Patria indipendente
La barbarie e le ragioni dell’umanità: Il lager nel cinema
di Serena D’Arbela
La memoria della persecuzione e dell’Olocausto malgrado le profonde difficoltà di rappresentazione trova nel cinema italiano ed europeo non poche immagini intense e significative. Rivedendo alcuni di quei film anche con occhi nuovi ritroveremo la storia più oscura del Novecento. Sfogliando queste testimonianze cinematografiche dal nostro archivio di ricordi, ripensiamo a Charlie Chaplin, a Il grande dittatore uscito nel 1940 in clima di guerra. La persecuzione antisemita è già in atto. Il film affronta il tema dell’antisemitismo e del nazismo in chiave farsesca abbinando alla paranoia del potere assoluto di Hynkel (Hitler) e del suo partner provinciale Napaloni (Mussolini) le vicissitudini del suo sosia, il barbiere ebreo. Celebre ne è rimasta la sequenza del gioco del dittatore col mappamondo, ma i ritratti buffoneschi trovano il loro contrappunto nelle immagini di violenza. Il sonoro ha un ruolo particolare. I discorsi gutturali ed isterici del dittatore alle folle sono, sì, una caricatura, ma capace di evocare tutto il grottesco del progetto di distruzione e di morte che ha sconvolto l’Europa da cima a fondo. Ne ritroveremo l’eco in tutta la cinematografia dei lager nelle voci degli aguzzini delle SS che sbraitano e latrano smistando le file di prigionieri per le esecuzioni. È necessaria una premessa. I documenti visivi girati direttamente da operatori sovietici (tra questi un lungo filmato su Auschwitz girato dal cameraman Alexander Woronzow) e da quelli alleati dopo la liberazione dei lager restano la fonte più autentica e significativa, la testimonianza allo stato puro senza bisogno di commenti di tutta la portata dell’Olocausto. Lo sguardo folle dei prigionieri increduli della salvezza ormai incapaci di emozioni s’infigge per sempre nella mente dello spettatore come quello pietrificato dei cadaveri scheletriti. Come quella dei bambini che mostrano i numeri marchiati sulle braccia rinsecchite. O delle cavie umane martoriate dagli esperimenti dei medici nazisti. Sentiamo in noi una rivolta esprimibile solo con una domanda senza vera risposta “Perché?”. Se esiste una gerarchia dell’orrore il culmine è però raggiunto dalla visione finale riassuntiva degli scheletri ammonticchiati come legna e trascinati come mucchi di immondezza nelle fosse comuni. Questo compito fu imposto dai militari alleati – estrema beffa per i defunti – allo stesso personale tedesco dei campi, cioè ai carnefici. Apice dello strazio. Dobbiamo inoltre alla meticolosità degli operatori tedeschi la documentazione del quotidiano dei campi, degli esperimenti, delle torture, dell’eliminazione, dei forni crematori. Come anche della costruzione dei muri del ghetto di Varsavia, delle retate degli ebrei, della distruzione finale. I sostenitori della inesistenza dell’Olocausto li vadano a vedere e li studino bene! Tutte queste sequenze restarono negli archivi militari per anni, non furono mostrate al pubblico per ragioni politiche dai russi e dagli americani. Furono utilizzate solo in parte. Alcuni brani significativi apparvero nel film di Alain Resnais del 1956 Notte e nebbia rifiutato al festival di Cannes del ’56 per il suo contenuto scottante. Col commento vibrante di testi del poeta Jean Cayrol anch’egli passato per la prigionia nazista sfilano i luoghi della deportazione, gli oggetti, i reperti della sofferenza, dell’agonia e delle sue vittime. Un film sconvolgente e illuminante. Solo negli Anni ’90 apparve il materiale ripreso dagli Alleati nei campi di Bergen Belsen montato da Alfred Hitchcock in un documentario tra i più eloquenti, il più allucinante dei suoi film, pura immagine del crimine. Il lager con le sue superstiti larve e quelle da seppellire in fretta. Nel 1946 Ultima tappa della regista polacca Wanda Jakubowska mostra per la prima volta in un film-fiction