Patria indipendente
Pansa
Quando si maltratta la Storia
di
Lucio Cecchini
È
evidente che Giampaolo Pansa sa
quanto sia dura e difficile la ricerca storica. Infatti, nel suo ultimo libro, Il
sangue dei vinti, se ne
tiene lontano mille miglia, come se fosse fumo negli occhi. Pansa, nella
previsione piuttosto facile che gli storici gli avrebbero fatto le bucce, è
ricorso a un artificio che funziona dal punto di vista commerciale, ma che è
assolutamente di corto respiro quanto a rigore scientifico. Ha scelto la forma
del romanzo, vale a dire dell’opera di fantasia, giurando però nello stesso
tempo di avere fatto un lavoro rigoroso sulle fonti. In sostanza, senza
minimamente preoccuparsi – come è dovere dello storico – di dar conto della
attendibilità dei documenti che usa, chiede al lettore una sorta di atto di
fede, che non ci risulta avere mai avuto diritto di cittadinanza nella
storiografia. D’altra parte, non ci è mai capitato sotto mano un saggio
storico infarcito di incredibili piacevolezze, per lo più riferite alla
fantomatica Livia, interlocutrice immaginaria di Pansa e in realtà suo “alter
ego”, che viene così descritta: «Era una bella donna sui quarant’anni,
alta, più cicciosa che asciutta...». E, dato che era “cicciosa”, è
normale che l’interlocutore maschile, dopo averci informato che da ragazzino
sbirciava innocentemente «le caste mutandine bianche» delle ragazze di città,
ci faccia sapere che, giunto alla maturità, lascia errare – in maniera magari
un po’ meno innocente – lo sguardo sulle «gambe ben tornite, messe in
risalto da scarpe con il tacco alto», per proseguire: «Livia era vestita da
sabato mattina: pantalonacci, maglione, scarpe da ginnastica. Ma anche così le
sue forme s’intuivano tutte. Lei mi allungò una tazza di caffè e disse:
“Doveva passare in rassegna i libri, non me”». E davvero, se avesse
dedicato più attenzione ai libri, Pansa avrebbe ottenuto migliori risultati. A
questo punto chi non conosce il libro si chiederà cosa abbia a che fare tutto
questo con una ricerca nientemeno che su orrori verificatisi in Italia a
conclusione della seconda guerra mondiale e anche dopo la fine del conflitto.
Per la verità, ce lo chiediamo anche noi, e non abbiamo una risposta. Il fatto
è che Pansa, tra una piuttosto stucchevole allusione erotico-sentimentale e
l’altra, ci snocciola un grand guignol di fatti e misfatti da far
impallidire la più sanguinolenta letteratura horror, facendo ricorso, quasi
esclusivamente, come fonti, a opere di fascisti dichiarati pubblicate da case
editrici i cui nomi, da “Settimo Sigillo” a “L’ultima crociata” sono
di per sé tutto un programma. Eccone un esempio, a proposito di vicende
relative al Veneto: «... la mia fonte principale è la minuziosa inchiesta di
un ricercatore di destra, Antonio Serena, oggi deputato di Alleanza Nazionale,
autore de I giorni di Caino, pubblicato nel 1990 dalla Panda Edizioni. È
una fonte di parte? Certo, come tutte le fonti. Ma non per questo, nel caso di
Serena, meno credibile». Ebbene, si tratta nientemeno che del parlamentare di
cui recentemente Fini ha chiesto a gran voce l’espulsione da AN per aver
diffuso tra i colleghi il video che esalta le gesta di Priebke. Si può
immaginare con quanta serenità un personaggio del genere abbia potuto trattare
questioni riguardanti i partigiani. In tutta l’opera si respira un clima da
incubo. Vediamo, a puro titolo di esempio, come lo scrittore descrive la
situazione di Milano in quei giorni: «Di colpo, per le strade di Milano cominciò
a spirare un vento orrendo, un impasto di ferocia gratuita e di voglia di
vendetta spesso malriposta, perché indirizzata su persone che non meritavano
tutte la morte. Certo, questo era anche l’effetto di venti mesi
d’occupazione, segnati da fucilazioni, arresti, torture, deportazioni. [...]
