Patria indipendente

Il mio ricordo di Settimia Spizzichino

 

di Ernesto Nassi

 

Dico la verità, dopo qualche giorno pensavo che difficilmente ne sarei uscito vivo. Si doveva fare una scelta:morire per la fatica o morire per un colpo di pistola. Io scelsi di morire per un colpo di pistola, cercando di nascondermi per fare qualche interruzione al lavoro tanto massacrante che difficilmente avrei potuto resistere. Al suo arrivo, l’esercito sovietico liberò ad Auschwitz e nei campi satelliti 7 mila 600 larve umane. E cominciò un’altra odissea: il trasferimento a piedi verso l’interno della Germania effettuato insieme al gruppo di Primo Levi, che così bene lo racconta nel suo libro La tregua. Ma io, che già stavo male – al momento della liberazione pesavo 38 chili – crollai e fui portato dai soldati sovietici in ospedale. Successivamente fui ricoverato in un altro ospedale a Leopoli e ancora in un sanatorio nel Caucaso, ai confini con la Georgia. Una volta dimesso, fui mandato al distretto ed arruolato, ma non andai mai al reparto. Tornai in patria nel dicembre 1945, ultimo degli italiani, o almeno degli ebrei italiani. A quel punto, la vita doveva ricominciare ed io fui aiutato da un correligionario che aveva un’azienda commerciale e che era già stato datore di lavoro di uno dei miei fratelli. Il 2 gennaio 1946 ero già al lavoro. Un anno dopo fui promosso magazziniere e ancora un anno dopo rappresentante. Questa è la mia storia, che mi sono sforzato di raccontare fedelmente. Al termine di tante traversie, c’è ancora un interrogativo che mi pongo ripetutamente. Quando ero ad Auschwitz a separare parti di aereo, ogni tanto riuscivo a nascondermi tra le lamiere e a riposarmi un po’. Forse anche per questo sono sopravvissuto. Ci penso spesso e ho la speranza che qualcuno, SS o Kapò, se ne sia accorto e non abbia detto niente. Non lo so, ma significherebbe che anche lì in qualche caso potesse esserci appena un briciolo di umanità. Era giugno del 1979 e la RAI mise in onda uno sceneggiato che aveva suscitato grande scalpore, sia negli Stati Uniti che in Germania, per il tema trattato e per le immagini forti e crude, il cui titolo era: “Olocausto” e raccontava la tragedia della Shoah, ed ottenne ascolti record, con punte di oltre venti milioni di telespettatori a puntata. Stimolato dalla visione di “Olocausto” ritenni fosse il momento giusto per rilanciare un tema in me sempre presente, il tema della memoria. Così decisi di scrivere uno speciale per il giornale del sindacato postelegrafonici della CGIL, di cui ero dirigente. Il giorno dopo mi recai alla sede, allora, del compartimento Lazio delle Poste Italiane in Piazza Dante, per incontrare una nostra iscritta: Settimia Spizzichino, unica donna romana superstite dei 1.022 ebrei romani deportati dai nazisti il 16 ottobre 1943. Di quell’incontro ho chiarissima nella memoria la grande emozione provata nel trovarmi al cospetto di colei che era sopravvissuta all’orrore dei campi di sterminio. Davanti a me era seduta una donna apparentemente mite, che mi accolse con un sorriso di una dolcezza disarmante, velato, però, di una celata tristezza; quel sorriso dolce e triste allo stesso tempo era la inconfondibile spia di una vita segnata da un profondo dolore, quel dolore legato al ricordo di sofferenze ed umiliazioni; restammo muti per pochi attimi, poi le chiesi se aveva voglia di raccontarmi la sua storia e se la cosa non fosse per lei stancante, pensando tra me e me che potesse provare noia nel ripetere le stesse cose. La risposta non si fece attendere e fu veemente, quasi rabbiosa: «Come puoi pensare che io, solo per un attimo, possa stancarmi o che non abbia voglia di raccontare quello che mai dovrà essere dimenticato? E fino che avrò un alito di vita io racconterò e racconterò e ancora racconterò, senza mai venire meno alla “missione” morale che è fortemente presente a me stessa, decisa il giorno che ho abbandonato il “campo”: far conoscere al mondo come un essere umano possa essere crudele contro i propri simili, ed impegnarmi perché la storia, quella storia, non si ripeta». La sua reazione alla mia domanda mi mostrò la Settimia forte e combattiva, che con risolutezza respingeva anche il solo sospetto che qualcuno pensasse che lei potesse dimenticare venendo così meno alla sua “missione”. Passato il momento, prese a raccontare e man mano che lei parlava mi sentii inevitabilmente attratto dai suoi occhi che mi sembravano via via sempre più chiari, al punto di vederli come limpide acque di montagna talmente trasparenti da vederne il fondo, anche il più profondo, e