Patria indipendente
Tre colpi di maglio
di Piero Boni
Fra
le riflessioni sul 60° dovrebbe trovare adeguato approfondimento, a nostro
avviso, una più attenta valutazione del contributo alla Resistenza dei
lavoratori sia dell’industria (operai, impiegati, tecnici dei vari settori);
sia delle campagne (braccianti e mezzadri) sia dei servizi (trasporti, commercio
ecc.). Si può disporre di una bibliografia di ampiezza ed impegno notevoli
prevalentemente però a livello locale o di zona, non esiste fino ad ora una
trattazione complessiva che colga con efficacia il fenomeno nella sua continuità
ed organicità. Nella storiografia resistenziale prevalgono l’aspetto politico
e quello militare su quello sociale relativo ai lavoratori. Questa discrasia
trova la sua motivazione principale nei limiti di quella cultura resistenziale
che, specie negli anni ’50-’60, riduceva la Resistenza prevalentemente al
contributo militare e politico. Erano solo i mitra ad aver fatto la storia. Non
è stato così. Ora finalmente si sta facendo giustizia di questo errore. La
Resistenza è stata per 20 mesi opposizione in modi e forme diverse al regime di
occupazione nazista ed alle sue appendici fasciste. La Resistenza così intesa
ha coinvolto non solo i partigiani della montagna e le formazioni cittadine ma
quanti fra i militari rifiutarono l’adesione al regime occupante e furono
deportati nei campi di concentramento; i militari che nei Balcani, ex
Jugoslavia, Albania, Grecia resistettero ai tedeschi nelle giornate dell’8
settembre ’43 come a Cefalonia e in tanti altri posti o si associarono con
proprie formazioni ai vari movimenti locali. In questo quadro vanno collocate
altresì le unità del rinnovato esercito italiano riorganizzato nel Corpo
Italiano di Liberazione (CIL) ed anche gli ebrei e i civili deportati nei lager
nazisti. Giustamente nei suoi interventi il Presidente Ciampi sottolinea
sempre questa concezione vasta e complessa della Resistenza e cerca fondatamente
di metterla alla base di «quella memoria condivisa» nella quale dovrebbero
riconoscersi tutti gli italiani e la nazione intera. La partecipazione dei
lavoratori delle fabbriche e delle campagne fa parte di questa interpretazione e
la CGIL ha deciso di favorire e promuovere in tal senso una serie di studi ed è
augurabile che si possa presto disporre di risultati interessanti e tali da
colmare le lacune fino ad ora riscontrate. Le cause di questo squilibrio sono
duplici: la prima attiene alle ovvie difficoltà di poter disporre di una
autentica e vasta documentazione. In clandestinità meno verbali si facevano e
meglio era. La seconda causa riguarda un certo riserbo dei protagonisti, nella
grande maggioranza dirigenti comunisti che probabilmente dai massimi livelli (Longo,
Secchia, Mazzola, Amendola, Colombi ecc.) fino alla base preferirono non
“spaventare” rivelando le caratteristiche complete della loro rete di
opposizione clandestina e ciò per un complesso di ragioni facilmente intuibili
e per comprensibili motivazioni unitarie. Nella storiografia resistenziale lo
sciopero non è stata la sola arma specifica dei lavoratori delle fabbriche, dei
servizi e delle campagne. Si pensi alla continua opera di ostruzionismo e di
sabotaggio ed alla ferma opposizione in ogni tentativo di trasferimento di
macchinari, all’azione costante dei ferrovieri, alla inosservanza delle
disposizioni di conferimento all’ammasso nelle campagne. Lo sciopero resta però
l’espressione più significativa e radicale. Nella sua linea di continuità ha
contraddistinto sia a Torino che a Milano l’inizio della caduta del fascismo
dal 5 marzo’43; ha proseguito un anno dopo, a Resistenza iniziata, nel marzo
’44, con lo sciopero generale in tutta l’Italia ancora occupata fino alla
Toscana e alle Marche e si è concluso il 18 aprile ’45 con lo sciopero
generale insurrezionale dall’Emilia alle Alpi, sciopero che ha preceduto la
Liberazione del 25 aprile. Ognuna di queste tre ondate di scioperi contrassegna
ed inizia una fase importante della Resistenza.
