Patria indipendente
16
ottobre 1943, attualità di una rievocazione
I nazisti rastrellano il ghetto di Roma
di
Massimo Rendina
In occasione del cinquantanovesimo anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma si sono svolti nella capitale – oltre alle cerimonie – convegni, rievocazioni, riflessioni in una diecina di istituti scolastici, nell’aula Giulio Cesare del Campidoglio, nell’Archivio Centrale dello Stato, nella sede dell’azienda dei trasporti urbani e in quella dell’ARCI. Sono stati affrontati in modo coordinato, secondo le indicazioni di un comitato presieduto da Alessandro Portelli, i vari temi che emergono dal contesto storico, rapportandoli agli avvenimenti che oggi turbano le coscienze di fronte al rinnovarsi di fenomeni di antisemitismo, di razzismo, di intolleranza etnica e religiosa. Il sedici ottobre 1943 cadeva di sabato, giornata festiva per gli israeliti, e proprio per questo il colonnello delle SS Theo Dannacker l’aveva scelta per rastrellare di quartiere in quartiere di casa in casa, gli ebrei romani. Dannacker era uno specialista in questo genere di operazioni. Aveva dato ottima prova in tutta l’Europa occupata dai nazisti ricevendo gli elogi di Eichmann e tre promozioni “sul campo” da Himmler. Quattro giorni prima lo stesso Himmler aveva avvertito il maggiore delle SS e capo della Gestapo nella capitale italiana Herbert Kappler (a pochi giorni dalla nomina a tenente colonnello) dell’arrivo da Berlino del massimo esperto nella cattura di ebrei, l’inventore della tecnica detta appunto “sorpresa del sabato” perché non essendo giornata di lavoro era più facile cogliere le vittime nelle abitazioni. Sarebbe giunto con un certo numero di aiutanti, ma Kappler avrebbe dovuto fornirgli da trecento a trecentocinquanta uomini e altri quindici in grado di parlare l’italiano. Gli interpreti furono scelti tra i carcerieri di via Tasso e altri che come loro appartenevano al reggimento SS Polizei Bozen, composto in gran parte da volontari altoatesini, lo stesso che avrebbe poi subito l’attacco partigiano di una compagnia in transito per via Rasella il 23 marzo. Erano dunque da poco scoccate le cinque del mattino quando 365 tra poliziotti, SS e soldati dell’esercito tedesco, bloccate le vie d’accesso della zona che va dall’odierna via delle Botteghe Oscure al Tevere, tagliati i fili delle linee telefoniche cominciarono la caccia. Con Dannacker c’era Kappler munito dell’elenco delle famiglie ebraiche datogli dal commissario della polizia italiana Gennaro Cappa. Entravano con violenza nelle case pronunciando a gran voce nomi e cognomi. Bisognava vestirsi in fretta e, secondo un foglietto scritto a macchina in italiano, munirsi di una scorta di viveri bastanti per un viaggio di una diecina di giorni. Non era possibile fare eccezioni: donne, uomini, vecchi, bambini pure in tenera età. Anche i malati dovevano raggiungere il Portico d’Ottavia, luogo di raduno per essere poi trasportati con gli autocarri al Collegio Militare, il palazzo Salviati, nei pressi del carcere di Regina Coeli. Il rastrellamento del Ghetto si protrasse sino a mezzogiorno per proseguire nel pomeriggio e nella notte negli altri quartieri. Dannacker e Kappler compilarono le liste di coloro che dovevano essere tradotti nei lager. Erano riusciti ad impadronirsi di 363 uomini, 689 donne, 207 bambini, in tutto 1.259 persone, ma 237 di loro non erano ebrei di nascita o erano figli di matrimoni misti. Vennero rimessi in libertà. Il 18 ottobre lasciarono così la loro città, dalla stazione Tiburtina, caricati su una ventina di carri bestiame, 1.022 deportati (188 avevano più di sessant’anni, 244 meno di quattordici), destinazione Auschwitz-Birkenau. Un altro migliaio di ebrei romani sarebbe finito