Patria indipendente
Una famiglia ebrea e antifascista
di Adolfo Perugia*
In
Italia la persecuzione degli ebrei ebbe inizio il 15 novembre 1938 quanto, in
linea con la legislazione razziale della Germania di Hitler, furono promulgate
le leggi fasciste che sancirono “la morte civile dei cittadini italiani di
religione ebraica”. Eravamo cittadini italiani, vivevamo in Italia da oltre
2.000 anni e ci trovammo a perdere ogni nostro diritto. Ricordo ancora quella
mattina, avevo poco più di sette anni; ne sono passati sessantasei: come fai a
dimenticare certe cose! Era iniziato l’anno scolastico 1938-’39, io
frequentavo la seconda elementare, nel quartiere romano della Garbatella, dove
vivevo con la mia famiglia. Andavo nella scuola che oggi si chiama “Cesare
Battisti”, allora intitolata a Michele Bianchi, il primo segretario del
partito fascista, che nel 1922 aveva guidato con Mussolini la marcia su Roma.
Come tutte le mattine, recandomi a scuola intravidi da lontano fermi
all’ingresso un gruppo di bambini controllati dagli insegnanti in camicia
nera. Non feci in tempo ad avvicinarmi che uno di loro mi schernì dicendo: «Ecco
un altro ebreo!». E mi unì al gruppo che si andava via via formando. Trascorse
ancora del tempo. L’attesa sembrava non finire mai. Non capivamo che cosa
stesse accadendo. Quando tutti i bambini “di razza ebraica” furono arrivati,
ci fecero entrare per un ingresso secondario e ci misero tutti in una sola
classe, non facendo differenza di età. Fu così che imparammo a conoscere il
significato della parola “pluriclasse”. Perché dovevo essere separato dai
miei compagni, con i quali avevo studiato e giocato fino al giorno prima?
Soprattutto era difficile comprendere il motivo per cui i miei coetanei mi
scansassero e non mi chiamassero più per nome e cognome, come si usa a scuola,
ma usando l’appellativo che sarebbe risuonato troppo spesso alle mie orecchie
in quei lunghi anni tristi: “ebreo”. Un bambino di sette anni questo non può
capirlo. E capisce ancora meno se, alcuni giorni dopo, gli viene detto che non
può più frequentare la scuola statale perché, oltre ad essere ebreo, è anche
figlio di un antifascista. Cosa potevo conoscere della politica? Che Mussolini
fosse un dittatore e il fascismo fosse un regime che aveva tolto agli italiani
ogni libertà, non lo capivo certo; ma che i fascisti ci stavano facendo del
male, questo era chiaro anche agli occhi di un bambino. Certo, li vedevo come
gli orchi, come i malvagi delle favole, ma purtroppo non erano personaggi della
fantasia: questa era la realtà. Nel giro di pochi giorni la mia vita familiare
subì un cambiamento forzato a seguito dell’entrata in vigore delle leggi
razziali: mio padre venne licenziato dalle Poste e perdemmo la casa alla quale
aveva avuto diritto perché dipendente statale. Ricordo ancora i militi delle
Poste, vestiti in grigioverde con la camicia nera, che senza una semplice parola
di comprensione ci cacciarono da quella che era stata la nostra casa. Il
fascismo e le sue leggi non avevano ancora inflitto alla nostra famiglia il
colpo più duro, quello che avrebbe lasciato la ferita più profonda. Mia
sorella Virginia aveva appena quattordici anni, si trovava in cura nel
convalescenziario di Fara Sabina per una malattia polmonare. Anche a lei venne
negata la possibilità di essere curata perché ebrea. La portammo con noi anche
se sapevamo di non poterle fornire né le cure necessarie, né il minimo
sostentamento. Mio padre, aiutato da amici e antifascisti riusciva, sotto falso
nome, a lavorare saltuariamente alla Siette come tecnico
radiotelegrafista. Io – avevo otto anni – fui “assunto” come fattorino
in un negozio all’ingrosso di proprietà di un cattolico. In realtà non si può
dire che guadagnassi realmente il mio stipendio, ero troppo piccolo, e
certamente quest’assunzione era un modo per aiutare la mia famiglia che si
trovava nella più completa indigenza. Dopo tre mesi il mio datore di
“lavoro” venne convocato e minacciato nella sede del fascio romano di
Palazzo Braschi, poiché non poteva avere come dipendente il figlio di un
antifascista e per di più ebreo. Vivevamo alla giornata, subii l’arresto,
assieme a mia madre, mentre cercavamo di procurarci qualche cosa da mangiare.
Era difficile trovare anche il più piccolo lavoro che ci desse la possibilità
di curare mia sorella, le cui condizioni si andavano sempre più aggravando.