ambientato a Birkenau scene delle nefandezze quotidiane nei campi di sterminio, ma la stessa regista fu testimone di ben altro come deportata a Ravensbrück e ad Auschwitz. Non poteva descrivere tutti gli orrori visti e vissuti, non le avrebbero creduto. Di questo film al femminile, sceneggiato insieme a Gerda Schneider anch’essa ex detenuta nei campi nazisti, è indimenticabile la sequenza delle prigioniere che barcollano esauste, costrette a stare in piedi per ore dopo l’atroce viaggio. Ricordiamo quel loro terribile ondeggiare come alberi al vento. Seguiamo con Martha, la protagonista, lo stupore paralizzante di fronte all’evolversi della crudeltà, il sadismo delle guardie, le torture dell’infermeria, la distruzione e degradazione della persona umana così ben descritta in seguito da Primo Levi. Ultima tappa è la prima testimonianza filmica di un inferno che si conclude nell’ultimo capitolo dei forni crematori. Racconto crudo e drammatico che illustra l’umiliazione, la barbarie, la perdita della solidarietà, della speranza. Ecco un film epico, di un altro regista polacco, Andrzej Wajda: Sansone (1961). Qui possiamo cogliere tutto lo scatenamento dell’odio punitivo verso la diversità razziale. La sua essenza è la reclusione nel ghetto di Varsavia in cui si dibatte il protagonista. Il regista ci mostra però anche il momento della rivolta e dell’eroismo. Per riassumere il dramma del ghetto Wajda riprende i tedeschi che vi alzano muri e steccati mentre una folla di persone con stelle gialle sul petto scompare gradualmente alla vista. Rivedremo sequenze del genere nel recente film di Roman Polanski Il pianista (2002). Tornando a Wajda, egli fa iniziare negli Anni ’30 la sua storia, quando il protagonista Jakub (l’attore francese Serge Merlin) viene preso di mira dagli antisemiti nell’università, insultato e malmenato. La conclusione drammatica di Sansone tra realtà e simbolo durante l’insurrezione di Varsavia ci mostra l’esplosione della tipografia provocata da Jakub che soccombe ma sopprime i nemici come Sansone i filistei, mentre una lunga panoramica svela i cadaveri dei soldati tedeschi coperti di macerie e di polvere. In questo film duro e significativo leggiamo profonde allusioni alla condizione degli ebrei nel mondo mitteleuropeo e in particolare in Polonia, il mondo dei pogrom così ben registrato nei racconti dello scrittore russo Maksim Gorki. A un altro tipo di eroismo appartiene il protagonista di Il dottor Korczak (1990) di Wajda il medico Henrik Goldsmitt rinchiuso nel ghetto di Varsavia che non abbandona gli orfani affidati alle sue cure e li accompagna nel triste viaggio per il campo di sterminio di Treblinka. Il film col suo scabro bianco e nero che storicizza il racconto ricreando la luce del tempo commuove per il suo contenuto umano esemplare. Kapò (1960) uno dei film più riusciti di Gillo Pontecorvo è anche tra i più rappresentativi delle contraddizioni dell’universo concentrazionario, del conflitto tra desiderio di sopravvivenza ed etica in una dimensione ove non esiste più identità, né morale. In questo film poetico e tragico gli elementi di fiction non turbano il messaggio essenziale sull’odissea dei campi, anzi ad una visione di oggi risultano, nel loro relativismo, anticipatori di una lettura problematica della storia. La protagonista quattordicenne, Edith, interpretata da Susan Strasberg è quasi una bambina. Arrestata con la famiglia ebrea e sbalzata d’improvviso da una vita normale al lager si trova faccia a faccia con il terrore di morire, giocandosi tutto, anche la dignità personale per l’elementare diritto alla vita. Il volto sensibile ed espressivo della Strasberg è il cardine visuale di questa vicenda che ha al centro la trasformazione di una indifesa adolescente in una cinica guardiana (kapò) agli ordini dei tedeschi. Nel montaggio sonoro, elemento guida del film, ritroveremo i rauchi comandi, la “regia” del