Patria indipendente

Poesia dell’indicibile: il lager nella letteratura

 

di Orsetta Innocenti

 

1. Premessa

Ha scritto il filosofo tedesco Adorno che «dopo Auschwitz non è più possibile fare poesia», a sottolineare il significato di cesura che l’aberrazione morale della Shoah rappresenta per la storia dell’umanità a tutti i livelli, etico, sociale, politico, ma anche, appunto, filosofico e letterario. A queste parole risponde un’affermazione di Primo Levi, superstite di Auschwitz, che sostiene viceversa proprio la necessità della parola, il dovere di raccontare, continuamente, l’Olocausto: «La mia esperienza è stata opposta, in quegli anni avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Quello di Levi è un vero e proprio imperativo categorico e morale, che sancisce il dovere del reduce alla testimonianza: l’esperienza del singolo deve porsi al servizio della memoria collettiva, per fare luce sulla cicatrice più significativa della società contemporanea. Ripercorrere la letteratura su Auschwitz significa allora accettare il paradosso racchiuso tra queste due espressioni: esaminare le diverse possibili forme di racconto dell’indicibile, portando con sé la consapevolezza, però, come dice Levi nei Sommersi e i salvati (l’ultima sua opera, punto di arrivo della sua riflessione sulla Shoah), che «La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, così come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte». Se le parole dei “sommersi” (di tutti coloro che non sono sopravissuti) resta disarticolata e senza voce, moltissimi (e diversissimi) sono i modi in cui, nell’arco ormai di più di cinquant’anni, testimoni e scrittori hanno provato a raccontare la Shoah: dalla testimonianza immediata della propria esperienza ai confini dello spazio e della storia, alla riflessione più distante, scritta dopo un certo numero di anni, fino all’invenzione romanzesca di chi (senza nessuna apparente motivazione biografica) decide ugualmente di confrontarsi con il tema chiave (e per molti versi fondativo) della società odierna.

2. Testimoniare l’indicibile

Una parte cospicua della letteratura sul lager fiorisce ovviamente negli anni (o addirittura mesi) immediatamente successivi alla guerra: è sempre Primo Levi a ricordare (in Se questo è un uomo) che le linee essenziali del suo libro furono concepite già in campo, dove proprio la possibilità di rivelare al mondo ciò che stava succedendo diventa una delle molle più importanti che tiene desta, al di là di tutto, la volontà di sopravvivere; in altri casi (per esempio quello del Diario di Gusen di Aldo Carpi) parte della memoria viene già scritta durante la prigionia, conservata, a rischio della vita, con mezzi di fortuna. Così, negli anni successivi al 1945, vengono pubblicate alcune delle più alte memorie, tra le quali, per esempio, Se questo è un uomo (1947), Uno psicologo nei Lager (1946) di Viktor Frankl, La specie umana (1947) di Robert Antelme, L’universo concentrazionario (1946) di David Rousset, forse la prima testimonianza in assoluto sulla realtà dei campi. Comune a tutte queste opere è innanzi tutto la consapevolezza della necessità di raccontare, una necessità fisica prima ancora che morale, per la volontà di trasmettere a chi non c’è stato brandelli di un’esperienza che va al di là dell’umana comprensione. Proprio per questo, alla descrizione minuta delle vicende del campo si affiancano riflessioni in tono più meditativo, che cercano di trovare un impossibile perché a quello che si è vissuto. L’urgenza della rivelazione cede quindi progressivamente il passo a un’esigenza più sottile e nello stesso tempo più difficile da placare: descrivere il lager implica progressivamente sempre più indagare le radici stesse dell’agire umano, per comprendere come Auschwitz sia stata possibile. Uno spazio molto ampio viene lasciato alla cronaca del sistematico e definitivo annullamento dell’individualità umana messo in atto nel campo (esemplari le pagine del capitolo Sul fondo di Primo Levi, o quelle sulla definitiva “nientificazione” di K. poco prima della morte in La specie umana), che viene presentata come una delle conseguenze più atrocemente negative della macchina della morte inventata dai tedeschi. I veri abitanti del lager, ricordano tutti i superstiti, sono proprio questi fantasmi semoventi, privi ormai della “scintilla divina”, chiamati, nel codice del campo (caratterizzato a sua volta da un multilinguismo babelico che rimanda a una città infernale), con il nome di “musulmani”: «La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro, i Musulmänner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini», leggiamo ancora in Se questo è un uomo. La capacità di creare dei “morti in vita” è infatti una delle caratteristiche intrinseche del lager, che si qualifica come uno straordinario esperimento biologico e sociale. Tanto è vero che, proprio partendo dalle testimonianze dei sopravvissuti e analizzando a fondo la categoria dei “musulmani”, il filosofo Giorgio Agamben in un saggio recente (dal titolo significativo Quel che resta di Auschwitz) ha potuto parlare del concetto di campo come modello bio-politico della società contemporanea, dove cioè la società umana ha sperimentato, in maniera paradossale ed estrema, la creazione di uno spazio eccezionale, di sospensione dei diritti, nel quale coloro che sono stati espulsi dalla società civile abitano nell’intervallo di tempo compreso tra la loro condanna a morte e la materiale esecuzione. Quello dei testimoni, è insomma come un ruolo allo stesso tempo scomodo e necessario, perché al dovere (fisico e) morale di raccontare la propria esperienza si sovrappone la difficoltà di accettare fino in fondo, una volta rientrati nel mondo, la propria identità di reduce. Non è un caso allora che molti testimoni tornino a riflettere (o si interroghino per la prima volta) sulla propria esperienza anche a molti anni dalla liberazione, con un processo di rielaborazione narrativa che accomuna, anche in questo caso, opere di scrittori apparentemente distanti.