Aveva solo quindici anni quando perse la vita. Questo fu solo l’inizio. I
sette anni che seguirono quel triste giorno, videro un bambino trasformarsi
precocemente in adulto. Due motivazioni mi legano sentimentalmente ai ricordi di
quei giorni: la lotta resistenziale, sostenuta dalla mia famiglia contro il
fascismo nei primi decenni del secolo, fino ad arrivare al periodo più oscuro e
cruento durante la guerra e la lotta di Liberazione. Nel 1944, entrai a far
parte del “Fronte della Gioventù” antifascista di Eugenio Curiel. Con la
fine della guerra, non potei esimermi, come capitò a tutto il popolo ebraico,
di contare i familiari che non erano tornati dai campi di sterminio nazisti. Uno
dei princìpi fondamentali dei regimi totalitari è che il popolo segua ad occhi
chiusi ogni direttiva, sia dal punto di vista politico-economico, che dal punto
di vista culturale. Vi sono reggitori che agiscono non per giustizia ma solo per
il loro interesse personale, fatto di libidine di potere e cupidigia; oppure per
l’interesse della loro fazione politica. È condizione del totalitarismo
stesso che gli individui siano per gran parte privati della loro personalità.
Essi debbono servire lo Stato e, a questo fine, le singole personalità sono
plasmate e modellate. Non si vuole che i popoli abbiano più oltre a godere
della libertà, ma che tutti debbano essere indirizzati su un’unica linea,
dettata dal regime. Linea che gioverà soltanto ai dominatori. Ma per quanto i
nazifascisti facessero, non riuscirono ad appiattire la personalità degli
spiriti più liberi, che contrastando il regime, costituirono una tenace e viva
opposizione alla dittatura. Le torture, i campi di sterminio, le morti, non
servirono ad annientare la determinazione dei popoli che desideravano vivere con
dignità nella libertà. L’eliminazione massiccia dei prigionieri, dal 1933 al
1945, in tutti i campi di sterminio, secondo i calcoli degli alleati, indicava
la percentuale delle vittime in rapporto al numero totale dei detenuti; e alla
fine della seconda guerra mondiale tale percentuale si presentava come segue:
Dira-Mittebau 21,6%, Buchenwald 23,4%, Mauthausen-Gusen 36,6%, Dachau 41,3%,
Terezìn 42,7%, Sachsenhausen-Oranienbourg 50%, Gross Rosen 55%, Plasxzow 60%,
Bergen-Belsen 64%, Stutthof 70%, Lubin Majdanek 72%, Neuegamme 80%,
Auschwitz-Birkenau 88,8%, Lwow Janow 90%, Flossenbourg 90,1%, Belzec 100%,
Sobibor 100%, Treblinca II 100%, Chelme sur la mer 100%. Nei campi di sterminio
il nazismo uccise undici milioni di cittadini provenienti da trenta Paesi
europei, sei milioni di questi furono ebrei, e di questi sei milioni un terzo
era rappresentato da bambini inoffensivi e indifesi. La storia della guerra,
dell’occupazione nazista, della lotta di Liberazione, è una storia ancora
vicina, che è spesso oggetto di studi e discussioni, ma che può apparire
immensamente lontana a chi non ne abbia vissuto, in prima persona, le ansie, le
sofferenze, gli entusiasmi; in particolare le generazioni più giovani, che non
hanno avuto l’impulso o l’occasione di avvicinarsi a quei temi e a quelle
vicende, se non in modo frettoloso e distaccato. Non è stato concesso alle
nuove generazioni il tempo necessario per penetrare ed immedesimarsi negli
eventi della seconda guerra mondiale. Le pagine più drammatiche della lotta di
Liberazione, il sacrificio di tanti martiri coraggiosi, la persecuzione politica
e razziale, sono rivissute nella memoria, come nelle parole dei tanti
protagonisti degli eventi di quell’epoca, con uno spirito e un’immediatezza
che colpiscono e coinvolgono. La memoria sottratta all’irrigidimento della
vuota retorica è in grado di risvegliare ideali e suscitare emozioni ed entra
così a far parte di un patrimonio morale che ciascuno di noi dovrebbe tenere
caro. La memoria storica risulta essere quindi nelle mani delle future
generazioni ed in loro troveremo le vigili sentinelle che impediranno il
risollevarsi della bestia immonda che tende a distruggere l’umanità. Voglio
citare una parte del testamento che Yossl Rakover rivolge a Dio. Esso fu
ritrovato nelle rovine del Ghetto di Varsavia, tra cumuli di macerie ed ossa
umane, sigillato con cura in una bottiglia: «Credo nel Dio d’Israele, anche
se ha fatto di tutto perché non credessi in Lui. Credo nelle Sue leggi, anche
se non posso giustificare i Suoi atti. Il mio rapporto con Lui non è più
quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il Suo
Maestro. Chino la testa dinnanzi alla Sua grandezza, ma non bacerò la verga con
cui mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la Sua legge e continuerei ad
osservarla anche se perdessi la mia fiducia in Lui. Dio significa religione, ma
la Sua legge rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di
quel modello di vita, tanto più esso diventa immortale. Perciò concedimi, Dio,
prima di morire, ora che in me non vi è traccia di paura e la mia condizione è
di assoluta calma interiore e sicurezza di chiederti ragione per l’ultima
volta nella vita. Tu dici che abbiamo peccato? Di certo è così, che perciò
veniamo puniti, posso capire anche questo. Voglio però sapere da Te: esiste al
mondo una colpa che meriti un castigo come quello che ci è stato inflitto?».
(*)
Adolfo Perugia Presidente dell’Associazione Nazionale Miriam Novitch.
Patria
indipendente, 18 gennaio 2004