nelle mani delle SS nel periodo successivo, sino all’arrivo degli Alleati, il 4 giugno 1944. Dei rastrellati il 16 ottobre 1943, giunti nel lager il 23 ottobre in condizioni pietose, per molti disperate, 824 furono subito uccisi nelle camere a gas. Altri morirono di stenti, finiti a bastonate o soppressi anche loro con le esalazioni venefiche. Dei rastrellati nel Ghetto romano rientrarono in Italia alla fine della guerra, 13 uomini e una sola donna. Non si salvò neppure un bambino. Delle successive deportazioni una settantina di larve umane. Complessivamente più di 8.000 italiani furono sterminati perché ebrei (75 ebrei romani con un colpo alla nuca alle Ardeatine). Quelli che riuscirono a sfuggire alle retate e alle delazioni delle spie (la taglia oscillava tra le 5 e le 10 mila lire, cifra allora considerevole) lo debbono alla fortuna, alla loro abilità nel mimetizzarsi, alla solidarietà di gente anche umile che si toglieva il pane di bocca per sfamarli e rischiava la vita per nasconderli, e soprattutto a preti e suore di conventi e case religiose la cui centrale organizzativa, per Roma, era in Vaticano con a capo mons. Ronca e a un giovane prelato, Palazzini. Se l’emarginazione, l’umiliazione, la persecuzione degli israeliti erano cominciate in Italia nel 1938 con le leggi “per la difesa della razza” – senza arrivare alla soppressione fisica mentre questa era in atto nella Germania nazista e poi, a partire dall’aggressione della Polonia, 1° novembre 1939, in tutti i Paesi occupati, – dopo l’8 settembre 1943 diventarono, con la Repubblica di Salò, spietata caccia all’ebreo, per disposizione governativa. L’ebreo dichiarato (4 novembre 1943) “straniero nemico” da Mussolini, doveva essere depredato di ogni avere, arrestato, consegnato all’alleato germanico il quale l’avrebbe ridotto in schiavitù, costretto al lavoro forzato e se inadatto o a seconda dell’arbitrio dei carcerieri, soppresso. Claudio Pavone ha ripercorso questo itinerario nel convegno al liceo Visconti affermando che non fu per compiacenza verso Hitler che l’Italia divenne razzista, ma per decisione del tutto autonoma di Mussolini durante la guerra d’Etiopia, nel 1936, quando promulgò severe disposizioni per impedire l’unione (e ogni rapporto fisico) degli italiani, militari e civili, con le donne abissine. Norme estese in Eritrea per evitare la “piaga del meticciato”, e anche in Libia. Fu l’inizio di un processo corredato da ricerche pseudo scientifiche e storiche per esaltare una inesistente “razza italica” e salvaguardarne la “purezza”. Di là si sviluppò l’antisemitismo che divenne feroce e spietato con il collaborazionismo della Repubblica Sociale. Con Pavone ha preso la parola anche Piero Terracina che ha ripercorso momento per momento la storia della sua cattura per una delazione di una spia prezzolata, del calvario subito ad Auschwitz dove tutta la sua famiglia (padre, madre, fratelli, zii, otto persone) venne eliminata. Aveva 15 anni. Deve alla sua forte fibra se sopravvisse. Terracina e Pavone hanno affrontato il problema sollevato anche da Hannah Arendt in un saggio, diventato celebre, sulla “normalità del male”, resa possibile, questa “normalità”, da ideologie che possono trasformare in spietati aguzzini persone che conducono, anche contemporaneamente all’attività criminale e disumana, una vita esemplare, da “buoni padri di famiglia”. Non solo la “normalità del male” può diventare accettazione comune (sub cultura potremmo dire), degli orrori ma anche trasformarsi nel “dovere” di commetterli o per giustificarli in nome di supposti “ideali superiori”. Sono considerazioni che inducono a sfatare anche il mito, ha detto Pavone, degli “italiani brava gente”. Troppo facile attribuire al nazismo (e