guardando dentro quegli occhi vedevo che il racconto di Settimia usciva dal più profondo del suo cuore, così straziante, così toccante, e come in un film vidi nei suoi occhi l’orrore del “campo” con il famigerato “blocco 10”, il capannone degli esperimenti medici, dove fu usata come cavia umana per vedere gli effetti sul suo corpo delle malattie dermatologiche. Vedevo la disperazione per la mancanza di notizie dei suoi cari anch’essi deportati con lei da Roma, vedevo il dolore fisico e morale subìto, vedevo la speranza che tutto un giorno finisse, vedevo la forza di non cedere per non morire. Vedevo tante altre cose orribili ma nello stesso tempo vedevo davanti a me una donna sorretta da una forza sovrumana, quasi che “loro” quelli che nel “campo” sono rimasti per sempre avessero unito le forze per sostenere Settimia, “la loro voce narrante”, nel suo cammino della memoria, per raccontare l’orrore che bambini, donne e uomini hanno subìto e a causa del quale sono morti, per raccontare la rabbia di chi non ha più potuto vivere le gioie e gli amori di un futuro negato, di chi non ha potuto veder crescere i figli, né i figli dei figli, perché mai nati, di chi con la famiglia è passato come fumo in una ciminiera, di chi con il suo corpo ha fatto da sasso per costruire la “montagna della morte” con cataste di corpi senza vita, di chi fino al 15 ottobre del 1943, nonostante le leggi razziali dell’Italia fascista, credeva di poter vivere nella sua casa, nella sua città, nel suo Paese. A Settimia mi univa lo stesso ideale politico, era socialista come me, ed eravamo iscritti, anche se in tempi diversi, alla storica sezione di via Edgardo Ferrati alla Garbatella: quartiere al quale era fortemente legata. Lei che aveva vissuto a Portico D’Ottavia si trovò subito a suo agio alla Garbatella, da romana verace quale era si trovò benissimo con le “popolane romane” della Garbatella. Famose erano le sue cene con gli amici del quartiere, era una grande cuoca! Con il tempo, ho imparato a conoscere l’umanità e la generosità di Settimia, in special modo il suo amore per i bambini che per lei erano l’antidoto al veleno del male, affinché la storia, quella storia, non si ripetesse mai più. Quando parlava ai giovani, e questo le succedeva spesso, cercava i loro cuori perché capissero che il suo era un messaggio di pace, teso a proteggere la loro innocenza dalle scorie della demagogia intrise di false verità, perché raccontava loro solo quello che aveva visto e vissuto, ed era la verità. Il 3 luglio del 2000 Settimia ha chiuso gli occhi, quegli occhi che non si stancavano mai di raccontare la tragedia del “popolo dei numeri”, perché per i loro aguzzini non erano più esseri umani bensì numeri, e tra quei “numeri” milioni non sono più tornati alle loro case come sua madre, le due sorelle, il fratello ed una piccola nipotina, tutti assassinati nel campo di sterminio. Il 16 ottobre 2003 Roma, con il suo sindaco, ha voluto onorare la memoria di Settimia Spizzichino, simbolo di quei cittadini romani che hanno sofferto gli orrori di una follia disumana in una guerra assurda come tutte le guerre, con la intitolazione di una scuola nel suo Municipio, il Municipio Roma XI, nel quale sua nipote Carla Di Veroli è delegata alle politiche culturali e con cui da subito ho instaurato un buon rapporto, pur non sapendo che fosse la nipote di Settimia. Frequentandola ho riconosciuto in lei molte delle qualità della zia quali la carica instancabile, la “tigna”, la disponibilità verso chi è più debole, ma su tutte la cultura della memoria. E forse se oggi nel nostro Municipio c’è una scuola con il nome di Settimia Spizzichino qualche pizzico di merito le appartiene. In questo nostro Municipio, che ritengo essere per Roma il “Municipio della memoria” tra il mausoleo delle 335 vittime delle fosse Ardeatine e il monumento alle donne del Ponte di Ferro, Porta S. Paolo e la Montagnola dove 57 tra militari e civili persero la vita a difesa di Roma, oggi si è aggiunta una scuola il cui nome ricorda il simbolo della tragedia di un popolo, nel cuore di Roma. Nella mia memoria di Settimia ho cercato di evidenziare il carattere e la grande forza interiore, silenziosi guardiani della “sua missione”. Dare il suo nome ad una scuola è stato il regalo più bello che Roma e gli organi collegiali della scuola potessero farle. Mi sembra di vederla, sorridente e felice, tenere le mani dei “suoi” ragazzi e scatenarsi con loro in un girotondo allegro e chiassoso, libera dagli orrori del passato.

Patria indipendente 18 gennaio 2004

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