Patria indipendente

Dolore e ironia dal profondo dell’inferno: il canto dei dannati del lager

 

di Marco Cecchini

 

Salvatore Quasimodo, in una delle sue più belle poesie d’argomento resistenziale, ebbe modo di scrivere:

«E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

tra i morti abbandonati nellepiazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocefisso al palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto

anche le nostre cetre eranoappese:

oscillavano lievi al triste vento».

Con queste strofe probabilmente si riferiva in primo luogo all’impossibilità per il poeta di celebrare con i suoi versi eventi tanto drammatici e sconvolgenti, ma forse una condizione di annichilito silenzio era indicata anche in riferimento alle vittime di tragedie di dimensioni inaudite. Eppure, anche se oppressi oltre ogni umana sopportazione, i deportati e i prigionieri dei ghetti e dei campi di concentramento fecero sentire il loro canto. Esso risuonò contro il nemico capace solo di repressione e di forza brutale; risuonò come canto di solidarietà e di conforto a chi era stato privato della sua libertà; si innalzò attraverso i muri grigi dell’intolleranza, canto di chi non volle arrendersi alla barbarie, non volle cedere alla rabbia cieca della brutalità, ma mostrò la sua umanità a chi aveva ormai perso ogni traccia di essa. Questa voce risuona ancora come monito per il mondo intero, è un canto fatto di dolore e di ironia, le ultime armi di cui i deportati non potevano essere privati. In realtà, essi non cantarono “sebbene” fossero oppressi oltre ogni limite, ma lo fecero proprio perché e in quanto oppressi. Nell’opera teatrale di Alina Kentof, “Dr. Yanush Korczak”, la scena d’apertura raffigura i bambini di un orfanotrofio del ghetto di Varsavia che si preparano per un concerto. Uno di loro esclama piangendo: «Non posso cantare, sono troppo affamato!», e Mrs Stepha, la loro badante, risponde: «Tutti lo siamo, è per questo che dobbiamo cantare». L’ironia, in particolare, è spesso presente nei testi delle canzoni create nei ghetti, ma anche in quelle che nacquero nei campi di concentramento. “Figli di mamma in KZ”, scritta da Alex Kulisiewitz e cantata nel lager di Sachsenhausen, nel ’42, è pervasa di un umorismo cinico e mordace che culmina nell’ultima immagine del figlio ritornato dal lager sotto forma di cenere, il quale «dall’urna, amorevolmente collocata nella stanza della sua Maniula, può ora contare e ricontare a piacimento gli amici liberi che ella riceve nel suo letto». Questa sconvolgente autoironia divenne una necessità ed uno strumento per scaricare l’odio del nemico e nei confronti del nemico, un catalizzatore per le espressioni di rabbia e di amarezza in una situazione in cui non erano possibili altri mezzi di lotta. Di tutte le canzoni che furono create nei ghetti, una in particolare va menzionata: è la “Canzone dei partigiani” di Hirsh Glik “Zog nit keynmol az du geyst dem letstn vet” (Non dire mai che stai percorrendo il sentiero finale), basato su una melodia dei fratelli russi Pokras. Essa divenne l’inno ufficiale della Resistenza di tutte le brigate partigiane dell’Est europeo, fu tradotta in molte lingue ed era ben conosciuta in tutti i lager nazisti. Purtroppo non ci è possibile riprodurne il testo perché non siamo riusciti a trovare una versione italiana comprensibile. Ogni campo di concentramento aveva la sua orchestra formata da musicisti prigionieri. Questi erano costretti a cantare e suonare mentre altri deportati marciavano verso le camere a gas. Il tasso di suicidio fra i musicisti era più alto rispetto a quello della maggior parte degli altri operai. Molti musicisti sono stati costretti ad assistere impotenti allo sterminio delle loro famiglie. Auschwitz ha avuto sei orchestre, di cui una è arrivata a comprendere fino a 100-120 componenti. Fania Fenelon ha descritto nel libro Ad Auschwitz c’era un’orchestra la sua esperienza in un complesso femminile dal gennaio del ’44 alla Liberazione. Essa dichiara che, anche se aveva i vestiti