Patria indipendente
Napoli
1943
Le “quattro giornate” del riscatto
di Guido D’Agostino
Le
Quattro Giornate di Napoli (28 settembre-1° ottobre) – settantasei ore di
guerriglia urbana e diffusa ma con “fuochi” localizzati strategicamente sul
territorio; alcune migliaia di cittadini tra coinvolti e partecipanti attivi,
con centinaia di morti e feriti; adesione e presenza di eterogenee fasce sociali
e generazionali, di civili e di militari, di uomini, donne, ragazzi –
rappresentano innanzitutto la risposta di un popolo alla fame, alla paura,
all’insicurezza, intollerabili ed inevitabili compagne di guerra, all’ondata
di terrore scatenata dai tedeschi con la collaborazione dei fascisti locali. Lo
scenario è quello di una città profondamente provata dall’insopportabile
flagello della guerra, che ha patito e patisce lo stillicidio dei bombardamenti
sempre più frequenti e devastanti e che ha via via consumato,
nell’inefficienza – pagata sempre sulla propria pelle – di ogni
apprestamento difensivo a tutela della popolazione civile, come nella
vanificazione, per corruzione e disorganizzazione, del sistema degli
approvvigionamenti alimentari, e dello stesso razionamento predisposto dalle
autorità, e a fronte dell’assoluta latitanza delle istituzioni, il definitivo
disancoraggio dal fascismo-stato e dal fascismo-partito, ma anche dalla rete di
governo locale. Una città, quindi, che sembra avere già avuto più di una
ragione e di una spinta ad auto-organizzarsi, a trovare ed esperire sue proprie,
peculiari quanto ambivalenti strategie di sopravvivenza e che all’indomani
dell’8 settembre si trova a fare i conti con un “peggio” persino superiore
a quanto fino a quel momento visto e vissuto. Lo spettacolo annichilente dei
tedeschi padroni in casa, e padroni brutali, risentiti e vendicativi, che
rastrellano il territorio, strada per strada, casa per casa, alla ricerca di
uomini validi, tenuti nascosti, da catturare e avviare in Germania, che
saccheggiano quello che ancora resta nei negozi e nelle abitazioni, che
impongono il coprifuoco e sparano addosso a chiunque senza esitazioni, che
intimano spostamenti coatti della popolazione e lo sgombero, per motivi di
sicurezza, di una ampia zona della costa e per 300 metri all’interno, che
minacciano in ogni caso di ridurre Napoli a un ammasso di “cenere e fango”,
prima di essere costretti a cedere il passo alle truppe angloamericane (gli
Alleati sbarcati in Sicilia e a Salerno, e in procinto di entrare in città),
costituisce l’ultima scintilla che appicca il “gran fuoco” della
decisione, della scelta, della rivolta. Alla fine, contro i proclami e i
manifesti del comandante Scholl, come quelli formalmente firmati ed emanati
dall’autorità prefettizia, su indicazione del “Comandante di Napoli”, le
barbare uccisioni eseguite in modi terribilmente ammonitori, i continui
attentati a beni e vite della più ristretta cerchia domestica; il “settembre
nero” che incombe ed atterrisce, la città insorge. Decide, così, di
decidere, di dire “basta”, ed esprimere pertanto quella volontà di uscire
dal fascismo e dal nazismo, che è poi l’essenza della Resistenza nazionale,
della scelta radicale che ne è alla base e la sostanzia. Eppure a Napoli, si
dirà che tutto ciò è espressione piuttosto di un vago antifascismo sociale,
più che politicamente meditato e vissuto, o che si è trattato di una pur
incisiva e vittoriosa manifestazione di furore, “moto tellurico”, dopo il
quale ogni cosa torna in definitiva come prima. Si tratta di valutazioni e
giudizi improponibili sotto il profilo scientifico-storiografico, come sotto
quello etico-politico, rispetto all’insorgenza di Napoli, prima grande città
e a concorrere con il suo
slancio patriottico all’anticipata uscita di scena dei tedeschi, e pertanto
città-simbolo della Resistenza italiana ed europea. E che le cose stiano
effettivamente così ce lo dicono sia i nessi profondi e imprescindibili che
collegano l’8 settembre, la Resistenza nazionale e le Quattro Giornate, sia i
fili, altrettanto corposi, radicati nella storia vicina e in quella più antica
della città, che attorno a quelle Giornate si annodano, facendone un punto di
arrivo e, insieme, di partenza. Vale la pena, al riguardo, per un verso, di
riprendere a ribadire le osservazioni di chi (A. Drago) riflettendo sulla
tragedia dell’8 settembre, sul trauma della scelta imposto dagli eventi, ha
sottolineato come tanti, allora, abbiano avuto la forza morale di prendere su
loro stessi tutta la responsabilità della propria vita, e così decidere una
nuova società ed un nuovo futuro. Sicché è a questo contesto di idee e di
riflessioni che va riportata la Resistenza, «nata da una novità sconvolgente
per la storia degli italiani; una decisione presa in coscienza da una parte