Quel vento orrendo, alimentato dal sospetto nei confronti di tutto e di tutti,
poteva travolgere chiunque, persino i capi della Resistenza. Per un pelo non
accadde a uno dei dirigenti del PCI,
Pietro Secchia. Fermato da un
gruppo partigiano di Giustizia e Libertà, mostrò le sue carte con tanto di
timbri del CVL e del CLNAI. Ma non venne creduto. Secchia fu costretto a seguire
i giellisti al loro comando, in compagnia di Giovanni Pesce, il numero uno dei
Gap. Qui tutto fu chiarito, quando Pesce stava già per tirare fuori il mitra».
È una descrizione molto suggestiva e destinata a far presa sul lettore, anche
se presenta qualche aspetto sconcertante. I “cattivi” nel libro di Pansa
sono sempre i comunisti. Qui sembrerebbero cattivi anche i giellisti. Tuttavia,
poi si torna nell’ordine naturale delle cose, perché l’ipotetico sparatore
sarebbe stato il comunista Pesce. L’unico neo è che non è vero. Abbiamo
parlato il 27 novembre con Giovanni Pesce, il quale ha smentito con forza
l’episodio come è raccontato da Pansa, che evidentemente non ha avuto né
tempo né voglia di fare i necessari riscontri. Pesce ci ha detto che non c’è
stato assolutamente rischio di sparatorie e di ammazzamenti per nessuno e che
tutto si è risolto in modo per niente drammatico con una battuta di spirito di
questo tipo fatta da Secchia: «Ho
girato mezzo mondo da clandestino, mi hanno fermato proprio oggi che ho tutti i
documenti in regola». Lo stesso Pesce aveva raccontato del tutto correttamente,
molto prima di Pansa, il doloroso episodio in cui persero la vita Federico
Barbiano di Belgioioso e altri partigiani del Partito d’Azione, abbattuti da
partigiani della Pasubio. Il problema è che i primi, dopo aver ucciso alcuni
franchi tiratori fascisti che sparavano da una macchina in corsa, erano saliti
sulla stessa vettura alla cui ricerca erano state mobilitate numerose
formazioni, delle quali, quindi, erano diventati, con un’incredibile
imprudenza, bersaglio privilegiato. Nel delineare un certo clima non lo si può
isolare da un contesto particolarmente complesso, come fa continuamente Pansa. I
fatti di quei giorni non sono da mettere in relazione soltanto con i venti mesi
terribili di occupazione nazista e di lotta di Liberazione, ma anche con i
precedenti anni di guerra e con vent’anni di dittatura, che il nostro sembra
avere completamente dimenticato. Quella resa dei conti che non c’era stata il
25 luglio, alla caduta del regime fascista – a dimostrazione che
l’antifascismo non nutriva vocazioni di guerra civile, né spiriti di
sanguinaria vendetta – ci fu allora, ed era inevitabile che così fosse, dopo
che i fascisti, dileguatisi alla defenestrazione di Mussolini, erano ricomparsi
come complici e collaborazionisti delle truppe naziste. L’Istituto toscano di
Storia della Resistenza ha avviato una ricerca sulla repressione operata durante
il ventennio fascista. Solo per quella regione si arriva a cifre tra i 15 mila e
i 20 mila mettendo assieme i discriminati a vario titolo, carcere, confino,
schedatura come sovversivi, ecc.
Ora immaginiamo di estendere
l’indagine a tutto il Paese e ipotizziamo che le decine e forse centinaia di
migliaia di italiani che ne avevano motivo si fossero vendicati per essere stati
colpiti ingiustamente. A quali numeri si arriverebbe? Altro che quelli che
d’altra parte prima di Pansa gli storici avevano sostanzialmente attestato. A
questo proposito va anche detto che Pansa considera costantemente come innocenti
e immeritevoli di punizione i civili. Ma per aver rovinato la vita a qualcuno
sotto il regime fascista ed anche nel periodo di Salò non c’era bisogno della
divisa. Pensiamo soltanto a quello che sono riusciti a fare gli squadristi della
prima ora durante il ventennio. Sempre a proposito di Milano – ma la notazione
può riguardare un po’ tutto il contesto – lo stesso Pansa parla di «tantissimi
partigiani finti» che, nei giorni della vittoria, si univano a quelli veri.