campo che ne caratterizzano l’atmosfera. Urli delle SS hitleriane e fischietti delle guardiane, ordini punitivi amplificati dal megafono. Gli elementi ricorrenti dei prigionieri che scendono dai treni maltrattati e bastonati dalle SS e la separazione delle famiglie decretata con secchi ordini (A sinistra! A destra!) si alternano alle scene del lavoro forzato dei reclusi. Edith con l’aiuto di Sofia, una prigioniera “comune” e del medico addetto all’infermeria riesce a sfuggire alla camera a gas e a prendere il nome e il numero di una compagna deceduta. Spariti i genitori che vede allontanarsi in una fila di prigionieri ignudi destinati all’eliminazione, rimane sola e senza appigli. Trasferita in un campo di lavoro si prostituisce per timore della selezione, per la fame e il freddo e accetta l’incarico infame di kapò. È divenuta Nicole, ora è un’altra. Una giovane donna dallo sguardo duro e scettico, malvista e temuta dalle compagne. «Sto bene – dice a chi le contesta la sua scelta – ora mangio bene e dormo bene e non ho l’incubo della selezione. Non esiste altro». In queste parole è racchiusa proprio quella distruzione della personalità di cui parla, nei suoi libri, Primo Levi. Nicole è sola. L’arrivo di un gruppo di prigionieri russi destinati ai lavori di fortificazione per i tedeschi è un segnale di speranza nel campo. L’Armata Rossa è vicina e con essa il momento della liberazione. L’incontro di Nicole con Sascia un giovane russo (Laurent Terzieff) coraggioso, riaccende una luce nel cuore non del tutto inaridito della kapò. Una prova era il suo attaccamento al gatto nero. Avviene ora in lei un cambiamento, forse una speranza d’amore. Egli la convince a partecipare a un piano di rivolta. Dovrà togliere la corrente ad alta tensione che rende mortali i reticolati. Sascia ha giurato ai compagni di non avvertire la ragazza che subito suonerà l’allarme e quindi lei sarà uccisa. Non riesce però a mentirle e Nicole ripiomberà nel buio. «Allora non c’è niente di vero» dice. Non le resta che quella morte. Compie la sua missione. La rivediamo agonizzante. «Siamo stati fregati», sono le sue ultime amare parole prima di pronunciare la preghiera yiddish. Le rivolge a Karl un tedesco, il soldato che non pensa ed è solo ligio al dovere. Entrambi concime umano per la libertà. Nel mondo ebraico fuggire è ricorrente come conseguenza della persecuzione secolare, fino ad apparire come una condanna. Migrare, dissimularsi, cambiare nome, spostarsi senza tregua. Ne troviamo una metafora negli angosciosi ritmi gestuali di un film del 1965 del regista ceco Jan Nemecz che è un vero gioiello di concentrazione espressiva. In Diamanti nella notte due ragazzi ebrei fuggono da un trasporto nazista, sono braccati, affamati, sostano in una cascina e chiedono pane a una contadina che però li denuncia. La loro corsa affannosa nel bosco, inseguiti da un gruppo di vecchi della milizia del villaggio, si conclude con la cattura. Sono condotti non si sa dove sotto la minaccia dei fucili da caccia. Stanno accucciati in una vecchia osteria dove i vecchi miliziani festeggiano il bottino ubriacandosi. Passato, presente e futuro s’intrecciano nelle immagini come un incubo, il tempo diviene incerto, il temuto diviene reale, il finale è la morte che viene dalle armi puntate. La barca è piena di Markus Imhoff del 1980, un film molto bello e assente dalla distribuzione ufficiale, riprende con una storia emblematica il tema della fuga. È l’estate del 1942. I protagonisti perseguitati cercano rifugio clandestinamente in Svizzera. Sono esseri umani accomunati dalla sorte, un vecchio ebreo, Lazar Ostrowski, con la nipotina, la giovane Judith e il fratello Davide. Con loro un bambino rimasto solo, strappato ai genitori e un disertore della Wehrmacht. Tutti, come sballottati dal destino, subiscono alterne speranze e delusioni cercando protezione, nuove identità, per salvarsi dai nazisti