anche al fascismo, con maggiori attenuanti), o solo al “comportamento dei tedeschi” le colpe di quanto avvenne di mostruoso nel Novecento europeo, alibi per una autoassoluzione generale mentre, anche a proposito delle leggi razziali, non vi fu che scarsa reazione da parte del popolo italiano, nel suo complesso, anche se si contano numerosi gesti individuali dettati dalla pietà. Questa della responsabilità storica (riferita al Novecento e soprattutto alla Seconda Guerra Mondiale) è questione aperta, resa soprattutto ambigua, aggiungiamo noi, dalle varie iniziative inerenti alla “pacificazione” in nome della quale si vorrebbe dividere equamente i riconoscimenti patriottici tra chi affiancava i nazisti che avevano invaso il nostro Paese e chi, i partigiani e i militari inquadrati con gli Alleati, voleva liberarlo. A questi tentativi – tesi soprattutto a riabilitare il fascismo – si aggiunge (il che rende sempre più arduo alle nuove generazioni conoscere la storia) una serie di rievocazioni di eventi militari per farne emergere, giustamente, il valore dei nostri soldati sui vari fronti dall’entrata in guerra (10 giugno 1940) all’armistizio (8 settembre 1943) e riconoscerne lo spirito di sacrificio, senza peraltro sufficientemente rilevare che proprio loro furono le vittime principali del disegno di grandezza di Mussolini (e della sua insipienza militare congiunta all’impreparazione e all’inadeguato armamento delle nostre forze armate gettate allo sbaraglio), di un Mussolini affascinato dalle vittorie folgoranti di Hitler (ragione non secondaria, per reazione, della nascita delle prime formazioni della Resistenza in Italia e nei Balcani sin dall’8 settembre e della mancata adesione a Salò della stragrande maggioranza degli internati). A rendere confuso il giudizio storico concorrono i grandi mezzi di informazione. Un esempio emblematico ci viene dal TG 1 della RAI quando, riportando, nell’edizione delle 20, la cronaca della celebrazione di El Alamein avvenuta al mattino, presente il Capo dello Stato, non riferisce quanto ha detto il ministro della Difesa Martino a proposito di un eroismo da considerare tale anche se “dalla parte sbagliata”, e nel commento del filmato di repertorio afferma che i soldati inglesi, vincitori di quella battaglia, andrebbero valutati per quel che erano veramente, appartenenti ad un Paese colonialista (secondo la tesi fascista dello “spazio vitale” negato all’Italia dalle “potenze plutocratiche”, a giustificazione della guerra di aggressione). Anche qui, dunque, torti e meriti da dividersi tutt’al più in parti uguali sull’onda di un revisionismo che vuol fare della storia, falsificandola o interpretandola arbitrariamente, strumento politico. Come si vede, ogni richiamo alla conoscenza della storia per tradurla in atti coscienti e responsabili di partecipazione politica democratica, è quanto mai pertinente. E di ciò ha parlato Walter Veltroni concludendo gli incontri di studio e riflessione riguardanti il 16 ottobre 1943. La domanda riferita al rastrellamento del Ghetto “come è potuto accadere?” si ripercuote in noi ogni giorno, attualizzata, a causa delle guerre tribali in atto, dalle minacce di un nuovo conflitto nel Medio Oriente, con proporzioni ed esiti che si prospettano terrificanti, dal fatto che in Africa muore di fame un bambino su sette, dall’incapacità di sanare le fratture tra aree geopolitiche quanto a risorse, dal perpetuarsi delle stragi in Israele e Palestina, dal moltiplicarsi dei rigurgiti razzisti e dalle altre iatture che colpiscono il pianeta. Non ci si può rassegnare. Sarebbe come accettare, ancora una volta (un ricorso storico?) non solo la “normalità” ma anche la “banalità del male”.
Patria
indipendente, 17
novembre 2002