Eppure, la “mattanza” è sempre e costantemente addebitata ai
“partigiani”, senza un minimo di approfondimento critico di una situazione
che presentava mille facce e mille aspetti. In Romagna, per citare una delle
aree più calde, ci sono sentenze della magistratura contro brigatisti di Salò
che, prima di ritirarsi, ne fecero davvero di tutti i colori, massacrando spesso
indiscriminatamente antifascisti e fascisti, magari con una perversa mescolanza
di odio politico e di interessi e vendette personali. Pansa non è minimamente
sfiorato da questo fenomeno e dall’incidenza che esso può avere avuto anche
con controvendette e regolamenti di conti nell’ambito degli stessi ambienti
fascisti. Ancora Pansa si diffonde sull’impiccagione e sull’esibizione del
cadavere di Giuseppe Solaro, federale di Torino, che definisce come un fascista
di sinistra, che credeva alla socializzazione e come una specie di puro, che non
aveva voluto fuggire e mettersi in salvo. Vediamo adesso cosa ne dice Gianni
Oliva, storico al quale lo stesso Pansa afferma di dare credito, ma che
probabilmente non
utilizza, magari a tutto vantaggio del neofascista di turno: «sua la firma
sotto i manifesti intimidatori della RSI, sua la responsabilità in molte
rappresaglie nelle fabbriche del capoluogo e nelle vallate della provincia, sua
l’organizzazione dell’ultima difesa nelle vie della città, con centinaia di
franchi tiratori asserragliati nelle case durante i primi giorni
dell’insurrezione. Il suo atteggiamento sprezzante e la sua durezza sono
penetrati a fondo nell’immaginario popolare torinese, così come è diventata
famosa una sua presunta frase: “per i partigiani non è necessario il piombo,
basta la corda”». La sua impiccagione, decisa dal CLN, e forma di esecuzione
piuttosto inconsueta, è quindi una sorta di contrappasso. Certo, «spettacolo
ributtante», come ha scritto Pansa, ma purtroppo non più di tanti altri di cui
si erano resi protagonisti i fascisti. Pansa ci fa sapere poi che “sembra”
(a chi? Come? Sulla base di cosa?) che il decreto del CLN sarebbe posteriore
all’esecuzione. E veniamo ad altre due vittime note: gli attori Osvaldo
Valenti e Luisa Ferida, dice Pansa, «accoppati all’alba del 30 aprile», «sulla
base di accuse mai provate». Osvaldo Valenti faceva parte di
quell’accozzaglia di sadici torturatori e criminali nota come “banda Koch”,
dal nome del suo capo, quel Pietro Koch che Silvio Bertoldi ha definito «il
peggiore criminale italiano dei venti mesi della Repubblica di Salò». Sulla
appartenenza di Valenti al reparto esistono testimonianze inoppugnabili,
raccolte soprattutto da Massimiliano Griner, altro storico da tenere presente.
Il fatto che Valenti negli interrogatori facesse in genere la parte del
“buono”, secondo un modulo in uso in tutte le strutture di investigazione,
non lo esime certo dal condividere le responsabilità dei suoi colleghi
torturatori. Può darsi che alla banda fosse estranea la Ferida, forse travolta
dal destino del marito, ma ci sono testimonianze secondo le quali anche lei
avrebbe svolto incarichi per conto del gruppo, oltre ad avere frequentato
costantemente i luoghi dove i delinquenti di Koch svolgevano la loro attività. Aver
taciuto tutto questo non è né revisionismo né tanto meno “completismo”,
secondo il nuovo termine coniato da Pansa per legittimare la sua performance. È
disinformazione bella e buona, e per di più volontaria, perché Pansa queste
cose le sa benissimo. Un discorso analogo si può fare per Francesco Colombo, di
cui il nostro dice in modo asettico che era comandante della “Muti”. Apriamo
poi una pagina di Pisanò (una volta tanto potremo utilizzarlo anche noi) e
leggiamo che la “Muti” «è composta in buona parte da avanzi di galera». E
riferiamoci ancora a Silvio Bertoldi: «I tedeschi si valgono della “Muti”
per le operazioni in cui non vogliono sporcarsi e nello stesso tempo,
affidandogliele, testimoniano il loro apprezzamento per quei mussoliniani
tetragoni che portano un basco nero con il teschio in latta nel mezzo della
fronte. Nell’agosto 1944, i martiri di piazzale Loreto cadono sotto il piombo
dei militi della “Muti”, i quali hanno avuto l’ordine dal comando tedesco
di fucilarli per punire un attentato contro un gruppo di soldati della Wehrmacht».