puliti e poteva lavarsi tutti i giorni, era costretta a suonare musica per ore, mentre i suoi occhi erano testimoni della marcia di migliaia di persone verso le camere a gas e i forni. Tra i musicisti che composero canzoni nei campi di concentramento ricordiamo Martin Rosenberg, che prima della guerra dirigeva un coro di operai in un sobborgo di Berlino. Nel 1939 fu arrestato come socialista ed ebreo e fu deportato nel campo di Sachsenhausen, dove formò un coro di 25 prigionieri ebrei che eseguivano i brani in segreto nelle caserme. Quando seppe che i deportati ebrei dovevano essere trasferiti ad Auschwitz, Rosenberg scrisse le parole di “Zehn Brüder”, il “Canto di morte ebraico”, cui adattò la musica di una vecchia canzone yiddish. Rosenberg morì insieme con i componenti del suo coro nelle camere a gas nel 1943. La sua composizione, però, è sopravvissuta grazie ad Alexander Kulisiewicz, che riuscì a sfuggire alla morte nei campi di concentramento. A lui Rosenberg chiese, se fosse sopravvissuto, di non dimenticare “Zehn Brüder” per far conoscere al mondo gli orrori dei campi nazisti. Kulisiewicz, fondatore del Museo di Sachsenhausen, è stato l’autore della musica del “Corale dal profondo dell’inferno”, composta nel 1942. Il testo è di Leonard Krasnodebski, giornalista e poeta progressista di Varsavia, infermiere presso il “lazzaretto” del lager di Sachsenhausen, dove riuscì a salvare molti prigionieri che erano stati scelti come cavie per gli esperimenti inumani del dr. Paul Schmitz, specialista in gas tossici. Su testimonianza diretta di Krasnodebski, sappiamo come nell’aprile del 1942 si medicassero le ferite di prigionieri sovietici ricucendole dopo averle contaminate con stracci infetti e fango, per sperimentare fenomeni di putrefazione artificiale, oppure come il “medico” del lager Baumkotter sparava personalmente ad alcuni prigionieri per testare proiettili avvelenati di nuova progettazione. Fu in queste tragiche condizioni che nacque il “Corale dal profondo dell’inferno”. Esso veniva cantato dai vecchi prigionieri dei blocchi 65, 44 e 67 sottovoce e in clandestinità, ripetendo in continuazione «Attention»: tutti i canti in lingua straniera destavano infatti sospetti nelle SS. Dei due «Attention» che sono presenti nel testo, il primo è un avvertimento ai cantanti per il possibile sopraggiungere delle SS, mentre il secondo è rivolto al mondo intero: «Qui ci sono degli uomini, creature umane sono queste!». Krasnodebski non riuscì mai ad ascoltare il suo “Corale”: nel 1943 fu trasferito per punizione al Klinkerwerk (fabbrica di mattoni), e nell’ottobre successivo si impiccò. Dal campo di Terezin giunge una storia tragica legata ad un’opera, “Brundibár”, tristemente conosciuta come l’«Opera dei bambini che vanno al gas». Composta da Hans Krása, anch’egli internato, e recitata esclusivamente dai bambini del lager, l’opera ebbe tanto successo che fu eseguita in un teatro nei pressi del campo e fu filmata in un documentario di propaganda nazista. Il personale della Croce Rossa Internazionale, presente all’esecuzione, rimase però negativamente impressionato dall’opera e dai suoi attori, ed il comandante del campo di Terezin decise di deportare l’intero cast insieme al resto della compagnia improvvisata ad Auschwitz; nessuno si salvò. Da un sito Internet dedicato a Krása traiamo questo commento che ci sembra interessante: «Il paradosso sta proprio in questo: l’unico luogo d’Europa in cui poté esprimersi la cultura ebraica durante la seconda guerra mondiale fu un campo di concentramento. Un meccanismo mostruoso e affascinante, che trascende la tragedia della persecuzione razziale. Ma chi volesse leggere questa pagina di microstoria solo come un capitolo dell’Olocausto può farlo con il linguaggio crudo dei numeri: tra il 1942 e il ’45 finirono a Terezin oltre 140 mila ebrei; di questi 86 mila furono poi deportati in campi di sterminio; mentre altri 33 mila morirono, per cause più o meno naturali, nella stessa cittadella». Anche il compositore francese Olivier Messiaen soggiornò