lotta. Si deve anche a questa incidenza europea degli scioperi italiani se alle trattative di Parigi per la Conferenza della Pace nel 1946 l’Italia poté ottenere condizioni dignitose. Aggregata alla delegazione italiana, ve ne era una della CGIL unitaria sostenuta dalla Federazione Sindacale Mondiale. Se l’Italia poteva riacquistare anche nello scenario internazionale dignità e rispetto, non lo doveva certo a una monarchia compromessa col fascismo e ad un ceto dirigente pavido, incapace e opportunista; lo doveva alla Resistenza ed ai lavoratori che per ben 2 anni dal 1943 al 1945 hanno saputo lottare con coraggio e spirito di sacrificio per la libertà e la democrazia.

Patria indipendente, 28 marzo 2004

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