Va ricordato che l’attentato in questione non aveva causato vittime tra i
tedeschi e che le modalità dell’esecuzione e del seguito furono talmente
sconvolgenti da provocare le dimissioni del preside repubblichino della
provincia Piero Parini, che ne ha lasciato una testimonianza agghiacciante, a
suo tempo da noi pubblicata. È molto diffuso il vezzo di descrivere con dovizia
di particolari il secondo Piazzale Loreto, quello che riguardò Mussolini e
alcuni gerarchi e che fu senza dubbio uno spettacolo orrendo. Ma del primo
Piazzale Loreto, non meno orrendo, si tace o al massimo vi si fa un riferimento
fuggevole. Ora, un lettore che non conosca natura e vicende della “Muti” può
essere soltanto fuorviato da quanto scrive Pansa. Potremmo continuare a lungo
perché nel libro c’è infinita materia di smentita, rettifica e precisazione,
ma vogliamo occuparci del capitolo Codevigo, che coinvolge una delle più
eroiche formazioni partigiane, quella 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini”,
comandata dalla M.O. Arrigo Boldrini che, dopo aver partecipato alla liberazione
di Ravenna, continuò a combattere, aggregata all’VIII Armata britannica, fino
alla cessazione delle ostilità. La bandiera della 28ª è stata decorata di
Medaglia d’Argento, 11 suoi appartenenti hanno avuto altrettante Medaglie
d’Oro – 10 alla memoria – 35 sono stati insigniti di Medaglia d’Argento,
9 di Bronzo. 595 i caduti – 170 in combattimento, gli altri per rappresaglie
– 371 i feriti, 300 inviati nei campi di concentramento. Gli appartenenti alla
brigata erano quasi esclusivamente ravennati. Appartenevano cioè a una
provincia che nel periodo dell’occupazione nazifascista aveva subito 70
stragi, con 426 civili uccisi, comprese intere famiglie, come i Baffè, i
Foletti, gli Orsini. Pansa, nell’addebitare ai partigiani di “Bulow” una
serie di fatti di sangue – a suo giudizio immotivati – avvenuti a Codevigo,
dove era di stanza la 28ª, oltre a basarsi su un libro di Gianfranco Stella,
cita la testimonianza di un’anonima signora la quale confessa a un certo punto
che non era ancora nata all’epoca di quei fatti, dei quali aveva avuto
conoscenza dai racconti dei genitori. Se questa è una fonte...Va aggiunto che
nel primo dopoguerra, quando era in gran voga la “mattanza” giudiziaria
contro i partigiani, proprio per gli eventi di Codevigo erano stati arrestati
cinque partigiani, per l’esattezza il 5 febbraio 1949, quattro dei quali
appartenenti alla “Gordini”; il quinto era veneto. Ebbene, nel 1954,
Leonardo Aldini fu assolto per non aver commesso il fatto, Alieto Senni con la
stessa motivazione, Egidio Errani, Mario Casadio e il partigiano veneto furono
assolti per insufficienza di prove. Nel 1990 la procura di Padova aprì una
ulteriore inchiesta, archiviata il 24 aprile 1991 come «infondata». D’altra
parte, la “Gordini” operava agli ordini dell’VIII Armata inglese, e le era
stato assegnato questo compito specifico: «... proseguendo offensiva da
Pomposa, direttrice Padova, vostri reparti continuino operazioni finali di
rastrellamento fin nell’alto Veneto. Eliminate ultimi gruppi resistenza
fascisti, tedeschi». Si ricorderà che le direttive del Comitato di Liberazione
Nazionale dell’Alta Italia erano piuttosto draconiane: «Arrendersi o perire»
(19 aprile). E che – si badi alla data, a conferma evidente che ancora
c’erano resistenze sporadiche di reparti fascisti – il 26 aprile era stato
emanato un ordine ancora più radicale: «Tutti i fascisti devono fare atto di
resa alle Autorità del Comitato di Liberazione Nazionale e consegnare le armi.