a volte blanditi dalla popolazione rurale per essere sfruttati, depredati, a volte soggetti a delazione. Nessuno vuole rischiare per i perdenti. Quando accusano i fuggiaschi di menzogna per aver falsato i dati anagrafici, il vecchio Ostrowski commenta «Ma quello che ci è successo è tutto vero». Il film svela l’altro volto della Svizzera neutrale, ostile e spietato per chi non ha denaro in cambio della salvezza. Chiusura delle autorità verso i rifugiati e collaborazione con gli hitleriani. Egoismo e indifferenza dei paesani con i loro pregiudizi razziali e xenofobi tramandati dall’ignoranza. Questo è avvenuto. I protagonisti del film destinati all’estradizione sono l’immagine di tanti altri sfortunati. Marciano tristemente verso il ponte, superano il confine. I tedeschi sono lì ad attendere la preda. Solo il piccolo orfano si salva all’ultimo minuto. Il tema del salvarsi, del fuggire pervade anche il film di Roman Polanski Il pianista (2002) intrecciato nell’azione con il prodigio dell’arte, portatrice di dialogo e d’intesa al di là di ogni limite. Di quest’opera di valore che attraverso la figura del musicista rispecchia l’intero dramma di un popolo umiliato ed offeso, abbiamo già scritto di recente su queste pagine. La fuga è affrontata anche in chiave di humour, di quel particolare humour ebraico che mantiene però il suo contrappunto drammatico con la realtà. Anche questo è un modo di raccontare. L’ironia è una forza inesauribile contro tutte le odissee. Come in Train de vie (1999) dove Radu Mihaileanu, regista franco-rumeno (dialoghi italiani a cura di Moni Ovadia) sviluppa una storia onirica. Un treno simbolico e fantasioso trasporta un’intera comunità ashkenazita dell’est europeo, esposta al rischio dei rastrellamenti tedeschi verso una mèta di salvezza. È il matto del villaggio, figura magica, ad avere l’idea del convoglio che correrà in lungo e in largo per la regione fino ad arrivare in Ucraina oltre le linee di guerra e di là in Palestina, nella terra promessa. Tutti i membri dello shetl giovani e vecchi collaborano alla preparazione e assemblaggio del treno pezzo per pezzo. Durante questa fase si esibisce la proverbiale intelligenza ebraica e poi nel corso dell’azione si verificano scene spassose e si colgono citazioni che mettono in risalto la lotta tra vecchio e nuovo, tra settarismi e saggezza, si scalzano luoghi comuni, si ride dell’avarizia e si plaude all’altruismo. Una delle sequenze più indovinate è l’incontro inaspettato con un folto gruppo di rom anch’essi in fuga dalle minacce naziste e anch’essi travestiti in modo che gli uni risultano finti deportati e gli altri in divisa tedesca. Dopo la chiarificazione e alcune esitazioni, sanate le divergenze culinarie, i due gruppi, ebrei e zingari, fraternizzano nella comune sventura e nel comune culto della musica. Ne nascono solidarietà e collaborazione. È un auspicio di apertura e amicizia, di segno molto attuale e un’occasione per ricordare l’altra grande fascia di perseguitati dal nazismo, rimasta nell’ombra, cioè gli tzigani anch’essi vittime della discriminazione razziale. Mentre il treno sfreccia al di là di ogni ostacolo ed evita con giri viziosi i pericoli degli invasori, ci sfiorano le immagini di una realtà ben diversa, dei posti di blocco tedeschi, degli incendi dei villaggi, delle razzie, dei prigionieri irreggimentati. Invincibile il treno magico sembra puntato verso la libertà. Tutto sembra vero, verosimile, ma questa fuga giocosa è solo un sogno. Il sogno del matto che ritroviamo dietro il reticolato del lager, lo sguardo assorto, lontano. Accanto alla fuga c’è il ritorno. Quello della Passeggera di Andrzej Munk, (1963) un film che ricordiamo per la forza espressiva delle immagini. Sguardi, primi piani, dettagli. Il grande regista polacco scomparso nel ’61 in un incidente d’auto non poté ultimare l’opera, che fu montata in seguito dal suo collaboratore