Patria indipendente
Gli
scioperi del marzo 1944
I lavoratori italiani contro il nazifascismo
di Guglielmo Epifani*
È
passato circa un anno da quando,
il 5 aprile 2003, la CGIL e la Fondazione Giuseppe Di Vittorio, in
collaborazione con l’INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di
Liberazione in Italia), organizzarono una manifestazione a Genova in occasione
del 60° anniversario degli scioperi del marzo-aprile 1943. Quella iniziativa
aprì un ciclo di due anni di appuntamenti politici e culturali, che
culmineranno nell’aprile 2005 con i festeggiamenti per il 60° anniversario
della Liberazione, in ricordo della guerra di Resistenza che diede un contributo
decisivo alla sconfitta del nazifascismo e alla nascita dell’Italia libera,
democratica e repubblicana. Tali celebrazioni proseguiranno poi idealmente nel
2006 quando la CGIL raggiungerà il traguardo “storico” dei 100 anni di
vita, una ricorrenza estremamente importante che nel nostro Paese soltanto poche
organizzazioni hanno avuto e avranno la fortuna di festeggiare. Non è
assolutamente un caso che la CGIL abbia deciso di intraprendere questo difficile
cammino di memoria, reso ancora più complicato dalla difficile congiuntura
politica e culturale, segnata sempre più da un revisionismo politicamente
orientato. Quando, infatti, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli
anni Novanta vennero meno, per diverse ragioni, i partiti di massa della
cosiddetta “Prima Repubblica” (DC, PCI, PSI), il sindacato raccolse la
difficile sfida ed eredità di difendere i valori di libertà e di solidarietà
promossi dalla lotta partigiana; questo avvenne soprattutto negli anni
dell’emergenza istituzionale, economica, sociale e politica del 1992-1994
quando il sindacato assunse un ruolo decisivo nella tenuta democratica del
Paese. L’azione sindacale si sviluppò principalmente su due livelli. In primo
luogo, a livello politico-sindacale, attraverso la firma dei due accordi sulla
scala mobile e sulla concertazione che rappresentarono la base di partenza
necessaria per il raggiungimento dell’obiettivo europeo; in secondo luogo, a
livello culturale, iniziò un lavoro sulla memoria e sulla valorizzazione delle
origini antifasciste della nostra Repubblica in una fase in cui l’arrivo al
Governo di forze totalmente estranee a quei valori e a quella cultura (da Forza
Italia alla Lega Nord, per non parlare del MSI che si richiamava esplicitamente
al regime fascista) rendeva più preoccupante il quadro politico. Fu proprio nei
giorni successivi alla prima vittoria elettorale di Berlusconi che le forze
democratiche del nostro Paese, con in testa il sindacato, decisero di dare una
dimostrazione di forza con una manifestazione, quella del 25 aprile 1994, che
ebbe un evidente carattere popolare. Oggi ricordiamo gli scioperi del marzo
1944. Ormai la storiografia più attenta e matura ha ricostruito gli avvenimenti
e il contesto militare, economico, sociale e politico nel quale quegli eventi si
svolsero. Il primo dato che sorprende è senza dubbio il carattere di massa della
mobilitazione operaia; centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori,
forse un milione, si astennero dal lavoro per circa una settimana, dal 1° al 7
marzo. Nella sola città di Torino, il numero degli scioperanti raggiunse le 70
mila unità, mentre a Milano, la città dove le agitazioni ottennero maggiori
adesioni, tale soglia fu ampiamente superata; se il Piemonte e la Lombardia
furono le regioni più mobilitate, rilevante fu la partecipazione anche in
Emilia e in Toscana, mentre a Genova, dopo le grandi lotte del dicembre 1943,
seguite dalla durissima repressione del Prefetto Basile, la nuova tornata di
agitazioni operaie non riuscì. Ancora una volta, come era successo già in
passato, furono gli operai dell’industria, in particolare delle fabbriche
metalmeccaniche, a guidare la mobilitazione. Ma da un’analisi dei dati
disaggregata per settore, ci si rende subito conto dell’apporto notevole
fornito da altre importanti categorie dei servizi; basti pensare ai tranvieri di
Milano e, nello stesso capoluogo lombardo, ai tipografi del Corriere della
Sera che impedirono l’uscita del giornale per ben tre giorni. Senza
dimenticare infine, in quegli stessi mesi, il consistente contributo di lotte
dato nelle campagne dai lavoratori della
terra; mentre in molte zone
della Val Padana si effettuavano azioni di boicottaggio contro la produzione del
grano necessario alle truppe di occupazione, lo sciopero delle mondine del
maggio 1944, prolungatosi per circa un mese, testimoniò in modo chiaro la
partecipazione trasversale di larghi settori del mondo del lavoro alla lotta di
Resistenza. Questa breve descrizione degli scioperi del marzo 1944 evidenzia un