Nel
marzo ’43 il Paese era già in guerra da 30 mesi. La situazione militare era
ormai largamente compromessa. Gli anglo-americani avevano ripreso l’Africa e
si preparavano a sbarcare in Sicilia e in Francia, sul fronte russo la vittoria
dell’URSS a Stalingrado aveva distrutto il mito dell’imbattibilità
dell’esercito tedesco e i nostri soldati reduci dalla Russia denunciavano le
violenze subite dal cosiddetto alleato.
I centri principali – Napoli, Torino, Milano, Genova ecc. – erano oggetto di
bombardamenti sistematici che ovunque producevano rovine e morte. I salari erano
ormai inadeguati e i viveri scarseggiavano, nelle fabbriche e nelle famiglie
cresceva il malcontento, la disperazione e la fame. L’organizzazione
clandestina del PCI diretta fin dal 1940 in Italia da Umberto Massola si rende
conto che è giunto il momento di cercare di avvicinare la pace e di accelerare
la fine del fascismo. I gruppi comunisti nelle aziende non sono numerosi però
sono formati da gente sperimentata, capace e coraggiosa, in grado di svolgere un
ruolo efficace di avanguardia. Si discute del possibile sciopero specialmente a
Torino ove il malcontento è più diffuso. Un volantino con le rivendicazioni
economiche è distribuito nelle fabbriche: Pagamento
a tutti di 192 ore di salario concesso solo a chi era sfollato, aumento
dell’indennità di caro-vita, aumento razione di pane, carne e grassi.
La firma è del Comitato operaio di fabbrica. Si discute altresì della data e
delle modalità dello sciopero, se non recarsi al lavoro o scioperare rimanendo
nei reparti. Si ritiene più congrua questa seconda ipotesi. La data è fissata
al 5 marzo al suono abituale, alle ore 10.00, delle sirene di prova allarme. A
Mirafiori, la FIAT, venuta a conoscenza delle decisioni, non fa suonare le
sirene ma gli operai in alcuni reparti guidati da Leo Lanfranco cessano
ugualmente il lavoro, l’esempio è trascinante e l’astensione si diffonde
nei reparti; fabbriche vicine quali la Rasetti e la Microtecnica si fermano
anch’esse. La voce e l’esempio corrono per la città. Nei giorni successivi
lo sciopero si estende per periodi diversi alle Ferriere, FIAT Ricambi,
Aeronautica Lancia, Lingotto ecc. e non solo nelle fabbriche metalmeccaniche ma
anche in quelle chimiche Michelin e Schiapparelli ecc. o tessili come la
Dall’Acqua, Snia Viscosa. In breve, nel periodo 5-20 marzo a Torino e
provincia e località vicine si può ritenere che gli scioperi abbiano
interessato circa 100.000 lavoratori tenendo conto che gli stabilimenti FIAT e
RIV tutti scioperanti, vedevano occupati allora circa 50.000 lavoratori.
Acquisiti i risultati di Torino il Comitato di agitazione passava a Milano e
significative sospensioni del lavoro risultarono nel gruppo Falck a Sesto San
Giovanni, alla Pirelli Bicocca, alla Ercole Marelli, Breda, Borletti, Isotta
Fraschini ecc. Pur rilevanti gli scioperi milanesi non hanno assunto
l’estensione di quelli torinesi. A Milano e provincia si può ritenere che dal
22 marzo ai primi di aprile, l’agitazione abbia interessato circa 30.000
lavoratori. Le ripercussioni degli scioperi sono di grande incidenza in tutto il
Paese. Emergono con evidenza due dati fondamentali: il fascismo è battuto e
l’apparato poliziesco non solo si è fatto sorprendere ma si è rivelato
inefficiente. Gli scioperi, anche se motivati ufficialmente con ragioni
economiche immediate, sono scioperi essenzialmente politici che sfidano il
regime e le sue istituzioni. Si vuole la fine della guerra fascista e di
Mussolini. Pane e Pace sono i veri obiettivi degli scioperanti. Ad essere
consapevoli dell’importanza dell’accaduto sono per primi tedeschi. Hitler
così commenta con i suoi generali: «Per me è impossibile che si possa
scioperare». Mussolini nel suo rapporto, rimasto segreto, al direttorio del
partito il 17 aprile ’43 indica in «forse centomila» gli scioperanti di
Torino e Milano. Il segretario del partito Vidussoni viene sostituito con il più
energico e fedele Carlo Scorza. Epurazioni e sostituzioni di dirigenti del
partito avvengono in molte province. Lo stesso accade nella polizia. Nessuno
storico contesta più che il marzo ’43 è stata la premessa del 25 luglio e
