Patria indipendente

Un sopravvissuto racconta

Quel piano inclinato sull’abisso

 

di Piero Terracina

 

Non è facile parlare dei miei ricordi di quel periodo, di quel 16 ottobre 1943, quando ci fu la razzia nel Ghetto di Roma e della mia discesa all’inferno che avvenne qualche mese dopo e fece di me l’unico sopravvissuto di un’intera famiglia. A dieci anni fui letteralmente messo fuori dalla scuola. Il maestro, che mi aveva seguito dalla prima elementare e che per me era divenuto come una persona di famiglia, il 17 novembre 1938 – frequentavo la quinta elementare – mi disse: «Tu devi uscire perché sei ebreo». Per me, che ero stato educato all’amore per lo studio soprattutto da mia madre, è stato un trauma terribile. Si parlò allora della possibilità di organizzare classi di soli ebrei, ma non si raggiunse il numero sufficiente. Questo il primo frutto delle leggi razziali che l’Italia fascista aveva appena varato. Piero Caleffi ha scritto che gli ebrei furono posti su un piano inclinato in fondo al quale c’era l’abisso. Io e la mia famiglia fummo posti su quel piano inclinato creato dall’odio come strumento di potere. La mia famiglia, composta dai genitori e da tre figli e una figlia, oltre al vecchio nonno che viveva con noi (la nonna venne a mancare poco tempo prima dei fatti che sto per raccontare), era riuscita a scampare al 16 ottobre forse anche perché non abitavamo al Ghetto, ma a Monteverde. In seguito alla deportazione degli oltre mille ebrei romani, cambiammo casa e ci dividemmo. I miei genitori e mia sorella in un appartamento. I nonni furono ospitati in un altro appartamento dal portiere dello stabile, che fu veramente un eroe perché rischiava la vita. A me e ai miei fratelli aprì le porte una cantina come rifugio. Però non potevamo rimanere chiusi perennemente perché non avevamo di che vivere. Negli anni di guerra e dopo le leggi razziali avevamo dovuto vendere tutto quello che aveva un certo valore. Ora era inevitabile che rischiassimo uscendo all’aperto per praticare un piccolo commercio, nostra unica fonte di sostentamento. Il 7 aprile 1944 si iniziava la Pasqua ebraica. Ci riunimmo per festeggiarla tutti insieme, come era nostro costume. Venne anche uno zio. La sera arrivarono le SS. Probabilmente fu una spiata a perderci. Il mattino mia sorella, che era veramente una bella ragazza, era stata seguita da un giovane che le aveva rivolto senza successo alcune avances. La sera, mentre venivamo portati via dai nazisti, lo vedemmo sotto casa insieme a un suo compare. Evidentemente, scornato per essere stato respinto, ci aveva venduto per le 5 mila lire che i tedeschi offrivano ai delatori. Mia sorella tentò di intavolare una trattativa per far rilasciare il nonno, dicendo che aveva 84 anni, era rimasto vedovo da poco e praticamente non avrebbe potuto lavorare – nella convinzione che ci facessero lavorare – e non sarebbe servito a nulla. Le sue parole furono interrotte immediatamente da un secco «Raus», con l’indicazione della porta. Al portone c’era un’ambulanza. Dopo pochi minuti eravamo a Regina Coeli, e fu un altro trauma terribile per tutti noi, ma forse in modo particolare per un ragazzo di 15 anni com’ero io. Nel carcere fummo messi faccia al muro, guardati da una sentinella e con l’ordine di non parlare. Poi mio padre ci chiese perdono. Non so per cosa. Ma fu un momento di grande commozione. Prevedendo forse il peggio, ci disse: «Non perdete mai la dignità». Dopo pochi giorni ci fu il trasferimento a Fossoli, nel campo italiano di transito. Il 17 maggio in autobus, scortati dai carabinieri che ci consegnarono alle SS, raggiungemmo la stazione di Carpi. Forse i carabinieri pensavano di svolgere un servizio normale, di “routine”. Non so se avrebbero potuto fare qualcosa. Resta il fatto che non fecero nulla, come nulla era stato fatto negli anni precedenti, dal 1938 in poi, quando ci fu tanta indifferenza. Nella stazione di Carpi fummo fatti salire sui carri ferroviari. Io, mio padre e mio nonno su un carro. Mio padre faceva di tutto per starmi vicino, forse perché ero il più piccolo della famiglia. In un altro furono fatti salire i miei fratelli, in un terzo mia madre e mia sorella. I vagoni vennero chiusi e noi ci contammo. Eravamo 64. Troppi. C’erano