3. Narrare e rielaborare: la creazione di un’identità

Se la necessità più impellente – una volta riconquistata un’insperata libertà e con essa una vita che all’interno del campo aveva perso ogni tradizionale valore – è quella di raccontare al mondo un’esperienza non condivisibile, il trascorrere del tempo determina un deciso mutamento nella natura delle opere sul lager. All’atteggiamento del testimone, che rivela a una comunità di ignari nuovi elementi sulla realtà che ha sperimentato di persona, si sostituisce pian piano quello del narratore; alla volontà di portare nuove prove, quella di costruirsi, attraverso una serie di racconti e di riflessioni sulla natura dell’offesa, una nuova identità. Cambia anche, di conseguenza, il rapporto tra narratore e lettore: il destinatario di queste opere, infatti, non è più un pubblico ignaro e ansioso di sapere, ma, al contrario, è composto da un insieme di persone informate e consapevoli, che implicitamente condivide lo stesso sistema di valori di chi parla. Ancora una volta, bisogna ricordare alcuni racconti sul campo di Levi (del Sistema periodico e della prima sezione della raccolta Lilìt): in essi, al tentativo di riflessione a distanza di tempo si affianca quello di creare le coordinate di un universo di volti conosciuti (i “salvati” del campo), spesso addirittura personaggi già comparsi in Se questo è un uomo, dei quali Levi provvede a narrare, ora, la fine della storia. La consapevolezza della necessità di una rielaborazione narrativa dell’esperienza vissuta traspare anche dal libro La scrittura o la vita (1994) di Jorge Semprun, che racconta il difficile cammino che lo ha portato infine ad accettare la via della scrittura come unico mezzo di espressione. Colpiscono di questo libro le riflessioni compiutamente estetiche, e soprattutto la teoria secondo cui solo la scrittura artistica (e quindi di invenzione) riesce, ben al di là della pura testimonianza veritiera, a ridare al lettore la sostanza dell’esperienza indicibile del campo: «Soltanto l’artificio di un racconto abilmente condotto riuscirà a trasmettere in parte la verità della testimonianza». Scritto a una grande distanza dalla liberazione è anche Uomini ad Auschwitz (1972) di Hermann Langbein, in cui l’autore (attivista della Resistenza all’interno del campo) offre una testimonianza della propria esperienza cercando di indagare le radici storiche e culturali che hanno reso possibile una simile aberrazione all’interno dello Stato tedesco. Del resto, fitta è la schiera di narratori che tornano a parlare della loro esperienza (o per la prima volta scelgono di renderla pubblica) dopo molti anni. Solo del 1970 è, per esempio, Un treno senza ritorno, di Charlotte Delbo, che racconta la sua storia di internata n. 31661 nel lager femminile di Auschwitz. Il libro (che riprende in forma più esplicitamente narrativa materiali contenuti in un altro suo testo, Le convoli du 24 janvier – del 1965 – dal giorno, appunto il 24/01/1943, della sua deportazione) si rivela particolarmente significativo sia per la peculiare prospettiva (quella di una donna, combattente nella Resistenza francese), sia per la capacità di ridestare nel lettore, anche a distanza di anni, tutta la vastissima gamma delle sensazioni al di là dell’umano che si possono provare solo «di fronte all’estremo» (dal titolo di un bellissimo saggio di Todorov sul tema dell’Olocausto). Di particolare intensità è anche la memoria di Elie Wiesel, La notte (1958) che riesce a descrivere con nitida fedeltà le esperienze di cui è stato testimone, arrivando a definire il se stesso di allora come l’immagine di un cadavere che non lo ha mai più abbandonato: «Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più». Sempre di Wiesel, scritto a quattro mani con Semprun, è invece Tacere è impossibile. Dialogo sull’Olocausto (1995), sull’unicità di ogni singola esperienza all’interno del campo. Alla prospettiva di Wiesel, basata sull’interpretazione di una nuova forma di fede, e su un atteggiamento solidale nei confronti dell’umanità che soffre, si contrappone la visione di Simon Wiesenthal, che, superstite di Auschwitz, ha dedicato l’intera vita alla ricerca e alla condanna di alcuni dei più turpi responsabili dei crimini nazisti (svolgendo