Patria indipendente
“Le voci di San Sabba”
di Marco Cecchini
Andrea
Giuseppini ha voluto ricordare le vicende dolorose della Risiera di San Sabba
con un documentario radiofonico che ricostruisce i fatti avvenuti nel lager
triestino. Nella Risiera di San Sabba, infatti, c’era un campo nazista con un
forno crematorio che aveva duplice funzione: per gli antifascisti, i partigiani
slavi e italiani, e per gli ostaggi civili, è stato un vero e proprio campo di
sterminio. Per gli ebrei, tranne un piccolo numero inizialmente soppresso e
bruciato in Risiera, era un luogo di smistamento e di transito. Tale
ricostruzione è stata possibile attraverso il recupero dei dati del processo
svoltosi a Trieste nel 1976. Sebbene questo processo sia risultato
insoddisfacente in quanto ormai tardivo e avvenuto senza la presenza di
imputati, esso ha dato tuttavia ai sopravvissuti la possibilità di testimoniare
così da conservare vivo il ricordo, monito soprattutto per le giovani
generazioni che non hanno conosciuto il dramma e la violenza
dell’intolleranza. Il documentario, intitolato “Le voci di San Sabba”,
contiene, oltre alle testimonianze dei sopravvissuti, degli storici, dei
magistrati, anche una parte delle registrazioni originali del processo, che sono
state fornite dall’Istituto per la storia dell’età contemporanea di Sesto
San Giovanni. La grande importanza di tale iniziativa è anche data dal fatto
che essa, unita ai mezzi mediatici ormai a disposizione di tutti, è stata
inserita su internet e può essere così ascoltata da qualsiasi persona
interessata, andando al sito www.radioparole.it,
che è la sigla di un gruppo di produttori indipendenti. Il documentario è
diviso in tre sezioni di trenta minuti ciascuna. Nella prima, intitolata “i
testimoni”, sono raccolti i ricordi di due superstiti della Risiera: Marta
Ascoli, che fu imprigionata giovanissima per una settimana nel lager prima di
essere deportata con il padre ad Auschwitz, e Franc Šircelj, un partigiano
sloveno che rimase a San Sabba per cinque mesi e si salvò per miracolo dai
forni crematori. Le loro testimonianze sono fatte anche di piccoli episodi di
sopravvivenza quotidiana, e rendono tragicamente l’idea molto meglio di
qualsiasi manuale di storia. Racconta Šircelj: «…Avevo una matita nascosta
in un buco nel muro. Ho fatto delle scritte lì, nella cella numero tre… Anche
nella stanza della morte, dove sono stato, era pieno di scritte sui muri. Lì ho
pensato: chissà quante persone sono passate attraverso questa stanza. Questo
l’ho pensato dopo perché nei primi tempi, quando stavo qui, io non sapevo
nemmeno che c’era il forno crematorio». Stando alle considerazioni di
Galliano Fogar, membro dell’Istituto regionale di storia del movimento di
Liberazione in Friuli-Venezia Giulia, che ha partecipato al processo in qualità
di perito storico, «Secondo le sentenze del processo le vittime in Risiera
furono duemila, escluso il piccolo nucleo di ebrei che venne ucciso anche in
Risiera, mentre la maggioranza venne mandata altrove. Secondo altri calcoli,
fatti da superstiti e da studiosi, arriviamo fra le tre e le quattromila
persone, sterminate in Risiera». Enzo Collotti, anch’egli storico utilizzato
come perito durante il processo, ricostruisce l’identità dei nazisti che
operarono in Risiera: «L’Einsatzkommando Reinhard è, praticamente, il
cervello operativo che realizza in Polonia, tra il 1942 e il 1943, la soluzione
finale agli ordini del generale delle SS Globocnik, originario di Trieste…
Quando viene trasferito a Trieste, trasporta buona parte di quello che era stato
il suo staff di comando in Polonia». Conferma Fogar: «…i maggiori
massacratori delle stragi, del genocidio, della Shoah vennero a Trieste. Mancava
solo Eichmann». La seconda parte del documento radiofonico è costituita
dall’istruttoria, che in realtà fu per molti aspetti insoddisfacente per
diversi motivi: innanzi tutto per il fatto che il processo si iniziò a
trent’anni di distanza dagli avvenimenti; poi per lo scaricabarile tra
l’autorità giudiziaria ordinaria e quella militare sulla competenza, infine
