Patria indipendente
In margine al «caso» Perlasca
di Lucio Cecchini
La vicenda di Giorgio Perlasca, portata finalmente a conoscenza del grande pubblico dallo sceneggiato di Alberto Negrìn che, tra l’altro, a noi è parso di ottima fattura, contiene una serie di lezioni e di ammonimenti in diverse direzioni. Il primo riguarda quanti, in buona o mala fede – ma il più delle volte decisamente in pessima fede – reagiscono con noia e fastidio alla rievocazione di certi fatti, tra cui l’«irritante questione delle camere a gas», come una giovane studiosa, Valentina Pisanty, ha intitolato la sua tesi di dottorato all’Università di Bologna. Fatti dei quali non si dovrebbe più parlare, perché possono ancora destare passioni e irritazioni e perché è ora di arrivare alla cosiddetta “pacificazione” tra tutti gli italiani. In fondo – argomentano ancora i sullodati signori, che qualche volta sono perfino storici di professione – la violenza, nella seconda guerra mondiale c’è stata da tutte le parti e una violenza vale l’altra. Ma è proprio così? Tra la violenza del persecutore e carnefice e quella del perseguitato è possibile stabilire una piena equivalenza e poi affidarsi al noto detto napoletano «chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato» e considerare chiusa la partita? Tra la violenza di chi voleva trasformare l’Europa in un immenso lager custodito da biondi nibelunghi (l’ironia della sorte vuole che Hitler, oltre a tutto, fosse scuro e sembrasse un meridionale) e quella di chi si opponeva a questa prospettiva e imbracciava le armi per contrastarla, non è davvero possibile stabilire una qualche distinzione? Se fosse vero e giusto quanto si tenta di sostenere verrebbe meno ogni possibilità di fare riferimento a scale di valori che, prima di appartenere a questa o quella ideologia – ma che sicuramente appartengono al pensiero democratico e antifascista – affondano le proprie radici nel sentimento di una umanità elementare. Su un terreno di questo tipo ogni elusione o evasione è improponibile e non è possibile non fare i conti con i sentimenti di umanità. La seconda lezione è rivolta ai cosiddetti “ragazzi di Salò” e ai fascisti in genere. Caduto il tentativo – abbastanza puerile e scoperto – di far passare Perlasca per un fascista a diciotto carati, noi crediamo che quanti sessant’anni fa hanno scelto quella che consideriamo la parte sbagliata, non possano evitare di porsi alcuni interrogativi. Lo sceneggiato messo in onda dalla televisione mostra largamente le imprese e le responsabilità, nella persecuzione degli ebrei, del governo ungherese delle “Croci frecciate”. Ma non si può ignorare né negare che questo governo, al di là del tasso di maggiore o minore ferocia su cui sarebbe comunque difficile e inutile stabilire improbabili graduatorie, è il corrispondente magiaro del governo della repubblica di Salò. O, invertendo il discorso, la repubblica di Salò è il governo italiano corrispondente a quello insediatosi, pure all’ombra delle armate tedesche, nel Paese danubiano. Se dunque – come emerge esplicitamente dalla vicenda Perlasca – quello delle “Croci frecciate” è un governo criminale, non sorge lo stesso problema per la repubblica di Salò che confermò, aggravandole, le leggi razziali del 1938 e i cui apparati politici e militari collaborarono con i tedeschi nella persecuzione contro gli ebrei? Giorgio Perlasca – lo ha confermato anche la vedova nella trasmissione “Il fatto” di Enzo Biagi – dopo la Spagna aveva abbandonato i precedenti entusiasmi fascisti. Tuttavia non divenne mai antifascista. Ma questa è una circostanza che aggrava la posizione dei fascisti. Conferma, infatti, che non c’era bisogno di essere antifascisti per opporsi a barbarie di quel tipo. Basti pensare a quanto fecero generali, ufficiali e soldati italiani nella Costa Azzurra, costituendo una sorta di “zona franca” e – dati i tempi – di isola felice per gli ebrei, non solo italiani, ma anche francesi, lì concentrati. Non sappiamo se quei generali, ufficiali e soldati fossero antifascisti, probabilmente non lo erano. Eppure non esitarono a sfidare le ire dei tedeschi e dei collaborazionisti di Vichy. L’episodio destò grande scalpore. Il ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop andò a Roma per sottoporre lo scandalo a Mussolini e chiedergli di rimuoverlo. Il “più grande statista del secolo”, o perlomeno tra i maggiori, non trovò di meglio che attribuire la responsabilità del malfatto alla «stupida concezione sentimentale» che avrebbe animato i generali italiani protagonisti della