della caduta del fascismo. Gli operai sono stati i primi a muoversi con
risultati andati oltre
le previsioni. Se agli inizi
nelle fabbriche si è seguito l’esempio del gruppo dirigente coraggioso, lo
sciopero poi, specie a Torino, è riuscito anche dove l’organizzazione non
c’era ma perché si è spontaneamente seguito il crescendo del consenso. A un
certo momento lo sciopero ha camminato da solo, e non lo hanno fermato gli
arresti, i licenziamenti e le rappresaglie che pur ci sono stati in misura
notevole (2.000 arresti nel periodo marzo/maggio ’43). Migliaia di operai per
la prima volta avevano affrontato e superato dopo 20 anni di dittatura una prova
così impegnativa. L’altra novità altrettanto rilevante era stato il
protagonismo delle lavoratrici. Le donne avevano scioperato cogli uomini ed in
più casi li avevano difesi dagli arresti e dalle violenze. Nelle fabbriche
tessili la maggioranza delle lavoratrici non solo aveva scioperato ma impedito
alle direzioni e agli esponenti dei sindacati fascisti di scendere nei reparti
costringendoli talvolta a fuggire dalla fabbrica. A un anno di
distanza cogli scioperi all’inizio del marzo ’44, a Resistenza ormai
iniziata e presente in ogni zona dell’Italia occupata, i lavoratori e la
classe operaia si rendevano protagonisti nuovamente di un duro, formidabile
colpo contro l’esercito invasore nazista e la sedicente Repubblica Sociale del
fantoccio Mussolini, puro strumento degli occupanti. Anche questa volta i primi
a muoversi sono i comunisti. Dopo lo sbarco degli Alleati ad Anzio (22 gennaio
’44) essi si rendono conto come fosse necessario reagire alle disillusioni
della mancata presa di Roma e al quasi insuccesso dello sbarco di Anzio con una
offensiva che dimostrasse le potenzialità e le capacità di azione della
Resistenza. Essi riuniscono pertanto il loro Comitato di Agitazione per l’Alta
Italia con sede a Milano e decidono di prospettare al CLN (Comitato di
Liberazione Nazionale), che dopo l’8 settembre riuniva tutti i partiti
antifascisti, la possibilità di uno sciopero generale, considerato che nelle
fabbriche continuava a manifestarsi una viva agitazione contro l’occupante ed
i fascisti. Alla metà di febbraio il CLN faceva proprio l’appello del
Comitato Segreto di Agitazione e invitava i CLN regionali ed il CLNAI (Comitato
di Liberazione Nazionale Alta Italia) ad iniziare la preparazione dello
sciopero. Questa volta lo sciopero partiva da un largo consenso politico
unitario e senza più ovviamente la possibilità di fare affidamento
sull’effetto sorpresa, tanto che una delle reazioni dei tedeschi, dei fascisti
e degli imprenditori fu quella, specie a Milano e Torino, di lasciare a casa gli
operai con la motivazione ridicola della mancanza di energia elettrica. Queste
misure non impedivano che alla data convenuta del 1° marzo tutta l’Italia
settentrionale, dal Piemonte alla Lombardia, al Veneto, alla Liguria (meno
Genova che risentiva di una precedente esperienza negativa) all’Emilia, alla
Toscana fino a Firenze, alle Marche, si desse inizio nella grande maggioranza
degli stabilimenti allo sciopero generale. Per diversi giorni la produzione
bellica rimase paralizzata. Questa volta è Milano a recare l’apporto
prevalente. Sono circa 350.000 gli operai scioperanti in Lombardia. Il Corriere
della Sera non esce per tre giorni di fila. Scioperano altresì i
tranvieri e gli studenti. In Piemonte sono circa 150.000 e così via per le
altre regioni. Concorre alla riuscita dello sciopero segnatamente a Torino, a
Milano fino a Bologna e Firenze, l’entrata in azione delle formazioni
partigiane e dei GAP in particolare, che bloccano nelle stazioni i treni operai
e fanno saltare le rotaie e gli scambi delle rimesse tranviarie. Come già
rilevato fu larga ed attiva la partecipazione delle lavoratrici. Dalle campagne,
specie in Emilia, arrivano viveri agli scioperanti ed alle loro famiglie. Questa
volta le motivazioni dello sciopero non sono più prevalentemente e
apparentemente economiche, sono invece dichiaratamente politiche. Ci si batte
contro i tedeschi e i fascisti per una rapida fine del conflitto e per la pace.