per esempio indagini decisive per l’arresto di Eichmann). Proprio alla natura – e ai limiti – del perdono è dedicato il libro Il girasole. I limiti del perdono (1970), mentre più specificamente sul tema del campo è il romanzo Max e Helen (1981) che narra di una storia di amore contaminata (anche dopo la liberazione) dell’universo concentrazionario della Shoah. Una prospettiva romanzesca inoltre caratterizza sia Essere senza destino (1978) di Imre Kertész sia Anni di infanzia. Un bambino nei lager (1978) di Jona Oberski (dal romanzo è stato tratto il film di Roberto Faenza Jona che visse nella balena). In entrambi, infatti, l’esperienza del lager è raccontata dalla prospettiva straniata e straniante del protagonista ragazzino, che vive con una sorta di ingenua immediatezza le atroci vicende che gli cadono addosso, arrivando a comprendere davvero il significato dell’atroce esperienza che ha passato solo quando, come sempre grazie a un tiro di dadi del caso, si ritrova alla fine tra i “salvati”. Sceglie invece la strada della poesia Paul Celan, che rievoca l’esperienza indiretta del campo (mentre lui riesce a salvarsi, entrambi i genitori vengono catturati, e trovano la morte in lager) in molte sue poesie (tra le altre, la bellissima e incisiva Fuga di morte). Ed è bene ricordare che anche alcune delle più intense poesie della raccolta Ad ora incerta di Levi hanno per motivo conduttore proprio quello del lager (e della sua condizione di superstite). All’estremo opposto, troviamo invece l’adozione di un registro più meditativo e saggistico che ripercorre, sempre a distanza di anni, gli eventi vissuti. In questi casi, l’occhio dello studioso (o comunque dell’intellettuale) si affianca a quello del reduce nel riflettere sul significato, individuale e collettivo, dell’Olocausto. Si possono leggere in questo senso i due libri dello psicologo Bruno Bettelheim Sopravvivere (1952) e Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa (1960): il primo è una raccolta di saggi, che si concentra soprattutto sull’analisi della capacità di integrazione (e di relazione) con il mondo degli internati; nel secondo invece l’esperienza del campo viene indagata nella prospettiva più ampia dei suoi effetti sulla psicologia di massa (in entrambi i casi – è superfluo dirlo – le osservazioni si basano sulla diretta esperienza di Bettelheim). Dal punto di vista (autobiografico) di un Intellettuale ad Auschwitz (1966) muovono invece le riflessioni di Jean Améry, che rievoca con fredda lucidità “postuma” le condizioni di vita dell’intellettuale in lager, interrogandosi sul vantaggio (o svantaggio) della sua posizione. Addirittura, a conferma del senso di comunità condivisa che si forma tra i reduci-narratori di Auschwitz e i loro ascoltatori, il saggio di Améry diventa per Primo Levi il pretesto per aprire un dialogo (velato dalla distanza della morte, per suicidio, dello stesso Améry nel momento in cui Levi scrive, una circostanza che peraltro accomuna a posteriori i due scrittori) con il filosofo, discutendo in maniera serrata le sue argomentazioni. Un capitolo dell’ultimo libro di Levi dedicato al campo, I sommersi e i salvati (1986), in stile anche questo esplicitamente saggistico, si intitola infatti L’intellettuale ad Auschwitz, e si sofferma proprio sul saggio di Améry (giungendo anche a conclusioni diverse da quelle del suo “interlocutore”). E proprio I sommersi e i salvati si conferma uno dei libri più rigorosi e disperati. Nel suo libro infatti Levi ripercorre tutta la sua esperienza, di internato prima, poi di “salvato” e quindi (necessariamente) di reduce e testimone, con una logica pacata e stringente, che lo spinge alla fine a una conclusione paradossale (che non può non suonare come un’anteprima del suicidio, ad appena un anno di distanza): «I “salvati” del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. […] Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti. I migliori sono morti tutti». Il dubbio angoscioso e ricorrente è sempre lo stesso: la paura di essere vivo al posto di un altro, la consapevolezza di essere stato, in ogni caso, un privilegiato dal destino in un luogo in cui, paradossalmente, il fondo dell’abisso, l’annientamento integrale, corrisponde al massimo della moralità.

