Patria indipendente
Il treno senza ritorno di Charlotte Delbo
«Nessuna
di noi tornerà»
di Orsetta Innocenti
Nel
capitolo 11 del suo libro-memoria, Charlotte Delbo – membro della Resistenza
francese, catturata e deportata ad Auschwitz insieme a un gruppo di donne
classificate come politiche e asociali con il convoglio del 24 gennaio 1943 –
descrive (a modo suo, con i tratti incisivi della sua narrazione per quadri
icastici e violenti) una giornata nel campo di prigionia (Un
giorno, un giorno qualunque, è non a caso il titolo del capitolo). Le
donne sono «là tutte, parecchie migliaia, in piedi nella neve del mattino –
è così che bisogna chiamare la notte perché il mattino era alle tre di notte.
L’alba illuminava la neve che fino ad allora aveva illuminato la notte – ed
il freddo aumentava». E mentre tutte le prigioniere stanno immobili («la
volontà di lottare e resistere […] rifugiata […] soltanto nell’immediata
periferia del cuore»), una all’improvviso esce dalla fila, e si produce in
una sinistra danza: «Una danza meccanica. Uno scheletro di donna che danza. I
piedi sono piccoli, magri e nudi nella neve. Ci sono degli scheletri vivi e che
danzano». È il ballo degli scheletri vivi, davanti ad altri scheletri, di
altri morti viventi come lei («Lo so perché non mi aiutano. Sono morte. Ah!
Sembrano vive perché si reggono in piedi appoggiate le une alle altre. Sono
morte»). La narrazione della Delbo prosegue impietosa nel descrivere l’agonia
della donna, finché una SS le sguinzaglia addosso un cane: «La pianura. La
neve. La pianura. La donna si accascia. Un sussulto ed è finita». Davanti agli
occhi «immobili nella pianura immobile» delle altre donne «in piedi nella
neve», mentre «la notte scende» su un altro giorno come gli altri, e che come
gli altri contiene (così come ci ha insegnato Primo Levi) in sé il paradosso
implicito in ogni racconto del superstite: ricordare la propria esperienza è
insieme necessario e impossibile, un dovere sempre ripetuto e che mai riesce
davvero a tradursi in realtà. Si tratta di una contraddizione di cui la Delbo
è ben consapevole come dimostra la frase da lei posta in epigrafe al libro: «Oggi
non sono sicura che quello che ho scritto sia vero. Sono sicura che è reale».
Parole che riecheggiano, del resto, la conclusione dell’episodio di Un
giorno come tanti: «E ora
sono in un caffè a scrivere questo», perché – ci era stato ricordato poco
prima – «tutto può diventare storia». L’ambiguo rapporto con il proprio
statuto di reduce – e con quello, mai pacificamente accettato, di narratore
– caratterizza dunque le memorie tardive di Charlotte Delbo, che pubblica Un treno senza ritorno nel
1970, a cinque anni dall’uscita del suo primo scritto (dal titolo Le
convoi du 24 Janvier) di testimonianza sul periodo trascorso ad Auschwitz.
È un carattere questo che avvicina per molti aspetti la narrazione della Delbo
(internata per motivi politici) a quella di molte altre memorie del Lager, dalla
quale però lo allontanano alcune significative differenze. Innanzi tutto,
infatti, a essere diverso è lo status stesso
della protagonista perché – come ha ricordato Frediano Sessi nella Postfazione
alla prima edizione italiana – «in fondo, la Delbo con le sue compagne
era finita ad Auschwitz-Birkenau, e la sua memoria
non appartiene né agli ebrei, che nel campo di sterminio in terra
polacca hanno patito condizioni assai peggiori, né ai politici che, salvo
questa eccezione, non vi sono mai stati internati». Uno status
eccezionale che si complica ulteriormente grazie al punto di vista
femminile, che ci fornisce un osservatorio insolito della vita nel campo. In
questa prospettiva, l’esperienza della Delbo rappresenta davvero un caso due
volte unico (doppiamente perché – seguiamo sempre gli insegnamenti di Primo
Levi – all’interno della logica di annientamento del campo la via della
salvezza individuale diventa sempre un caso a sé), e proprio per questo una
cifra peculiare assume anche il carattere della sua testimonianza narrativa. Se
infatti è vero – come ricorda la stessa Charlotte – che «tutto può