Se nel marzo 1943 gli scioperi erano stati la premessa per la caduta del
fascismo, gli scioperi del ’44 sono la premessa, con la loro dimostrazione di
forza e maturità, dell’insurrezione nazionale. Il 5 marzo il Comitato di
Agitazione dava l’ordine di cessazione degli scioperi e la situazione
ritornava in apparente normalità, ma una impegnativa battaglia politica era
stata vinta. Hitler fra i primi aveva colto quest’aspetto sostenendo «che
bisognava deportare il 20% degli scioperanti e metterli subito a disposizione di
Himmler per il servizio del lavoro». Progetto che non riceveva attuazione anche
per le incertezze dell’ambasciatore in Italia, Rahn, che denunciava che «il
moto ha scopi politici di carattere comunista». Il governo fascista della
Repubblica di Salò era completamente delegittimato e vedeva vanificare quella
pseudo-socializzazione delle imprese decisa il 12 febbraio ’44,
socializzazione che nelle poche fabbriche nelle quali era stata tentata aveva
visto la diserzione degli operai e le poche schede recanti insulti e scherni. Le
ripercussioni anche all’estero furono di ampiezza notevole. In data 8 marzo il
New York Times scriveva che «in
fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile
nell’Europa occupata che possa assomigliare alla rivolta degli operai italiani».
Anche negli Alleati cresceva notevolmente l’apprezzamento e la considerazione
per la Resistenza che si dimostrava forte, capace, matura e politicamente
unitaria. Il successo degli scioperi poneva le condizioni per l’offensiva
resistenziale dell’estate che, con la costituzione delle Repubbliche
partigiane dall’Ossola, al Piemonte al Veneto e all’Emilia, avrebbe portato
all’impegno di diverse divisioni tedesche. Con gli scioperi ed il loro
successo era inoltre definitivamente perdente la tesi moderata sostenuta nel CLN
dai liberali, dalla maggioranza dei democratici cristiani e dai demolaburisti di
non impegnarsi nella guerriglia e nell’opposizione sociale in azioni di grande
ampiezza al fine di evitare reazioni e rappresaglie tedesche. Secondo queste
forze era meglio attendere l’evoluzione politico-militare senza il pericolo di
protagonismi che avrebbero potuto rivelarsi controproducenti. Dagli scioperi
l’attesismo usciva battuto e prevalevano nella conduzione politico-militare
della Resistenza gli indirizzi di una «guerra di popolo» sostenuti dai
comunisti, dai socialisti e dagli azionisti. La libertà e la democrazia agli
italiani non dovevano essere solo una conseguenza della vittoria militare delle
forze angloamericane, ma anche la conseguenza di un proprio specifico apporto di
tutto il popolo italiano. Questo evidenziavano gli scioperi. La libertà e la
democrazia per essere stabili e valide non possono essere ricevute in dono bensì
risultanti di dolorose, travagliate e consapevoli conquiste. Gli storici
(Battaglia, Bocca, Oliva) non concordano sul numero complessivo di scioperanti.