considerevole della popolazione, su problemi essenzialmente collettivi, vissuti
in un momento storico di grandi sbandamenti»; ed è per questo che è giusto
ancora che «la Resistenza italiana, come grande fenomeno storico è
essenzialmente cominciata a Napoli con un episodio estremamente chiaro, ancorché
stupefacente: così tanto da restare spesso incompreso dalla passata
storiografia della Resistenza». Insomma, le Quattro Giornate di Napoli, unica
sconfitta popolare subita dall’esercito tedesco nel mondo, come lotta e scelta
di pace, senza strategie politiche di vertici e con relativamente poche armi,
lotta di liberazione dal nazismo, popolare e creativa, ad opera della gente che
realizza al suo interno e dal basso una scelta drastica, irreversibile. Per
altro verso, ribadito che le Quattro Giornate rappresentano un momento
“critico” della storia contemporanea napoletana – critico in sé e in
quanto ha luogo nella città, spazio “critico” per eccellenza come quello in
cui si condensano e precipitano tensioni, fermenti, contrasti maturati in ambiti
spaziali e territoriali ben più ampi e dilatati – occorre altresì
approfondire le analisi ed i ragionamenti che investono il versante più
politico dell’insurrezione. Ed è qui che siamo messi nelle condizioni di
rintracciare i fili dell’antifascismo napoletano e meridionale, dalle tante
peculiari forme e sfaccettature, ma ben presente e attivo, anch’esso tra le
pieghe di una società molteplice e diversa tra i ranghi di una intellettualità
prestigiosa, così come tra quelli di una classe operaia, non distratta né
assente, e che nella clandestinità di un impegno politico pericoloso aveva
forgiato coscienze e strumenti di lotta. E non meno tra la gente “comune” di
una città dolente e risentita, avvelenata ed impaurita da una guerra micidiale
ed immane. Sotto tale profilo le Quattro Giornate raccolgono l’eredità
migliore dell’antifascismo napoletano e meridionale; in questo senso
rappresentano a giusto e riconosciuto titolo, l’indicazione forte, decisiva di
quella che avrebbe dovuta essere, e di fatto fu, la via di tutta l’Italia alla
liberazione ed alla libertà. Diventa così anche più chiaro il significato
storico e politico del “laboratorio” cui si fa riferimento per indicare la
specificità del contributo di Napoli e del Mezzogiorno alle vicende del Paese,
a partire appunto dal 1943, e per almeno il fondamentale quinquennio che giunge
al 1948. Perché ha in effetti ragione tutta quell’ampia parte di storiografia
politica e di cultura democratica militante che ha individuato con precisione, e
senza esitazioni, l’apporto meridionale alla Resistenza nazionale a partire da
Napoli, dalle scelta istintivamente giusta compiuta dalla città e dunque
dall’esperienza locale sostanziatasi (qui come altrove, in verità, e anche
fuori del territorio italiano, come a Cefalonia) nella “prima Resistenza” e
confluita nel comune processo verso la democrazia, la Repubblica, la
Costituzione. Insomma, un primo punto d’arrivo le nostre Quattro Giornate, e
al tempo stesso, un punto di partenza per quel che sarebbe venuto poi.
Concretamente, per Napoli, il “Regno del sud”, il protettorato
angloamericano, la dura fase dell’acculturazione tra le due culture e civiltà,
lontane e diverse, i nuovi incentivi e le rinnovate occasioni per “antichi
ritorni”, ma anche e soprattutto la suscettibilità a reinterpretare e
rivivere, in senso democratico e progressista, il passato e il futuro. Questo,
pure attraverso un presente difficile di luci e di ombre, di inquietudini a
stento placate, di vigorose esperienze politico-istituzionali quali i CNL,
incubatore di un nuovo ceto politico locale e nazionale, ma insieme di assai più
tiepida adesione alla Repubblica, di timida ripresa delle assemblee elettive.
Alla fine, però, è proprio in questo il significato più peculiare della
storia napoletana, e non solo contemporanea: nel sovrapporsi e intrecciarsi di
più strati, di più influenze, di più percorsi, a varia profondità e diversi
livelli di intensità e di durata. Con l’erompere dal di dentro, di periodi di
crisi ed emergenze, di momenti di straordinaria visibilità e coagulo, che solo
superficialmente possono apparire, ed essere considerati di conseguenza, quasi
esplosioni improvvise di energia incandescente e repressa. Al contrario, sono
segni e modalità dell’essere e del manifestarsi di una civiltà antica che
nei secoli ha sperimentato, tra “bisogno di protezione” e “istinto di
libertà”, rivolte di popolo senza capi, e di capi senza popolo, e sebbene più
di rado, corali azioni di rivendicazione collettiva, in un tornare alla
superficie prima di inabissarsi nuovamente nelle viscere del suo millenario
destino.
Patria
indipendente, 26 ottobre 2003