come prigioniero di guerra nel campo di Terezin, dove scrisse il “Quartetto per la fine dei tempi”. La scelta dell’organico alquanto inusuale (piano, clarinetto, violino e violoncello), è stata dettata dal fatto che quelli erano gli unici strumenti disponibili nel campo di concentramento. In seguito, Messiaen dichiarò di non essere mai stato ascoltato con tanta attenzione come in quella occasione. “Moorsoldaten” (I soldati delle paludi) nacque nell’estate del 1933 come risposta alla “Notte dei lunghi coltelli”, che non fu soltanto la spietata resa dei conti tra le fazioni del movimento nazista, ma comprese il brutale assalto notturno da parte delle SS ad un gruppo di prigionieri del campo per antifascisti tedeschi di Orianenburg. Rudi Goguel, l’autore della musica, racconta come «in seguito a questo fatto, il comitato antifascista clandestino del campo decise di allestire una grande manifestazione culturale onde dimostrare alle SS la differenza tra la loro primitiva e selvaggia concezione della vita e quella dei loro avversari politici». La prima di “Moorsoldaten” ebbe luogo appunto nel corso di quella manifestazione culturale organizzata per rispondere al pogrom delle SS: manifestazione intitolata “Zirkus Konzentrazani”. «I sedici cantanti indossarono la loro divisa verde da poliziotto (le nostre uniformi di allora) e, vanga sulla spalla, marciarono cantando di fronte al pubblico dei prigionieri; ed io davanti a loro con una tuta blu e in mano – per dirigere – un manico di pala, rotto. Alla seconda strofa i 1.000 prigionieri presenti alla manifestazione cominciarono anche loro ad intonare il canto, alle successive si inserirono persino le SS». In base alla testimonianza di uno dei sedici coristi, l’ex deportato Fritz Hoffmann: «Dopo la manifestazione le SS discussero violentemente fra loro riguardo alla canzone; qualcuno proponeva di ufficializzarla, altri di proibirla in quanto dimostrazione di arroganza da parte dei prigionieri. Finirono per azzuffarsi e diversi fra loro – il mattino seguente – comparvero con la testa e le mani fasciate». Il deportato Erik Mirek, liberato nel 1934, riuscì ad emigrare in Cecoslovacchia, dove cantò “Moorsoldaten” ai compagni del “Rotes Sprachror”, un complesso artistico di Berlino rimasto bloccato a Praga a causa dell’avvento al potere di Hitler. Il canto venne così divulgato tra i rifugiati, ed il giornale clandestino Arbeiter-Illustrierten-Zeitung (AIZ) lo pubblicò nella versione originale per coro a 4 voci nel numero dell’8 marzo 1935. La versione italiana di “Moorsoldaten” si chiama “Il canto dei deportati”. La traduzione fu fatta nel campo femminile di Ravensbrück nel gennaio 1945. Il 6 aprile 1941, senza alcuna dichiarazione di guerra preventiva, 56 divisioni tedesche, italiane, ungheresi e bulgare iniziavano l’invasione della Jugoslavia. Il governatore militare della Serbia Harald Turner dichiarò: «Non bisogna dimenticare che ebrei e tzigani sono un elemento di insicurezza e di conseguenza sono un pericolo per l’ordine e la pace. È lo spirito ebraico che provocò questa guerra, quindi deve essere annientato. Lo tzigano non può, per il suo stesso carattere, essere utile alla società». Il tenente Walther del 433° reggimento constatò che era più facile uccidere gli ebrei che gli tzigani, perché i primi sapevano essere calmi davanti al plotone di esecuzione. In Serbia, per ogni tedesco ucciso dai partigiani si fucilavano cento ostaggi presi tra zingari ed ebrei. Per completare l’opera iniziata dalle fucilazioni, dalla fame e dalle epidemie, anche in Jugoslavia furono poi costruite le grandi “fabbriche della morte”. Alla persecuzione degli zingari è dedicata la composizione d’autore ignoto “Grande è l’angoscia degli Tzigani”. Ma anche al loro riscatto nella ribellione e nella Resistenza. Ecco la conclusione del canto: «All’arrivo dei partigiani gli Tzigani sono chiamati a battersi al loro fianco e a forgiare la libertà nella fratellanza. Questo è il passato. Oggi lo cantiamo. Ma deve restare eternamente impresso nelle memorie».