Si va dai 500.000 al milione. Oreste Lizzadri, socialista, segretario della
CGIL, fornisce addirittura una indicazione di 1.200.000. Longo, comunista e
responsabile del Comitato di Agitazione parla di un milione. Alla stessa cifra
di riferisce l’azionista Valiani. La stampa fascista ammette in modo
incompleto 119.000 scioperanti a Milano, 72.000 a Torino, 12.000 a Firenze,
4.000 a La Spezia, ma sono dati parziali che tuttavia lasciano intravedere
l’ampiezza del fenomeno che se non arriva al milione e duecentomila indicati
da Lizzadri, con fondatezza maggiore si può avvicinare a circa un milione di
scioperanti. Il calcolo resta difficile, ma ciò che resta storicamente
incontestabile è il dato che con questi scioperi «l’Italia si è desta». Le
deportazioni purtroppo numerose, gli almeno 2.000 arresti, l’annullamento dei
permessi per le produzioni di guerra e tutte le altre forme di ritorsione, non
fermarono i lavoratori delle fabbriche e delle campagne dallo svolgere un ruolo
decisivo fino alla Liberazione. Alle
missioni alleate operanti fra i partigiani dell’Emilia, l’ordine di attacco
per la battaglia finale perviene alle ore 11,00 del 5 aprile ’45. Da quella
data, giorno più o giorno meno, inizia nelle fabbriche e nelle campagne la
preparazione operativa per il tanto atteso sciopero insurrezionale. Ormai nelle
fabbriche e nelle campagne oltre la Linea Gotica, sotto la guida dei CLN locali
sono pronti i piani e i depositi di armi. Sono due gli obiettivi prioritari
dell’insurrezione. Primo, la salvaguardia degli impianti per consentire una
ripresa produttiva più rapida possibile, indispensabile per la ricostruzione o
per un eventuale prolungamento della guerra (nelle fabbriche e nelle centrali
elettriche vanno rese inoperanti le cariche distruttive predisposte dal nemico,
ed i presidi vanno eliminati). Secondo obiettivo concorrere alla liberazione
delle città più importanti in collaborazione coi GAP e con le SAP con azioni
possibilmente coordinate in attesa dell’arrivo delle divisioni partigiane e
eliminazione dei franchi tiratori. La fabbrica insomma fortezza e base
dell’insurrezione. Questa volta nel CLNAI non vi è incertezza. Tutti i
partiti concordano con l’esigenza dell’insurrezione e dello sciopero
generale, e la relativa decisione formale viene assunta il 19 aprile mentre già
il 29 marzo era stato costituito un Comitato esecutivo insurrezionale composto
da Luigi Longo, Sandro Pertini e Leo Valiani. Torino il 18 era stata già
bloccata da uno sciopero preinsurrezionale, a Bologna partiva il 19 aprile in
tutte le fabbriche, fino all’arrivo degli Alleati il giorno 21. Il movimento
insurrezionale, nella sua particolare combinazione di mobilitazione popolare e
di intervento delle formazioni armate, trovava le sue espressioni migliori nel
triangolo industriale. Dal 23 al 25 Genova salvava il suo porto e costringeva
una divisione tedesca ad arrendersi al CLN. Nel milanese la Pirelli, il 24 sera,
iniziava l’insurrezione con l’eliminazione del Presidio di fabbrica. Nelle
ore seguenti insorgevano tutte le altre fabbriche milanesi e di Sesto: l’Alfa
Romeo, la Marelli, la Brown-Boveri, la Snia, le Falck, le Breda ecc. Operai e
cittadinanza si prodigavano instancabili. All’arrivo delle prime formazioni
partigiane la città era libera, i tram funzionavano ed il Prefetto del CLN,
Riccardo Lombardi, aveva già assunto il suo ufficio. Egualmente la sera del 24
esplodeva Torino dopo un inutile tentativo di rinvio della missione alleata. Si
liberarono le FIAT da Mirafiori al Lingotto, alle Ferriere alle Grandi motori,
alle fabbriche chimiche Michelin, CIR, a quelle tessili. Variano solo le date ma
gli avvenimenti sono analoghi a Brescia, Bergamo, Varese e a tutta la Lombardia,
al Piemonte con Novara, Biella, Cuneo, al Veneto con Venezia, Verona, Vicenza
ecc. I lavoratori dell’industria all’epoca si aggiravano intorno ai 5
milioni, dislocati in prevalenza nell’Italia settentrionale; non ci si
allontana molto dalla realtà se si calcola che 2 milioni di lavoratori e
lavoratrici abbiano partecipato all’insurrezione. Tutti gli impianti sono
stati salvati, la capacità produttiva del Paese, o meglio, quanto di essa era
sfuggita alle distruzioni belliche, era in grado di tornare subito a funzionare.