Witold Lesiewicz con aggiunta di una voce fuori campo e materiale di repertorio. È il tema del ricordo indelebile del passato. Durante un viaggio per mare verso il Canada, Liza confessa al marito di aver riconosciuto in una ragazza che si trova sulla stessa nave, una prigioniera ebrea che si trovava ad Auschwitz quando lei stessa aveva il ruolo di sorvegliante nel campo. È quasi certa che si tratti della stessa persona, Martha. L’incontro la fa riandare ad eventi che credeva dimenticati, alla crudeltà della vita nel lager, alle violenze e torture fisiche e morali. Sequenze filmiche crude, incisive, che si iscrivono nella memoria. Il film riesuma i sentimenti di attrazione e insieme di sadismo della guardiana verso la prigioniera e la dialettica tra le reazioni delle due donne, ambigua e contraddittoria la prima, esitante tra dovere e pietà, ferma e resistente la seconda. Il finale resta sospeso, rimanda alla coscienza di Liza, mentre le due donne si separano senza una risposta. Il ritorno è anche al centro del film toccante di Francesco Rosi La tregua (1997), dal romanzo omonimo di Primo Levi. È il ritorno dal «nulla pieno di morte» secondo la definizione dello scrittore. Dopo la liberazione dal lager l’odissea dei prigionieri non è finita. Ha inizio fra trasferimenti e campi di smistamento, verifiche, trasporti interrotti e deviazioni un viaggio senza fine. «Guerra è sempre», dirà il Greco, uno dei personaggi riusciti del film. Il regista si concentra su questo vagabondare dei deportati laceri, ammalati, rosi dalla nostalgia di casa, sperduti in percorsi tortuosi e sullo smarrimento del protagonista, Primo, giovane chimico ebreo (John Turturro) che impara quanto sia importante un paio di scarpe e constata che «Non è stato solo il pane ciò che i nazisti ci hanno tolto, ma l’anima». Rosi ci fa riandare agli eventi più spietati del Novecento per ricordarne le profonde lezioni. Anche nell’amaro film di Andrzej Wajda Paesaggio dopo la battaglia (Krajobraz po bitwie) del 1970, tratto da alcuni racconti di Tadeusz Borowski si sviluppava il concetto che nell’universo concentrazionario le distruzioni sono molto più profonde e ledono l’interno dei prigionieri. La violenza accomuna vittime e carnefici. Anche qui si vede che la prigionia non è finita. I deportati liberati nel film – mentre udiamo la musica di Vivaldi – seguiti dall’obbiettivo e riflessi in uno specchio d’improvviso fatto a pezzi, dovranno passare da un campo di transito all’altro, in nuove baracche, tra nuovi fili spinati e nuove crudeltà. La forza del ricordo dava l’avvio anche a L’amico ritrovato, un film misurato e affettuoso di Jerry Schatzberg del 1989 ispirato dal bel racconto omonimo di Fred Uhlman. Per Hans costretto a lasciare la Germania per salvarsi dalla tempesta antisemita, la memoria non si spegne. Dopo molti anni di vita americana, tornato nella città natale, viene a sapere che il suo più caro compagno di scuola Konradin, è stato giustiziato perché implicato nel fallito attentato a Hitler. La notizia inattesa è come una rivelazione. Dunque l’amico, di famiglia conservatrice, nobile e filohitleriana alla fine si è schierato contro il nazismo. Ne ricorda la lettera d’addio così entusiasta, certa della fine delle ostilità e fiduciosa nelle promesse propagandistiche del Führer. Con quanto dolore Hans ragazzo ebreo costretto ad emigrare aveva letto quelle righe! Nel film ora rivive la memoria di quell’amicizia così poetica e magica contrastata dalle differenze di classe e dal destino. Konradin usava tenere tutti a distanza con gentile superbia ma Hans lo conquistò con l’arma infallibile dell’intelligenza. È così che il giovane aristocratico impara a pensare e a dubitare. Ma intorno all’oasi di cultura dei due amici si infittiscono le manifestazioni di intolleranza sciovinista e antisemita delle camicie brune, aggressioni, provocazioni, risse. Il cancello della villa