Coloro che resisteranno saranno trattati come nemici della Patria e come tali
sterminati». È profondamente vero, e non bisogna mai dimenticarlo, quel che
diceva il generale Trabucchi e cioè che «le rivoluzioni non sono fatte con
lancio di fiori». Non sarà poi inutile rilevare che buona parte delle presunte
vittime di Codevigo appartenevano a quella formazione “Ettore Muti” che
abbiamo già incontrato e che lo stesso Pisanò considerava come si è visto.
Per concludere, non c’è nessuna prova che la responsabilità di quanto
accaduto sia degli uomini della 28ª, in esclusiva o in parte, visto che nella
zona c’erano diverse altre formazioni militari e partigiane. C’è ancora da
aggiungere in via generale che per i presunti reati a suo tempo commessi i
partigiani hanno pagato prezzi altissimi con incriminazioni e anni e anni di
carcerazione preventiva, mentre per i fascisti l’amnistia veniva applicata in
modo molto più largo. Lo hanno documentato giuristi al di sopra di ogni
sospetto come Achille Battaglia. E i partigiani non hanno neppure fruito di
quell’«armadio della vergogna» nel quale sono state insabbiate centinaia di
inchieste per stragi compiute non soltanto dai tedeschi ma anche dai loro
complici di Salò. Sulla repressione antipartigiana basterà citare qualche dato
molto parziale. A Modena, al luglio 1950, i partigiani arrestati o fermati erano
ben 5.144, la stragrande maggioranza dei quali sarebbe stata assolta. A Bologna,
gli arrestati erano 1.955, i denunciati 3.910, i processati 1.373, di cui più
della metà assolti, ma dopo aver scontato complessivamente 55 anni di carcere
preventivo. Prima di concludere questo articolo che è già troppo lungo,
abbiamo ancora due questioni da approfondire. La prima: Pansa ha costantemente
risposto in questo periodo a chi gli rimproverava di aver scritto un libro di
tal fatta proprio mentre nel Paese c’è il clima che c’è, dicendo che non
si è mai piegato nella sua vita a motivazioni di opportunità ed
infischiandosene del fatto che la sua opera potesse essere strumentalizzata ai
danni della Resistenza. Si è cioè autodefinito come quel cavaliere senza paura
che, vestito della sua corazza immacolata serve la “verità”, costi quel che
costi. Noi abbiamo discreta memoria e obiettiamo che non è sempre stato così.
Nel 1990, Otello Montanari, già parlamentare del PCI, fece un’uscita che destò
parecchio clamore con l’affermazione «Chi sa parli» rispetto a fatti
avvenuti a Reggio Emilia sui quali c’era ancora da far luce. Tra l’altro,
era bruciante la questione dell’uccisione di don Enrico Pessina, parroco di
Correggio, per la quale in modo poco convincente erano stati condannati a severe
pene detentive alcuni partigiani, tra i quali Germano Nicolini, già sindaco
della città. L’uscita di Montanari destò reazioni contrastanti, come era
inevitabile. Ma, mentre esponenti dell’antifascismo e della Resistenza come
Nilde Iotti, Antonello Trombadori, Piero Fassino, Maria Cervi ed altri
incoraggiarono ad andare avanti, proprio Pansa si schierò decisamente nel
fronte opposto, svillaneggiando in tutti i modi Montanari, che arrivò a
definire «fesso d’oro» e a dire che le sue rivelazioni avevano sollevato
un’«ondata di ipocrisia arrogante». Insomma, Pansa era del tutto
indifferente all’accertamento della verità, che poi emerse e portò alla
confessione del vero autore dell’omicidio e alla riabilitazione di Nicolini,
che aveva fatto qualcosa come 11 anni di carcere. No, l’unico problema era la
strumentalizzazione che se ne potesse fare a danno dei comunisti. Ma, stando a
quanto afferma Ferruccio Del Bue, Pansa scrisse un’altra cosa: «Il 25 aprile
non può essere concepito alla stregua di una barriera invalicabile, un’ora x
scoccata la quale tutto doveva rientrare nella piena legalità, come una sorta
di mezzanotte in cui tutte le cenerentole dovevano perdere non scarpette, ma