tratto peculiare dell’antifascismo italiano che, a differenza di altri
movimenti di liberazione sviluppatisi nel resto d’Europa, oltre all’elemento
politico e partitico, presentò un carattere sociale ben visibile. Se, infatti,
il Comitato segreto di agitazione del Piemonte, della Lombardia e della Liguria
e lo stesso CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) ebbero un
ruolo importante nella preparazione politica dello sciopero, a livello pratico e
organizzativo la spinta della base fu decisiva. I Comitati clandestini, nati in
molte fabbriche del nord (dalla Breda all’Alfa Romeo, dalla Falck alla Pirelli),
guidarono la lotta, esponendosi in prima persona alle rappresaglie del nemico;
un dato, infatti, assolutamente centrale negli scioperi del 1944 fu l’alto
numero di deportati che si registrò tra le file operaie, soprattutto tra
coloro più esposti sindacalmente e politicamente per avere diretto lo sciopero
(membri di Commissioni Interne, capilega, attivisti e militanti). Se mancò da
parte di Mussolini la “punizione esemplare” degli agitatori, è anche vero
che la deportazione dei lavoratori italiani in Germania dopo gli scioperi del
marzo 1944 rappresenta una delle pagine più nere e drammatiche della nostra
Resistenza; centinaia e centinaia, infatti, furono i lavoratori che trovarono
una morte atroce nei campi di lavoro e di concentramento nazisti. Accanto al
carattere di massa delle agitazioni e al dramma della deportazione operaia, il
terzo dato che emerge dall’analisi di quegli avvenimenti è il valore
politico della mobilitazione; da questo punto di vista, il confronto con gli
scioperi del marzo-aprile 1943 può risultare di grande aiuto. Le lotte
dell’anno precedente avevano avuto una motivazione “economica” piuttosto
evidente, legata ai crescenti disagi in tema di pane, prezzi, trasporti, mercato
clandestino; la dimensione politica di quella lotta stava soprattutto negli
effetti prodotti perché, dopo quasi venti anni di negazione autoritaria del
diritto di sciopero, gli scioperi del 1943 rappresentarono la spia più evidente
del fallimento del corporativismo e dell’imminente crollo del regime. Dopo il
25 luglio e ancor di più dopo l’8 settembre 1943, in un Paese allo sbando e
spaccato in due, era iniziata la guerra partigiana, una guerra civile,
patriottica e di liberazione al tempo stesso, dapprima piuttosto
“minoritaria”, ma subito divenuta, con il passare dei mesi (tra la primavera
del 1944 e quella del 1945), sempre più ampia e partecipata. Gli scioperi del
1944 si situano proprio in questo crocevia, dopo la caduta di Mussolini nel
luglio 1943, ma nei territori della Repubblica Sociale Italiana; dopo la nascita
del movimento partigiano, ma in una fase in cui questo e gli Alleati ancora non
riescono ad avere il sopravvento sul nemico nazifascista. Quegli scioperi
assunsero subito un forte connotato antifascista; fu una lotta guidata da tre
motivazioni politiche precise, che si sommarono ovviamente alle rivendicazioni
di carattere strettamente economico. In primo luogo, lo sciopero puntò a
conquistarsi alcuni spiragli di libertà, di critica e di opposizione ad un
regime liberticida che aveva condotto l’Italia nelle braccia dell’alleato
nazista e nel baratro della seconda guerra mondiale; in secondo luogo, esso
ribadì il valore sociale del lavoro quale fattore fondamentale per lo sviluppo
e il rafforzamento delle identità collettive; infine, espresse in forma netta e
decisa l’opposizione alla guerra nazifascista. Tutti elementi questi (la
libertà, la centralità del lavoro, la pace) che avrebbero costituito il filo
rosso tra la lotta partigiana (1943-1945) e l’elaborazione della Costituzione
democratica, repubblicana e antifascista (1946-1948). In conclusione, la
Resistenza è risultata decisiva per la sconfitta della dittatura e per la
conquista della democrazia. Essa ebbe una dimensione europea che, dalla Francia
alla Grecia, dalla Jugoslavia alla Polonia, coprì l’intero continente; come
ricordava qualche giorno fa, a Sesto San Giovanni, il nostro Presidente della
Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, dalla Resistenza partì il «grande sogno, poi
divenuto realtà, di un’Europa riconciliata». Oggi, più di ieri, è
assolutamente necessario non dimenticare il costo elevatissimo di vite umane –
molti erano lavoratori – che quella guerra di Liberazione comportò, coltivare
giorno per giorno la memoria di quei tragici eventi perché le nuove generazioni
non debbano mai vivere l’orrore di quel dramma collettivo, difendere ed
espandere i valori di libertà e di giustizia sociale che spinsero i lavoratori
fuori dalle fabbriche e i partigiani sulle montagne.
(*)
Segretario Generale della CGIL.
Patria
indipendente 28 marzo 2004