anziani, come il nonno, malati, mamme con bambini. Ci avevano detto di fare rifornimento d’acqua, ma non avevamo contenitori sufficienti. La sete fu un vero e proprio tormento di un viaggio allucinante. A ogni stazione imploravamo che ci fosse data dell’acqua. C’era molta gente, ma nessuno ci dedicò attenzione e non ci fu rivolto neppure uno sguardo di pietà. Viaggiammo per due giorni, fino alla stazione di Ora, in provincia di Bolzano. Qui furono aperti i carri ed alcuni – i più giovani, tra cui io – poterono scendere a fare rifornimento d’acqua. Dopo altri due giorni arrivammo a Monaco di Baviera Est. C’era la Croce Rossa tedesca e potemmo avere una zuppa calda, acqua e paglia da mettere sul pavimento dei vagoni. Avevamo viaggiato quattro giorni negli escrementi di 64 persone. A noi non accadde, ma ho letto in un libro di Nedo Fiano che in un carro morì una persona, che rimase lì per sette giorni. Infine, Auschwitz. Restammo tutta la notte e la mattina successiva in stazione. Il pomeriggio entrammo nel campo di Birkenau, al cui interno da qualche mese era stata costruita quella che chiamavano la rampa, una stazione con soltanto le banchine. Le SS erano schierate con bastoni in mano e cani al guinzaglio. Cominciarono a dare ordini in tedesco, che nessuno capiva. Volevano che facessimo presto. Si dovevano formare due file, di uomini e donne, ma la confusione era tanta e ognuno cercava i propri familiari. Mia madre e mia sorella erano abbracciate. Mamma ci benedì e ci disse: «Andate via», perché stavano sopravvenendo le SS con i bastoni alzati. Si formarono le due file e cominciò il massacro. Allora non lo sapevamo, ma quello fu l’inizio della fine. Le donne anziane o malate e quelle che avevano bambini, da una parte, destinate allo sterminio; le giovani, che potevano lavorare, dall’altra. Stessa situazione per gli uomini. Più dell’80 per cento dei prigionieri di quel convoglio furono mandati a morire subito. Quanto alla vita nel campo, senza entrare nei particolari dell’orrore, che possono dare fastidio e che in primo luogo danno fastidio a me, mi limiterò ad alcune notazioni sulla quotidianità che certamente era la stessa vissuta dai deportati del 16 ottobre, con la differenza enorme dovuta al fatto che quando io sono arrivato ad Auschwitz era primavera inoltrata, mentre i deportati dell’ottobre avevano già trascorso in quel luogo infame un intero inverno e un inverno ad Auschwitz in quelle condizioni lasciava scampo a ben pochi. Infatti, quando vi arrivai, nel maggio 1944, erano già pochissimi i sopravvissuti del trasporto del 16 ottobre. L’atmosfera era terribile. Un’atmosfera di morte e di violenza che già al momento della sveglia, alle quattro e mezzo del mattino, all’atteso e temuto grido del Kapò: «stawach, aufsteen» (sveglia, alzarsi) subito col bastone incombente sul nostro capo, ci faceva pensare: «Riuscirò ad arrivare fino a sera?». E la sera, al rientro dal lavoro, sfiniti dalla fatica immane, affamati, dovevamo andare all’appello che non di rado durava ore o per una punizione collettiva o perché mancava qualche prigioniero che poteva essere fuggito, che non era riuscito, magari per lo sfinimento, a raggiungere la propria baracca o che era morto in qualche parte del lager. E spesso dopo l’appello veniva chiamata la selezione, quando il posto per i deportati che arrivavano e dovevano entrare nel campo doveva essere lasciato da quelli arrivati prima e circa la metà dei prigionieri di una baracca doveva andare a morire. Il lavoro era massacrante. Prima fui adibito a scavare canali, perché la zona era paludosa e l’acqua doveva defluire. Era proprio – come dice Primo Levi – essere immersi continuamente nel fango. Non era raro il caso che la sera dovessimo riportare in spalla corpi di nostri compagni che non avevano resistito. Quando andavamo all’appello dovevamo allinearli in fondo alla fila, perché anche loro dovevano essere contati. In un secondo tempo fui spostato in un campo sterminato in cui arrivavano tutti gli aerei sia tedeschi sia alleati che erano stati abbattuti in territorio tedesco. Si dovevano separare le singole parti e caricarle sui carri.

Patria indipendente, 18 gennaio 2004

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