mitra, fucili, pistole e bombe a mano». Abbiamo l’impressione che oggi egli
abbia fatto propria questa concezione, naturalmente senza un minimo di umiltà
– figuriamoci – e magari di autocritica. Perché non c’è dubbio che o
sbagliava ieri, o sbaglia oggi, ma non può avere ragione nell’affermare una
cosa e il suo esatto contrario. Forse, per dirla con una sua espressione, non
sono soltanto i «coccodrilli» ad essere «proprio senza pudore». E vorremmo
capire con quale senso del pudore nel suo ultimo libro il nostro attacca i
dirigenti del PCI reggiano persino con scandalizzata enfasi: «lasciarono
condannare ad anni di galera dei compagni innocenti pur di tenere al riparo
quelli colpevoli». Nel Sangue dei vinti Pansa dice a un certo punto: «La
presidenza e la segreteria nazionale dell’Associazione partigiani mi hanno
spedito una letteraccia di rimprovero con ben sette firme». Ora, a parte che in
quelle sette firme, con due Medaglie d’Oro, c’è una parte tutt’altro che
trascurabile della Resistenza italiana, l’ANPI ha una antica tradizione di
civiltà e non scrive “letteracce”. Ma, perché i lettori possano giudicare
se la nostra lettera fosse in qualche misura offensiva, ne pubblichiamo il testo
nella pagina successiva.
*
* *
P.S.
Questo articolo era già stato scritto quando ci è capitato di visionare un
sito internet nel quale il sullodato on. Antonio Serena riesce a scrivere che
Boldrini, dopo l’aggregazione della sua Brigata all’VIII Armata inglese, «servendosi
della continua minaccia del ritiro dei suoi “partesan”, otterrà che questi
abbiano via libera nell’esecuzione di una lunga serie di eccidi ...».
Complimenti. L’immagine di un Boldrini che minaccia e ricatta con successo
nientemeno che il comando dell’VIII Armata britannica è veramente il massimo
che si potesse immaginare. Ma complimenti, soprattutto, a Pansa per
l’oculatezza e il rigore con cui ha scelto le sue fonti. Tra l’altro, non è
improbabile che lo stesso Pansa abbia mutuato acriticamente da Serena un’altra
notizia sbagliata, e cioè che la M.O. al valor militare sia stata concessa a
Boldrini dagli inglesi. L’ha concessa, invece, il governo italiano. Il
comandante dell’VIII Armata, Richard L. McCreery – fatto inconsueto e segno
di grande considerazione nei confronti di Boldrini – appuntò la decorazione
sul petto del comandante “Bulow”.
Egregio
dottor Pansa, ci lasci dire che non si sentiva davvero il bisogno di
dichiarazioni come quelle che Lei ha rilasciato il 13 novembre a La
Repubblica insieme a Marco Tarchi. Oltre a tutto, esse sono giunte nel
momento in cui Baget Bozzo esprime la volontà di Forza Italia di abolire il 25
aprile, in cui si propone l’elevazione di Anfuso sugli altari tra i Padri
Fondatori dell’Europa, si ripetono tentativi ricorrenti di cancellare dagli
statuti degli enti locali e di altre istituzioni ogni riferimento alla
Resistenza, si dedica – con la benedizione del governo – un busto ad Italo
Balbo, amministrazioni di centrodestra deliberano di intitolare strade e piazze
a personaggi del regime fascista e addirittura a Mussolini, autorevoli
personaggi della Lega marciano con i neonazisti e, per finire, avvengono
provocazioni come quella della devastazione del sacrario partigiano della
Benedicta. Per non dire di linee politiche e decisioni legislative che
stravolgono la Costituzione, che noi consideriamo la maggiore conquista
democratica e morale cui la Resistenza abbia contribuito. Vorremmo capire quale
senso abbia ridurre la lotta partigiana a pura ed esclusiva “guerra civile”
(i tedeschi sembrano scomparsi dal Suo orizzonte, probabilmente nel vederli
siamo rimasti vittime a suo tempo di un qualche miraggio, perché non
c’erano), con il risultato, che rischia di divenire consequenziale, di
metterne i protagonisti sullo stesso piano, qualunque sia stato il loro