signorile di Konradin resta un confine invalicabile nel rapporto tra i due ragazzi, limite di classe, quasi il segno di una frontiera. Un giorno questi spiegherà all’amico perché non vuole presentarlo agli altezzosi familiari. Vuole evitargli il dispiacere dell’umiliazione. Hans soffre della sua inferiorità sociale e diversità. Il film dimostra che anche queste ferite inferte alla dignità fanno parte dei crimini razziali. La vicenda dei due ragazzi è anche un frammento rivelatore della storia europea, dimostra l’inconsapevolezza dei tedeschi di fronte al pericolo che incombeva sulla Germania degli anni ’30, la sottovalutazione dell’autoritarismo, la cecità di fronte alla ripida china dell’odio razziale e della violenza hitleriana che li avrebbe portati di lì a poco alla catastrofe. Anche Il Giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica (1970) tratto dal bel romanzo di Giorgio Bassani ci dà il ritratto di una famiglia benestante di ebrei travolta dalla persecuzione. I genitori sono ligi al fascismo e sicuri della protezione del regime, la figlia Micol è uno spirito libero, moderno, ansioso di vita. La loro esistenza brillante e privilegiata si spezza improvvisamente. Il film riesce ad esprimere la tristezza dell’isolamento, dei tradimenti, della sparizione delle persone care, il trauma della separazione insensata con tono crepuscolare e nostalgico benché il libro abbia tutt’altra intensità. Ma è Schindler’s list (1998), capolavoro di Steven Spielberg a darci una visione complessiva e incalzante dell’Olocausto degli ebrei polacchi. Benché la storia passata e presente contenga altrettanti iniqui genocidi, la descrizione del regista ne esplicita l’«agghiacciante singolarità». Il film fa perno sulla figura realmente esistita del tedesco dei Sudeti Oskar Schindler, personaggio pragmatico, industriale fortunato negli affari, né buono né cattivo, brillante e viveur che s’imbatte nel problema degli ebrei e alla fine con abilità non comune di corruttore si trasforma in un “giusto” salvatore di 1.100 di essi. Riuniti in una lista di presunti lavoratori per una fabbrica di Cracovia (list in yiddish significa truffa) li salva dalle camere a gas. Lungo tutto questo percorso, come ali sinistre del personaggio, scorrono le sequenze e i fotogrammi illuminanti del calvario ebraico. Dalla schedatura di uomini e donne – le macchine da scrivere ticchettano come mitragliatrici – alle stelle gialle imposte agli abitanti del ghetto, ai numeri marchiati sulla pelle dei prigionieri, spogliati di ogni avere, alle ciocche di capelli che cadono a mucchi, sforbiciate con rabbia. Ispirandosi a fonti documentarie l’obbiettivo riprende la fuga di alcuni nelle fogne per salvarsi, il rintanarsi di altri in nascondigli improvvisati nelle cantine, nei sottoscala. Le scene dei trasporti verso i lager, il tormento della sete, i deboli che non ce la fanno, vecchi, bambini eliminati senza pietà, i deportati stipati come carico bestiale nei vagoni. La velocità della persecuzione si accentua per arrivare al secondo tempo, agli internamenti. E poi nel lager la truce legge della sopravvivenza a cui è difficile opporsi, la perdita di sé, della volontà, la degradazione, la prostituzione, la resa alla viltà per un boccone di pane. L’esempio di Schindler – una goccia nel mare dell’iniquità – appare come un piccolo bagliore nell’inferno nazista. Negli Anni ’90 il messaggio si carica di un’amarezza e di un monito particolare pensando alle stragi solo in apparenza diverse che continuano ad infierire, ai morti che si accumulano, al Kosovo, all’Africa, all’Afghanistan. Quella dell’infanzia è un’altra angolazione della Memoria. Da essa parte Roberto Faenza nel film Jona che visse nella balena (1993), storia vera tratta dall’autobiografia di J. Oberski “Anni d’infanzia”. In sequenze avvincenti, prive di retorica ed enfasi vediamo con gli occhi di un bambino l’intero “viaggio della