CANTO DI MORTE EBRAICO

Testo e musica (da una canzone Yiddish)

di Rosebery d’Arguto, pseudonimo di Martin Rosenberg

Eravamo dieci fratelli,

commerciavamo in vini…

uno è morto

siamo rimasti in nove…

Oj-oj!

Jidl col violino

Mojschie con il basso,

cantatemi ancora una canzonetta

dobbiamo morire nel gas!

Sono rimasto l’unico vivo dei fratelli,

con chi posso piangere?

Gli altri sono stati assassinati!

Pensate agli altri nove…

Oj-oj!

Jidl col violino,

Mojschie con il basso,

udite la mia ultima canzonetta:

anch’io devo morire nel gas!

Jidl col violino,

Mojschie con il basso,

udite la mia ultima canzonetta:

eravamo dieci fratelli

non avevamo fatto alcun male…

alcun male…

Li-laj

Tutti fatti fuori!

CORALE DAL PROFONDO DELL’INFERNO

Testo di Leonard Krasnodebski

Musica di Alex Kulisiewicz

Udite il nostro coro dal profondo dell’inferno!

Il nostro canto risuoni nelle orecchie dei nostri

[carnefici,

il nostro canto

dal profondo dell’inferno!

Ai nostri carnefici,

ai nostri carnefici

risuoni il canto,

ai nostri carnefici,

ai nostri carnefici.

Attention,

attention!

Qui degli uomini muoiono,

qui ci sono degli uomini, creature umane sono queste!…

FIGLI DI MAMMA IN KZ

Testo di Alex Kulisiewicz

sull’aria di una canzone popolare

Una mamma aveva tre figli:

due erano Volksdeutscher e rammollivano a casa,

il terzo, che era sano, crepò in un campo di

[concentramento.

Un giorno vennero a visitarlo

gli angeli della Gestapo,

che gentilmente lo riverirono

alla mascella sinistra.

Lo presero per mano

e insieme fecero un lungo viaggio

sul pullman fu gentile con loro,

non si stancò mai di lodarli.

Poi lo lavarono, certo che lo lavarono

e tutto rosso per il gelo

il ragazzo restò così:

nudo e pieno di stupore.

Poi gli diedero, certo che gli diedero

un numero e una camicia a strisce,

e un robusto calcio

affinché potesse lamentarsi con la sua mamma.

Ora poteva dirsi veramente felice e sazio

(picchiato sul viso e sul sedere)

della propria privilegiata condizione

di Häftling di un Kazet culturale.

Tornò, sì, un giorno dalla propria madre

– quieto e devoto –

per tramite delle Reichposten e sotto forma di cenere

in un’urna d’argento.

Dall’urna, amorevolmente collocata

nella stanza della sua Maniula,

può ora contare e ricontare a piacimento

gli amici liberi che ella riceve nel suo letto.

NOTE

Volksdeutscher sono gli allogeni tedeschi

Häfling significa “prigioniero”

Kazet è la pronuncia tedesca di KZ lager

(Konzentrationslager, campo di concentramento)

RIFKA E IL SABATO

Testo di Pesach Kaplan su un’aria popolare

Rifka, la «ragazza del sabato»,

lavora in fabbrica:

intreccia un filo ad un altro

sino a fare un cordone.

Nell’oscurità del ghetto

tutto ciò dura da molto tempo

e il cuore le si stringe dal dolore,

le si riempie di nostalgia.

Il suo fedele Herszele

non è più accanto a lei.

È da quel sabato che canta,

è da quell’ora.

È triste Rifka:

giorno e notte faticare

ed ora, al telaio

sta seduta e pensa:

«Dov’è, dov’è il mio bene?

Vive ancora o non è più?

Sarà forse in un lager?

Farà lavori pesanti, duri?

Come farà laggiù!

E che amarezza in me, qui!

È da quel sabato che canto,

è da quell’ora».

SUL SUOLO DESOLATO

(IL CANTO DEI DEPORTATI)

Fosco è il cielo sul lividore di paludi senza fin

Tutto intorno è già morto o muore per dar vita agli aguzzin

Sul suolo desolato con ritmo disperato zappiam!

Una rete spinosa serra il deserto in cui moriam

Non un fiore su questa terra, non un trillo in cielo udiam

Sul suolo desolato con ritmo disperato zappiam!

Suon di passi di spari e schianti, sentinelle notte e dì

Colpi, grida lamenti, pianti e la forca a chi fuggì!

Sul suolo desolato con ritmo disperato zappiam!

Pure un giorno la sospirata primavera tornerà

Libertà, libertà dorata nessun più ci toglierà.

Dai campi del dolore risorgerà l’amore doman!

GRANDE È L’ANGOSCIA DEGLI TZIGANI

Testo e musica di autore anonimo

Grande è l’angoscia degli Tzigani

Nessuno sa che cosa si prepara per loro

Nei campi di concentramento o nelle prigioni.

Il loro accampamento è rimasto malinconicamente vuoto

Il sette di aprile

Hitler manda un gran numero di aeroplani

A bombardare Belgrado, il fiume Sava.

E lo stesso giorno è dichiarata la guerra.

Alle quattro del mattino

Bussano alla porta di tutti gli Tzigani

Tutti sono portati via tristemente

E scaricati a Marinkovoj Barì

E da Barì li portano al centro di Banjica

Restano vuoti gli accampamenti delle tribù Tzigane

Gli assassini tedeschi fucilano gli Tzigani dieci alla volta

E i bambini sono portati nel forno crematorio.

Chi levava il capo era subito massacrato

Ci fu soltanto sofferenza fino all’arrivo dei giovani partigiani

All’arrivo dei partigiani gli Tzigani sono chiamati a

Battersi al loro fianco e a forgiare la libertà nella fratellanza

Questo è il passato. Oggi lo cantiamo

Ma deve restare eternamente impresso nelle memorie.

Patria indipendente, 19 gennaio 2003

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