comportamento. Invece i tedeschi c’erano, come c’erano – e Lei lo sa
benissimo – i collaborazionisti italiani. Nei confronti dei quali tutto si può
dire tranne che non si sia usata una accentuata clemenza, con un atteggiamento
che spesso non ha avuto, invece, riscontro verso i partigiani. Lo stesso Tarchi,
nel lamentare, come ex militante neofascista, discriminazioni a suo danno,
compie un clamoroso “autogol”, nel momento in cui ricorda che in dieci anni
è passato da ricercatore a ordinario all’università di Firenze. Molti
aspiranti docenti metterebbero con entusiasmo la firma per una carriera
universitaria così discriminata. Contro i tedeschi e quanti si sono schierati
con loro si è combattuta una guerra di liberazione che sicuramente ha avuto le
sue luci e le sue ombre – sulle quali la storiografia è stata tutt’altro
che reticente – ma che vedeva schierate da una parte persone impegnate a
battersi per la libertà e dall’altra persone legate alle dittature. I
discorsi sui cosiddetti “esiti della storia” e su una possibile “memoria
accettata”, che Lei auspica, non possono che partire dal riconoscimento di
questa premessa. Anche perché, dopo tutto quello che si è appreso sul
nazifascismo – che magari allora si poteva, almeno in parte, ignorare – e
dopo sessanta anni di democrazia, realizzata anche in virtù del contributo
della Resistenza, è veramente improponibile che vengano ripresentate certe
posizioni. Qualche anno fa la RAI ha realizzato una trasmissione radiofonica
intitolata “La voce dei vinti”, tutta costruita su interviste ad ex
combattenti di Salò. Ebbene, non c’è stato un solo momento di resipiscenza,
un minimo di autocritica e di riconoscimento che, oggettivamente, al di là
delle stesse motivazioni di ognuno, la scelta di stare dalla parte dei nazisti
poteva essere la scelta sbagliata. Si sono sentite soltanto affermazioni del
tipo di quella di Nino Colombari, il quale ha affermato testualmente: «… mi
arruolai nel primo reparto germanico che mi passò sotto il naso. Per fortuna,
io dico, e per mio grande onore, era un reparto di Waffen SS». O quella di quel
tenente che, di fronte a una commissione che lo doveva giudicare (e che lo lasciò
libero) disse che al di fuori della difesa dell’onore d’Italia come egli la
concepiva, «il resto è merda». I partigiani, per gli intervistati, o non
esistevano, o erano dei profittatori e traditori opportunisti, mentre gli unici
tutori dell’onore nazionale erano stati i combattenti di Salò. Quale
“memoria accettata” possiamo avere noi con chi continua a sostenere
posizioni di questo tipo e a proporci come giusta ed esemplare la decisione di
stare dalla parte dei nazisti? Ci dispiace molto che Lei inopinatamente appaia
disposto a pagare il prezzo della rinuncia a qualsiasi giudizio pur di
realizzare l’agognata “memoria accettata”. Noi non chiediamo abiure di
sorta né atti di contrizione. Senza dubbio nell’Italia di allora poteva
essere facile anche sbagliare. Ma continuare a sbagliare a distanza di 60 anni
è veramente insopportabile. Vorremmo invitarLa a riflettere su quanto, qualche
giorno dopo la sua intervista ha scritto un uomo di cultura dello spessore di
Claudio Magris, il quale, nel denunciare un clima di vergognosa rivalutazione
del fascismo, ha posto la necessità di tornare a posizioni di antifascismo
intransigente. A noi pare che Magris sia parecchio nel giusto e non vorremmo
trovarci, di qui a non molto tempo, nella posizione di essere noi partigiani a
chiedere scusa e magari perdono per aver fatto la Resistenza.
Con
i più cordiali saluti
Roma,
27 novembre 2002
Presidenza
e Segreteria Nazionale ANPI ARRIGO
BOLDRINI,
Presidente; TINO CASALI,
Vice Presidente Vicario; ALBERTO
CIPELLINI
e RAIMONDO
RICCI,
Vice Presidenti; GIULIO MAZZON,
Segretario Generale; MARISA
FERRO
e ROBERTO
VATTERONI,
Segretari Nazionali.
Patria
indipendente, 21 dicembre
2003