Patria indipendente
16
ottobre 1943
La
razzia degli ebrei romani
Dal
libro 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti (OET, Roma, 1945) traiamo un
brano sul rastrellamento operato dalle SS nel Ghetto di Roma
Pare
che il primo allarme l’abbia dato una donna di nome Letizia, che il vicinato
chiama Letizia l’Occhialona: una grossa ragazza attempata, tutta tumida di
tratti e di forme, con gli occhi fissi e i labbroni all’infuori, che le
immobilizzano sulla faccia un sorriso inerte e senza comunicativa. Dal quale
esce una voce assente, contrariata, estranea a ciò che dice. Verso le 5, costei
fu udita gridare: «Oh Dio, i mamonni!». “Mamonni”, in gergo giudio-romanesco, significa
gli sbirri, le guardie, la forza pubblica. Erano infatti i tedeschi che, col
loro passo pesante e cadenzato (conosciamo persone per cui questo passo è
rimasto il simbolo, lo spaventoso equivalente auditivo del terrore tedesco)
cominciavano a bloccare strade e case del Ghetto. Il proprietario di un piccolo
caffè del Portico di Ottavia – un “ariano” che, dalla posizione
privilegiata del suo locale, ha potuto assistere a tutto lo svolgersi delle
operazioni – era giunto poco prima da Testaccio, dove abita. Transitando per
Monte Savello e per il Portico, non aveva notato nulla di anormale. (Ci sarebbe
stato il tempo per salvarsi, dopo la sparatoria? o il quartiere era già
circondato?). Dice che i passi cadenzati, lui cominciò a sentirli verso le 5,30
(sulle ore non è stato possibile mettere d’accordo i testimoni: quel tempo di
sciagura deve essere stato terribilmente elastico, soggetto a valutazioni
soltanto psicologiche). Non aveva ancora aperto la bottega, stava mettendo sotto
pressione la macchina dell’espresso: socchiuse un battente e vide. Vide lungo
i marciapiedi due file di tedeschi:
a occhio e croce, forse un centinaio. Nel mezzo della via stavano gli
ufficiali, che disposero sentinelle armate a tutti i canti di strada. I radi
passanti si fermavano a guardare. I tedeschi non si interessavano di loro. Solo
più tardi cominciarono ad acciuffare chi portasse involti o valige, indizi di
tentata fuga. Noi seguiteremo a parlare del Ghetto, perché fu l’epicentro
della razzia. Ma in altri punti della città il lavoro si era iniziato parecchie
ore prima. Risulta, per esempio, che un avvocato, Sternberg Monteldi, da
Trieste, era stato preso fin dalle 23 della sera precedente all’Albergo
Vittoria, dove abitava con la moglie. Qui, cominciano gli interrogativi sui
criteri e sul modo come la razzia venne regolata. L’avvocato e la signora
erano muniti di passaporto svizzero, quindi non figuravano sui registri della
popolazione romana; non avevano fatto denunce razziali, quindi non risultavano
ebrei. Come giunsero i loro nomi alle SS? Quanto alla procedura, si sa che in
questo caso il fermo venne intimato in maniera durissima: i coniugi furono
costretti a vestirsi alla presenza dei militi, che tenevano le armi puntate su
di loro. Questo inizio anticipato avrebbe potuto gravemente pregiudicare i piani
tedeschi. Sarebbe bastato che la notizia se ne propalasse, come avvenne la
mattina successiva, che subito, non appena cominciata l’azione in grande,
corse tutta la città, permettendo ad amici e perfino a Commissari di P.S. di
avvertire parecchi interessati, quelli almeno a cui si poteva telefonare. Giunto
la sera prima, un simile allarme avrebbe svuotato una buona metà delle case
ebraiche. Invece l’arresto degli Sternberg, quantunque effettuato in un
albergo, rimase segreto, le chiacchiere dei camerieri e del portiere di notte
non bastarono a farlo trapelare, nemmeno gli uffici
di Polizia, a quanto si dice, ne
ebbero sentore; sicché la mattina dopo i tedeschi poterono operare
ordinatamente, secondo i piani prestabiliti e col più ampio successo. Entriamo
ora in una casa di via S. Ambrogio, nel Ghetto. Potremo seguire la razzia in
tutte le sue fasi. Verso le 5 (ora psicologica, ripetiamo) la signora Laurina S.