vicenda. Ebbene, tra quei militari che rifiutarono di sporcarsi le mani e chi si arruolò dalla parte di Mussolini e dei tedeschi, non c’è nessuna differenza? I cosiddetti “ragazzi di Salò” hanno un’età ormai più che matura, se non veneranda. È possibile che almeno oggi, quando hanno buona parte della vita alle spalle, di fronte all’esperienza di un Perlasca, non pongano a se stessi la domanda che forse, con una scelta diversa, anziché contribuire più o meno direttamente allo sterminio di un popolo, avrebbero potuto contribuire a salvare magari una vita, o mezza vita, o una frazione di vita? Su questo piano i casi sono due. O si invoca la giovane età a giustificazione di una scelta che in nessun modo può essere considerata giusta. E quindi si ammette di non aver capito niente di quello che stava succedendo in Italia e in Europa. Ma, in questo caso, è anche difficile sostenere, a distanza di decenni e dopo una lunga esperienza democratica, che a metà degli Anni Quaranta si fece la cosa giusta e pretendere che la stessa sia considerata come un esempio da imitare. Oppure si ammette di aver capito e saputo e si entra nel cono d’ombra delle “Croci frecciate”, vale a dire della criminalità pura e semplice. Non è lecito a nessuno continuare a eludere questioni di questa rilevanza in primo luogo sul piano morale. Nella trasmissione “La voce dei vinti” messa in onda da Radio-Rai qualche anno fa, abbiamo sentito persino qualcuno che esprimeva solidarietà verso i «poveri ebrei» e nel frattempo considerava il maggior vanto della propria vita aver fatto parte delle SS italiane. Di fronte al cinismo più assoluto o alla stupidità più assoluta diventa disperante riuscire a fare qualsiasi ragionamento dotato di un minimo di razionalità. I discorsi su chi si è arruolato a suo tempo nelle forze fasciste per «cercar la “bella morte”» sono immagini letterarie ispirate al peggiore dannunzianesimo o sciocchezze retoriche. Si partecipa a una guerra nel tentativo di vincerla. E se la guerra fosse stata vinta da Hitler e Mussolini, quale sarebbe stato il destino dell’Europa e del mondo? Allora, quando si ragiona sui cosiddetti “ragazzi di Salò” con intenti giustificatori si deve fare una distinzione chiara e netta tra l’ieri e l’oggi. Allora, in una situazione di difficoltà drammatica, venendo da un’educazione impartita dalla scuola del fascismo, con le attenuanti, spesso, della giovane età e dell’ignoranza, poteva essere difficile fare la scelta giusta. Ma oggi sappiamo tutto, oggi sappiamo di Perlasca e di quanto è riuscito a fare un uomo che di per sé non aveva potere, né grandi possibilità economiche. Oggi sappiamo la verità tremenda su persecuzioni e stermini di cui sarebbe difficile trovare analogie nella storia. Oggi tutto è possibile, tranne continuare a sostenere che schierarsi con Hitler e Mussolini era la cosa da fare. E qui vorremmo tornare alle considerazioni che facevamo all’inizio sui “pacificatori” che sono disturbati dalla parola “partigiano” e dalla rievocazione dei drammi della seconda guerra mondiale. Tra loro debbono essere annoverati quei consiglieri comunali che stanno tentando un po’ dappertutto di togliere dagli statuti ogni riferimento alla Resistenza, perché dà fastidio. Giorgio Perlasca – figura alla quale crediamo non possa non andare l’ammirazione di tutti – non ci ha lasciato detto di evitare ormai di parlare di certe cose per non urtare suscettibilità. Al contrario, ha affidato al giornalista Enrico Deaglio una specie di testamento spirituale con queste parole: «Vorrei che i giovani si interessassero a questa storia unicamente per pensare, oltre a quello che è successo, a quello che potrebbe succedere, e sapere opporsi eventualmente a violenze di questo genere». Ripetiamo, Perlasca non era antifascista, ma usava lo stesso nostro linguaggio e diceva cose che noi ci sforziamo di sostenere ogni giorno. Infine, la storia di Giorgio Perlasca contiene una lezione anche per la nostra televisione pubblica. Leggiamo che lo sceneggiato di Negrìn ha avuto qualcosa come 13 milioni di spettatori, un livello da partita di calcio della nazionale o da festival di Sanremo. Allora il pubblico degli utenti televisivi, ossia i cittadini italiani, è tutt’altro che disturbato da certi temi e sente evidentemente l’esigenza di sapere, di conoscere e non è interessato esclusivamente alle “soap opera” o alle trasmissioni cosiddette di “intrattenimento” che la televisione ci ammannisce quotidianamente. Sarà ora di prenderne atto e cominciare a regolarsi di conseguenza?
Patria
indipendente,
31 marzo 2002