4. Il racconto di chi non c’è stato: invenzione e Shoah

Meritano infine di essere ricordate una serie di opere che, pur avendo per motivo dominante la Shoah, sono tutte accomunate da una, per così dire, non pertinenza biografica dei loro autori, nel senso che sul grande tema fondante della società contemporanea si cimentano anche, per la prima volta, coloro che non l’hanno vissuta direttamente, che non possono qualificarsi come reduci e/o testimoni. A titolo di esempio, possiamo ricordare innanzi tutto i moltissimi libri di riflessione che vanno dalla memoria (come il quasi omonimo volume, appunto Promemoria [1994] di Luigi Meneghello) al vero e proprio saggio. Ma forse ancora più significative sono proprio quelle opere che mescolano alla meditazione sulla Shoah un tentativo di invenzione romanzesca: è il caso, per esempio, di Campo del sangue (1997) di Eraldo Affinati, scritto sotto forma di un diario di viaggio che racconta il pellegrinaggio, sulle tracce della Shoah, da Venezia ad Auschwitz. Sulle orme, reali e metaforiche, dei tanti narratori-testimoni che lo hanno preceduto (il libro è intessuto di allusioni ai più noti libri di testimonianza sull’Olocausto), Affinati cerca di indagare i nuovi modi con i quali chi non l’ha vissuta direttamente può provarsi a ricordare la Shoah. Appartengono invece a un tentativo di rielaborazione più esplicitamente romanzesca tre libri recenti, nei quali il motivo centrale del campo viene proposto attraverso l’invenzione di un intreccio. In Vedi alla voce amore (1986) di David Grossmann, un bambino israeliano, nato dopo la Shoah, mette in scena una sua peculiare caccia alla “belva nazista”, di cui ha solo sentito parlare, e che immagina come una bestia feroce che potrà essere catturata e chiusa in trappola, per liberare per sempre i suoi genitori dall’incubo del suo ricordo. Attraverso una prospettiva paradossale, Grossmann mette in scena una delle questioni cruciali: la comunicazione possibile tra chi è nato prima e chi è nato dopo l’Olocausto, (e le diverse, reciproche, possibilità di narrazione dell’evento). In Austerlitz (2001) di Sebald invece la storia ruota intorno alla vicenda biografica di Jacques Austerlitz, personaggio misterioso e singolare, che – in una serie di incontri successivi con il narratore – ripercorre progressivamente a ritroso la sua storia, per arrivare a ritrovare le sue origini di ebreo, fuggito bambino dalla Germania nazista per scampare alla deportazione in lager. In La freccia del tempo (1991) di Martin Amis, infine, un particolare artificio stilistico (tutta la storia è raccontata con la successione temporale invertita, a ritroso nel tempo) permette ancora una volta di ricostruire la storia del protagonista, che scopre infine, con sommo orrore, di essere stato ad Auschwitz un medico addetto agli esperimenti sui prigionieri, fuggito, alla fine della guerra, negli Stati Uniti, dopo aver cambiato identità. In questo caso, la prospettiva straniata del racconto a cronologia invertita permette, paradossalmente, di sottolineare in maniera ancora più forte la simmetrica inversione della bussola morale, mettendo in scena il sovvertimento dei valori che sta alla base della logica del campo. Questi tre esempi (ai quali sarebbe possibile aggiungere, e continuano ad aggiungersi) molti altri, ci servono per sottolineare il cambiamento di prospettiva avvenuto nel panorama letterario, legato soprattutto a delle ragioni meramente biografiche: con la progressiva scomparsa degli ultimi testimoni diretti, si rende sempre più necessario trovare nuove strade per non dimenticare, per riflettere sull’evento-frattura della nostra società, in una parola, per continuare – secondo l’imperativo di Primo Levi – a tentare, nonostante tutto, la sfida paradossale della poesia dell’indicibile.