per la totale mancanza di documenti che gli Alleati avrebbero bruciato prima di
andarsene. In base alla testimonianza di Fogar «Al processo si arriva grazie al
nostro Istituto..., io lo dico senza timore di smentite. Ercole Miani aprì
questo capitolo della Risiera perché seppe che in Germania si stavano
processando alcuni responsabili dei crimini commessi in Polonia che erano stati
a Trieste. Lui scrisse ai giudici federali tedeschi…gli demmo il materiale
perché loro potessero a loro volta aprire un processo anche per i crimini della
Risiera, e, nelle rogatorie per la magistratura italiana, indicare: guardate,
questi hanno operato sotto di voi, hanno fatto questo e questo… e così la
magistratura italiana… fu costretta ad aprire per legge il processo anche a
Trieste». Anche il giudice istruttore Sergio Serbo ebbe il grande merito di
opporsi al trasferimento del giudizio disposto dal Procuratore di Stato, suo
superiore, alla Procura militare. Tale opposizione provocò l’interruzione
dell’istruttoria per due anni, ma impedì che l’inchiesta finisse
nell’armadio della vergogna. Un altro rischio di interpretazione falsata era
rappresentato da una inclinazione ad un eccesso di tecnicismo che non rendeva
certamente giustizia alla verità dei fatti avvenuti. Il problema è centrato
pienamente dal presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Amos
Luzzatto: «La maggior parte di questi processi ha questo problema molto serio.
Che è quello di trovare la categoria e la classificazione dell’atto, prima di
stabilire se l’atto era criminale o meno. Io farei il contrario. Da questo
punto di vista, per me partigiani sloveni o ebrei deportati sono vittime dello
stesso tallone spietato che si è manifestato. Non si può fare un ragionamento
di questo genere. Era un luogo dove si massacrava la gente. Era un luogo di
orrore». La terza parte è costituita dal processo vero e proprio, con le
imputazioni divise tra reati comuni, ad esempio l’uccisione di ebrei, e
crimini di guerra, come l’eliminazione di partigiani. Nell’ascolto di questo
documentario, viene fuori con sorprendente evidenza la difficoltà tra il
desiderio di ottenere giustizia, e le complesse procedure cui è obbligatorio
attenersi. Come dichiara Galliano Fogar, «...la piccola Norimberga triestina
poteva essere fatta, perché c’erano tutti gli elementi di fatto, concreti.
Non era possibile disgiungere le atrocità commesse da questi reparti e dire: in
queste circostanze sono reparti militari che devono obbedire al codice militare
di guerra, in queste (altre) circostanze invece sono colpevoli di reati
(comuni). Era talmente congiunta… la Risiera congiungeva in tal modo i due
aspetti, che disgiungerli era una forzatura. Antistorica sicuramente, ma anche
assai discutibile dal punto di vista giuridico. Questi erano reparti nati per
operazioni di sterminio. Il processo di Norimberga diede un inquadramento di
responsabilità politiche che si traducevano anche nella pena legale. E questo
noi volevamo». I risultati delusero le aspettative: gli imputati, che in
origine erano quindici, si ridussero ad uno solo, in quanto gli altri o non
furono identificati o erano deceduti. Il processo fu condotto quindi solamente
contro Joseph Oberhauser. Ci fu poi anche un altro fattore, messo bene in
rilievo da Collotti, il quale sottolinea che esiste la tendenza a non
coinvolgere i complici italiani, le cui responsabilità non emergono mai anche
«...perché se si colpivano i molti ufficiali o militi della Repubblica sociale
si impediva la loro reintegrazione», o, come afferma Galliano Fogar: «Bisogna
tenere presente che una parte della città questo processo non lo voleva, e
anche una parte della magistratura. Perché una parte della città aveva
collaborato con i nazisti. Io ho collaborato con l’organo più feroce che ci
fosse che era l’Einsatzkommando Reinhard. Io, Ispettorato speciale. Io,
Ufficio investigativo della milizia. E di conseguenza, anche giuridicamente, noi
sostenevamo che la responsabilità…niente da fare!».
Patria
indipendente,
18 gennaio 2004