Il salvataggio del nostro apparato industriale resta un credito storico dei
lavoratori verso tutto il Paese, credito che non sarà nel futuro mai degnamente
riconosciuto ed onorato. Di esso era consapevole il CLNAI che con una sua
delibera del 17 aprile riconosceva l’esigenza dell’intervento delle
rappresentanze dei lavoratori nella gestione dell’azienda ed a tal fine si
istituivano i Consigli di Gestione. L’istituzione dei Consigli di Gestione sarà
poi prevista nel disegno di legge del Ministro dell’Industria, il socialista
Rodolfo Morandi, del dicembre 1946. Questo progetto non ebbe
seguito ma i suoi princìpi
riceveranno sanzione nell’art. 46 della Costituzione che riconosce ai
lavoratori il diritto a collaborare alla gestione delle aziende.
Quest’articolo non ha mai ricevuto attuazione e resta ancora disatteso a 56
anni dalla entrata in vigore della Costituzione nata dalla Resistenza. A
60 anni dagli avvenimenti
sommariamente richiamati, non solo sono disattesi i princìpi costituzionali, ma
si cerca ancora con ostinazione e pervicacia di negare e contestare i valori di
libertà e democrazia di cui la Resistenza resta espressione fondamentale. Il
Presidente del Senato vuol cancellare il «mito della Resistenza» ed il
Presidente del Consiglio afferma che gli antifascisti durante il regime mandati
al confino «erano inviati in luoghi di villeggiatura». Alle nuove generazioni
non c’è che indicare che la Resistenza continua e che ora spetta ad esse
conservare ed accrescere il patrimonio dei padri. Non c’è da sorprendersi né
da disperare. Basta riflettere che tutta la storia del nostro Risorgimento cui
la Resistenza si collega è contraddistinta da periodi esaltanti e da reazioni
altrettanto negative. A Giuseppe Garibaldi ed ai garibaldini che hanno fatto
l’Italia e si sono battuti per la sua unità, è toccato il piombo
dell’Aspromonte e di Mentana. Ci sono voluti decenni per una cultura ed una
memoria storica condivisa del Risorgimento. Per la Resistenza 60 anni non sono
ancora sufficienti, data la complessità del fenomeno e l’andamento, dopo il
conflitto, non solo della nostra storia nazionale ma di quella europea e
mondiale. La generosa e significativa azione del Presidente Ciampi costituisce
per tutti i veri antifascisti di ogni generazione un esempio trascinante e una
guida sicura. Ciò che più colpisce ed amareggia è la volontà preordinata di
negare e contestare l’evidenza dei fatti o l’esasperazione di alcuni fatali
e inevitabili aspetti negativi come nel caso dell’infelice libro di Pansa. Si
colloca in questo revisionismo, strumentale e politicizzato, la negazione che la
Resistenza sia stata «guerra di popolo» partecipata in modo diretto o
indiretto dalla maggioranza dei cittadini interessati. Proprio le vicende degli
scioperi generali sono la dimostrazione della inesistenza della cosiddetta «zona
grigia», intendendo sostenere con tale definizione che la maggioranza degli
italiani nelle zone interessate è restata indifferente e lontana dalle vicende
resistenziali e il fenomeno si è limitato a scontri tra poche migliaia di
partigiani ed altrettanti esigui «repubblichini». Dietro le migliaia di
scioperanti c’è stato il sostegno delle famiglie e di ogni ceto
professionale, della cultura e della scuola della maggioranza della società
civile. Sostenere l’esistenza della «zona grigia» è negare l’evidenza e
commettere un falso storico. Come si è già osservato in nessun Paese
d’Europa, non in Francia, non in Belgio, non in Olanda, non in Polonia, non in
Norvegia, in nessun Paese occupato dai tedeschi, i lavoratori sono ricorsi a
questo tipo di lotta. Si deve anche a questa incidenza europea degli scioperi
italiani se alle trattative di Parigi per la Conferenza della Pace nel 1946
l’Italia poté ottenere condizioni dignitose. Aggregata alla delegazione
italiana, ve ne era una della CGIL unitaria sostenuta dalla Federazione
Sindacale Mondiale. Se l’Italia poteva riacquistare anche nello scenario
internazionale dignità e rispetto, non lo doveva certo a una monarchia
compromessa col fascismo e ad un ceto dirigente pavido, incapace e opportunista;
lo doveva alla Resistenza ed ai lavoratori che per ben 2 anni dal 1943 al 1945
hanno saputo lottare con coraggio e spirito di sacrificio per la libertà e la
democrazia.
Patria
indipendente, 28 marzo 2004