paura”. Siamo nel ’42 ad Amsterdam. Jona ha quattro anni. A otto, quando ha fine il suo calvario gli è stata strappata l’infanzia passo passo. Come una mela acerba sottratta alla logica della natura. Nel campo di Bergen Belsen l’ingenua ottica infantile si scontrerà coi fatti più spietati, l’umiliazione dei genitori, la separazione da loro, la fame, la frusta della kapò dallo sguardo cattivo, la morte del padre e quella imprevista, a liberazione avvenuta, della madre. Trascinato in un mondo di tragedie Jona lotta per la sopravvivenza accettando le leggi degli adulti e aggrappandosi alla forza della giovinezza. Per la Memoria Roberto Benigni sceglie la favola. Con La vita è bella (1998), l’indisciplinato, il trasgressore, il mimo scanzonato riesce nell’impresa magistrale di un equivalente espressivo, cioè a trasmetterci l’inesprimibile, il vissuto a cui invano tende il linguaggio. Ciò che Primo Levi chiamò con sintesi lapidaria: «È stato». Offrendoci la sua versione bizzarra della persecuzione prima e dell’inferno poi, quella del padre, Guido, fatta per il bambino, tramutando ciò che accade in dimensione fantastica, in gioco, ci mostra il valore protettivo della paternità. Ma l’orrore è sotto il cuscino. Tutti i momenti emblematici della vita del lager hanno una doppia lettura, quella per il piccolo Giosuè e quella per noi, con uno scambio tra il buffo e il tragico. Il film inchioda la razionalità criminale del nazismo come distruttrice insieme della fantasia e della vita. E dimostra con levità, in escalation, anche il congiungimento del razzismo mussoliniano da operetta, quello delle sequenze esilaranti nella scuola, al crimine serio che incombe nel lager. L’operetta gestuale e demagogica della prima parte del film si smaschera, il regime superficiale e irresponsabile non ha più alibi, svela la sua complicità con il progetto di sterminio hitleriano. L’accusa sulla realtà del lager si maschera e smaschera con l’ironia. Da un lato per convincere il bambino, dall’altro per accusare di più. «Il sapone? Diverremo sapone?» – dice il padre al figlio – ma è impossibile è troppo buffo non sta né in cielo né in terra. E poi: «Perché siamo sporchi, laceri, affamati? Perché dobbiamo guadagnare i punti del gioco e vincere!». Più cresce questo universo del non-possibile più cresce il dramma del vero, del disumano. Anche nella prima parte del film quando aveva inizio la persecuzione contro gli ebrei e apparivano le scritte infami sulla vetrina del suo negozio, Guido, uno come tanti, reagiva con una risata, non ci credeva. Nel lager quando il bambino sta per cedere, ormai incredulo, perché la vita sembra insopportabile, il padre continua: «Vuoi ritirarti proprio ora che abbiamo quasi vinto?». È tra questi due poli ironici del teatro e della realtà che la fortunata invenzione di Benigni raggiunge il bersaglio di comunicazione e poesia. La finta commedia cresce in tragedia e insieme in volontà di sopravvivere. Vediamo gli sgambetti del protagonista che sta andando alla morte e non vuole farlo capire al figlioletto. È una scena bellissima comica e triste. Lo spettatore sa che sarà ucciso. Nessuno è indenne dallo sterminio nazista, neppure un buffone, un poeta, un distratto, un sognatore. La liberazione invece è possibile, come la speranza. Ci crede poco ormai anche il bambino nascosto nel casotto del cane. Eppure obbedisce al padre, sta zitto e attende. E alla fine trionfa la fantasia, cioè la vita e sopraggiunge il carro armato dei liberatori, quello promesso e il bambino ha vinto. E c’è un’altra cosa molto profonda nel film di Benigni, l’universalità del messaggio. La Memoria dell’Olocausto si travasa nel mondo, si estende come esempio e monito alla memoria di ogni persecuzione di uomini e popoli, di ogni strage passata e futura, perché ovunque c’è un padre che vuole salvare il figlio dall’idea stessa della morte.
Patria indipendente, 19 gennaio 2003