5. Una nota a margine

Oltre allo specifico motivo del campo, la letteratura si è occupata a lungo anche del più vasto tema dell’Olocausto, raccontando le moltissime storie della persecuzione. Può essere utile allora ricordare in breve alcune delle opere più significative, tenendo presente che anche in questo caso possono valere grosso modo, le diverse categorie (in base a narratori e modalità di racconto) illustrate in precedenza. Tra le testimonianze di chi ha subìto la persecuzione direttamente sulla propria pelle, dobbiamo ricordare ovviamente il Diario di Anna Frank (1947), una delle più alte voci in assoluto che hanno descritto la persecuzione nazista, cui possiamo aggiungere anche il Diario. 1941-1943 (1981) di Etty Hillesum, anche questo il resoconto delle persecuzioni in Olanda dal punto di vista di una ragazzina. Sempre da una prospettiva infantile, possiamo ricordare Un sacchetto di biglie (1973) di Joseph Joffo e Quando Hitler rubò il coniglio rosa (1945) di Judith Kerr, nei quali due ragazzi (rispettivamente, un francese e una tedesca) raccontano la loro vita in fuga a causa del nazismo. E di una fuga (e della forzata rinuncia alla propria identità tedesca) parla anche il breve e toccante romanzo di Fred Uhlman, L’amico ritrovato (1971). Numerosissime sono anche le testimonianze italiane: dal Giardino die Finzi Contini (1962) di Bassani (che racconta la consapevole e lenta fine di una delle famiglie ebree di Ferrara, in seguito all’entrata in vigore, nel 1938, delle leggi razziali), ai racconti (delle Storie ferraresi) Una lapide in via Mazzini e Una notte del ’43, che indagano nel concreto il dramma delle persecuzioni, all’asciutto e denso racconto 16 ottobre 1943 (1944) in cui Giacomo Debenedetti racconta la cronaca della retata nel ghetto di Roma. Assume invece i tratti di una ricostruzione storico-biografica La banalità del bene. (1991), il titolo è un rovesciamento di quello del celebre volume di Hannah Arendt sul processo del nazista Eichman: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) dedicato da Enrico Deaglio alla storia di Giorgio Perlasca, e al suo impegno in Ungheria per salvare dalla deportazione moltissimi ebrei. Ma l’elenco sarebbe ancora lungo e, idealmente, è destinato a non finire: perché continuare a parlare della Shoah – nelle sue diverse forme di traduzione letteraria, dalla testimonianza diretta alla più estrema interpretazione romanzesca – significa continuare a riflettere sulle ragioni che hanno determinato un’aberrazione della moralità umana, e diventa, soprattutto, un modo per tenere sempre desta l’attenzione, individuale e collettiva, secondo il lucido monito lasciato da Primo Levi: «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire».

 

Since then, at an uncertain hour,

Dopo di allora, ad ora incerta,

Quella pena ritorna,

E se non trova chi l’ascolti

Gli brucia in petto il cuore.

Rivede i visi dei suoi

[compagni

Lividi nella prima luce,

Grigi di polvere di cemento,

Indistinti per nebbia,

Tinti di morte nei sonni

[inquieti:

A notte menano le mascelle

Sotto la mora greve dei

[sogni

Masticando una rapa che

[non c’è.

«Indietro, via di qui, gente

[sommersa,

Andate. Non ho soppiantato

[nessuno,

Non ho usurpato il pane di

[nessuno,

Nessuno è morto in vece

[mia. Nessuno.

Ritornate alla vostra nebbia.

Non è mia colpa se vivo e

[respiro

E mangio e bevo e dormo e

[vesto panni».

Primo Levi, Il superstite (in Ad ora incerta)

Patria indipendente, 19 gennaio 2003

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