viene chiamata dalla strada. È una nipote che le grida: «Zia, zia, scendi! I
tedeschi portano via tutti!». Questa ragazza, qualche momento prima, uscendo di
casa in via della Reginella, aveva veduto portar via un’intera famiglia con
sei bambini, la maggiore dei quali di dieci anni. La signora S. si affaccia alla
finestra. Vede ai lati del portoncino due tedeschi, armati di moschetto (o di
mitra, non sa specificare). Qui si domanderà come abbia potuto la nipote
gridare così dalla via, e parole tanto esplicite, alla presenza di due tedeschi
(la via è angosciosamente stretta, un budello). Ripetiamo che i tedeschi, in
massima, non rastrellarono la gente per via: fuor di casa furono presi soltanto
quelli che, infelici, vollero farsi prendere. Né bisogna credere che la
tragedia si sia svolta in un’atmosfera di muta e trasecolata solennità: le
persone seguitavano a parlare tra di loro, a gridarsi degli avvisi, delle
raccomandazioni, come nella vita di tutti i giorni. La fatalità svolgeva il suo
lavoro sostanzioso, senza preoccuparsi del cerimoniale, senza badare alle inezie
di forma. Il dramma entrava nella vita, vi si mescolava con una spaventosa
naturalezza, che lì per lì non lasciava campo nemmeno allo stupore. Dapprima
la signora S. suppose, come tutti, che i tedeschi fossero venuti a portar via
gli uomini per il servizio del lavoro. Questa idea, sparsa probabilmente ad
arte, fu la rovina di molte famiglie, che non pensarono a mettere in salvo
vecchi, donne e bambini. Comunque, fidando nella presunta immunità delle donne,
la S. si rifà cuore, si veste alla meglio, prende carte annonarie e borsa della
spesa, poi scende per cercare di capire di che si tratti. Qualche giorno prima
è caduta, trascina una gamba ingessata. Giunta per via, si avvicina ai tedeschi
di sentinella, offre loro da fumare, quelli accettano. Dei due, l’uno poteva
avere un 25 anni, l’altro ne dimostrava una quarantina. Come in tutte le Mie
Prigioni c’è sempre un carceriere buono, così in questa razzia ci
saranno le SS di gran cuore: questi due, per esempio. La leggenda formatasi poi
nel Ghetto ha deciso che fossero due austriaci. «Portare via tutti ebrei...»,
risponde il più anziano alla donna. Costei si batte la palma
sull’ingessatura: «Ma io gamba rotta... Andare via con la mia famiglia...
ospedale...». «Ja, ja», annuisce l’austriaco, e con la mano le fa cenno di
svignarsela. Mentre aspetta la famiglia, la S. pensa di mettere a frutto la sua
amicizia coi due soldati per veder di salvare qualche vicino. Chiama anche lei
dalla strada: «Sterina! Sterina!». «Che c’è?», fa quella dalla finestra.
«Scappa, che prendono tutti!». «Un momento, vesto pupetto, e
vengo». Purtroppo vestire
lupetto le fu fatale: la signora Sterina fu presa con pupetto e con tutti i
suoi. Dalla Via del Portico di Ottavia giungono lamenti mischiati con grida. La
signora S. si affaccia all’angolo della Via S. Ambrogio col Portico. Com’è
vero che prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse
immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po’ sconnessa, le
famiglie rastrellate: una SS in testa e una in coda sorvegliano i piccoli
manipoli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti coi calci dei
mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i
gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni. [...] Verso l’alba
del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di
Roma-Tiburtina, dove li stivarono su carri bestiame, che per tutta la mattina
rimasero su un binario morto. Una ventina di tedeschi armati impedivano a
chiunque di avvicinarsi al convoglio. Alle ore 13,30 il treno fu dato in
consegna al macchinista Quirino Zazza. Costui apprese quasi subito che nei carri
bestiame «erano racchiusi – così si esprime una sua relazione – numerosi
borghesi promiscui per sesso e per età, che poi gli risultarono appartenere a
razza ebraica». Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per
raggiungere i suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più
probabilmente a Orte) incrociò il “treno piombato”, da cui uscivano voci di
purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso
di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò
alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare più
di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di