diventare storia», il resoconto della Delbo cerca in ogni modo di allontanarsi
da qualsiasi canone di narrazione, e tende piuttosto a trasporre sulla carta
una serie di quadri insieme
atroci e pietosi nei quali l’adozione di registri letterari molto diversi tra
loro dovrebbe fornire al lettore tutta l’angoscia dell’inesprimibile. A
differenza che in Se questo è un uomo,
dunque (o nella prima testimonianza della stessa Delbo), il libro non presenta
un vero e proprio sviluppo narrativo, ma piuttosto la giustapposizione di una
serie di scene-tipo, ognuna delle quali è descritta con un linguaggio che
spazia dalla cronaca, al frammento, alla poesia. In questo modo la Delbo tenta
di mettere in atto una sorta di spiazzamento delle attese del lettore (un
lettore che – non dimentichiamo che siamo nel 1970 – si presuppone del resto
già informato sulle atrocità dei campi): scopo del libro, insomma, non è
tanto (non solo) aggiungere nuovi particolari alla descrizione delle atrocità
dei lager che il mondo già
conosce, quanto soprattutto riuscire a restituire almeno in parte il senso di
incomprensione che ha accolto le stesse prigioniere al loro arrivo nel campo. «E
si dicono che sarebbe stato meglio non entrare mai e non sapere mai», leggiamo
al termine del capitolo I Via dell’arrivo, via della partenza, parole
che vengono ripetute poco dopo, nei versi di chiusura della poesia che
costituisce il capitolo III O voi che sapete, ma riferite questa volta
alla comunità dei lettori, che non possono comprendere: «Sapevate che la
sofferenza non ha limite / l’orrore non ha frontiera / Lo sapevate / Voi che
sapete». Ancora una volta, insomma, la giustapposizione delle scene forti e
incisive – di immagini che scorrono con il commento spiazzante di una voce
volutamente straniata, che descrive, non commenta, che dipinge, non riflette –
si aggiunge al coro delle voci di chi dai campi è tornato per raccontare ciò
che raccontare non si può, come ci ricordano, del resto, le ultime parole del
libro: «Nessuna di noi tornerà. Nessuna di noi sarebbe dovuta tornare».
Nasce
a Vigneux-sur-Seine, in Francia, il 10 agosto 1913; nel 1932 entra a far parte
della Gioventù Comunista e due anni dopo, nel 1934, incontra il suo futuro
marito Georges Dudach. Divenuta segretaria di Louis Jouvet, nel 1941 lo
accompagna in un viaggio nell’America del Sud, seguendo le insistenze del
marito, che cerca così di sottrarla al pericolo dell’occupazione nazista
della Francia. Durante il soggiorno in America del Sud, Charlotte però legge
dai giornali la notizia della morte del suo compagno di Resistenza André Woog,
ghigliottinato da Pétain come «partigiano e terrorista» e decide così di
rientrare in patria, e di partecipare direttamente alla Resistenza a fianco del
marito. Ritorna così a Parigi il 15 novembre del 1941. Lei e il marito
collaborano alla redazione della rivista clandestina «Lettres Françaises»,
alla quale lavora soprattutto Charlotte, nel loro piccolo appartamento. Il 2
marzo 1942 la polizia fa irruzione nell’appartamento, e arresta Dudach
(fucilato il 23 maggio dello stesso anno); poco dopo anche Charlotte viene
arrestata e trasferita nel carcere di Romainville, nei pressi di Parigi, da dove
verrà destinata, insieme ad altre 229 donne, al convoglio del 24 gennaio 1943,
direzione Auschwitz-Birkenau. La Delbo resterà ad Auschwitz (insieme alle altre
56 compagne sopravissute) fino al 3 agosto 1943, quando, in maniera misteriosa e
inspiegabile (probabilmente grazie alle pressioni internazionali che vengono
fatte per intervenire a favore di queste combattenti politiche), le donne
superstiti vengono trasferite prima in un campo di quarantena, e di lì a Rajsko,
quindi a Ravensbruck e poi definitivamente (il 5 marzo) a Mauthausen. Sarà
questo l’evento eccezionale che determina la salvezza di Charlotte e di altre
48 compagne, che, sottoposte a un trattamento meno duro, riusciranno a
sopravvivere fino alla liberazione, da parte della Croce Rossa, alla fine della
guerra. Tornata in patria, la Delbo ha iniziato a collaborare con l’ONU e con
il CNRS. Inizia a scrivere a partire dal 1960.