vita che ci sia giunto da loro. Nei pressi di Orte, il treno trovò un semaforo
chiuso e dovette fermarsi per una diecina di minuti. «A richiesta dei
viaggiatori invagonati» – è ancora il macchinista che parla – alcuni carri
furono sbloccati perché «chi ne avesse bisogno fosse andato per le funzioni
corporali». Si verificarono alcuni tentativi di fuga, subito repressi con una
nutrita sparatoria. A Chiusi, altra breve fermata, per scaricare il cadavere di
una vecchia, deceduta durante il viaggio. A Firenze il signor Zazza smonta,
senza essere riuscito a parlare con nessuno di coloro a cui aveva fatto
percorrere la prima tappa verso la deportazione. Cambiato il personale di
servizio, il treno proseguì per Bologna. Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né
la Svizzera, né altri Stati neutrali sono riusciti ad aver notizie dei
deportati. Si calcola che solo quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille,
ma, certamente la cifra è inferiore al vero, perché molte famiglie furono
portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, né parenti o
amici che ne potessero segnalare la scomparsa. In
data 23 ottobre – una settimana dopo la razzia – nel registro di Auschwitz
fu redatta questa annotazione: «Trasporto ebrei da Roma. Dopo la selezione 149
uomini registrati con i numeri 158451-158639 e 47 donne registrate con i numeri
66172-66218 sono stati ammessi nel campo di detenzione. Gli altri sono stati
gassati». Dei 1.022 razziati ne tornarono sedici, quindici uomini e una donna.
Nessuno dei circa duecento bambini.
REPUBBLICA
DI SALÒ:
(dai
giornali del 1° dicembre 1943)
È
stata poi diramata a tutti i capi delle Provincie per l’immediata esecuzione
la seguente
1)
tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazione appartengano,
residenti nel territorio nazionale, debbono essere inviati in appositi campi di
concentramento. Tutti i loro beni mobili e immobili, devono essere sottoposti ad
immediato sequestro in attesa di essere confiscati nell’interesse della
Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti
sinistrati dalle incursioni aeree nemiche;
2)
tutti coloro che nati da matrimonio misto, ebbero in applicazione delle leggi
razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana
debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia.
CIVILTÀ
DELLA RESISTENZA
I
tedeschi sono andati in giro per Roma tutta una notte ed un giorno per strappare
degli italiani ai loro focolari. I tedeschi vorrebbero convincerci che costoro
ci sono estranei, che sono d’un’altra razza; ma noi li sentiamo come carne
nostra e sangue nostro; con noi hanno sempre vissuto, lottato e sofferto. Non
solo gli uomini validi, ma vecchi, bimbi, donne, lattanti, tutti sono stati
stipati in carrettoni ed avviati così al loro destino. Non c’è cuore che non
frema al pensiero di quel destino. Ma i soldati che hanno eseguito un compito
così inumano con freddezza impassibile, senza un tremito, senza un lampo di
misericordia negli occhi, hanno pure le loro famiglie lontane: madri, mogli,
figli, sorelle; e si sentiranno pure essi struggere talvolta di nostalgia nel
riudire i canti della loro fanciullezza. Una disciplina di partito e di stato
che inaridisca e impietri il cuore a quel punto, che faccia tacere ogni voce di
umanità, che abbassi l’uomo ad automa, è un veleno che deve essere curato
col ferro e col fuoco. Non è più odio il nostro, è orrore. Finché l’Europa
non sarà liberata da quest’incubo, non vi sarà speranza di pace. Nessuno
pensa per ritorsione di dar domani la caccia alle donne e ai bambini tedeschi,
ma questi soldati nazisti, e i loro servi, spioni, sicari, fascisti, debbono
essere ammutoliti per sempre, seppelliti per sempre in questa stessa terra che
osano profanare con tanta vergogna.
(da
L’Italia Libera, organo del
Partito d’Azione, 17 ottobre 1943).
***
Qualcuno
aveva forse potuto sperare che i nazisti, non avrebbero osato infliggere a Roma
l’oltraggio dei pogrom; che si sarebbero contentati della rapina, già
perpetrata, dei 50 chili d’oro, pagati dalla comunità israelitica, sotto la
minaccia di un feroce ultimatum. Ma il pogrom è giunto puntualmente a
disingannare gli eterni illusi, quelli che
(Da
l’Unità, organo del
Partito Comunista Italiano, 26 ottobre 1943)
Patria
indipendente, 16 novembre
2003