Patria indipendente

Concluso il processo di Amburgo

La condanna di Friedrich Engel

 

di Renzo Parodi

 

Il processo celebrato, dal 7 maggio al 5 luglio 2002, ad Amburgo nei confronti dell’ex tenente colonnello delle SS, Friedrich Engel, e conclusosi con la sua condanna a sette anni di carcere, chiude con ogni probabilità l’epoca dei grandi casi giudiziari che riguardano ex militari nazisti, resisi responsabili di gravi delitti contro l’umanità. Se non altro per ragioni anagrafiche. I superstiti criminali di guerra che indossarono la divisa delle SS o della Wehrmacht sono ormai avviati, quando non hanno già superato, la novantina. Si avvicina per loro il tempo di un giudizio superiore e senza appello. L’Italia tuttavia ha chiesto e resta in attesa dell’estradizione di “Misha” Seifert, conosciuto come il boia di Bolzano, rintracciato recentemente in Canada, dove si era rifugiato, indisturbato, alla fine della guerra. Resta quindi, in linea teorica, uno spiraglio per nuovi processi, che potrebbero, doverosamente, perseguire i troppi sanguinosi episodi tuttora impuniti, legati ai venti mesi di occupazione nazista in Italia. Uno per tutti, la strage di Sant’Anna di Stazzema (Lucca), nella quale trovarono la morte alcune centinaia di civili inermi, in maggioranza anziani, donne e bambini. Per questo ed altre decine di massacri rimasti impuniti si può attingere all’enorme mole di materiale rinvenuta nel 1994 in un armadio, rimasto sepolto – volontariamente, sarà bene precisarlo – dal 1960 e colmo di ben 700 fascicoli relativi ad altrettanti fatti di sangue dei quali si macchiarono le truppe naziste di occupazione ai danni soprattutto di civili. Tra questi documenti giacevano anche gli atti relativi alle vicende che riguardano Engel e altri che hanno consentito di processare e condannare all’ergastolo in Italia Eric Priebke, in qualità di corresponsabile della strage delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944). Dopotutto non è assurdo confidare che qualche pubblico ministero particolarmente sensibile e solerte frughi tra quelle carte impolverate e riesca a rintracciare qualcuno dei presunti responsabili di quei lontani eccidi. Con Engel è accaduto. Il pubblico ministero militare di Torino, Pier Paolo Rivello, ancor prima che ci riuscissero i cronisti di Ard (la prima rete televisiva tedesca), aveva rintracciato Engel, nella sua linda villetta al numero 19 di Sieben Schoen Strasse, nel quieto quartiere residenziale di Lokstedt, ad Amburgo. E aveva rapidamente istruito il processo nei suoi confronti, accusandolo di ben quattro stragi che costarono 244 morti italiani. Engel si era rifiutato di presentarsi davanti al tribunale militare di Torino, adducendo la ragione di non aver mai ricevuto la documentazione giudiziaria che lo riguardava. Probabilmente paventava l’infausto (per lui) epilogo. Era stato quindi giudicato in contumacia e condannato, il 15 novembre 1999, all’ergastolo. Sentenza passata in giudicato il 30 marzo 2000. Il tribunale militare di Torino lo aveva riconosciuto responsabile di aver ordinato ben quattro massacri di partigiani: alla Benedicta, al Turchino, all’Olivetta di Portofino e a Cravasco, dalla primavera del 1944 al marzo del 1945. In tutto, 244 vittime. L’eccidio della Benedicta, nella Settimana Santa del 1944, seguì il grande rastrellamento nazifascista tra la Val Stura e la Val Lemme, (nell’entroterra genovese), nella zona di Masone e del Monte Tobbio. In quell’azione condotta con preponderanti forze ed armamento pesante da soldati tedeschi e militi repubblichini, caddero prigionieri oltre trecento patrioti. Per tale azione Engel venne in seguito proposto per il conferimento di una decorazione, la croce di guerra con spade. Alla Benedicta, un antico convento trasformato in centro di raccolta di armi dalla Brigata autonoma Alessandria e dalla III Brigata Liguria, operanti in quella zona, i fucilati furono 145. Uno dei condannati, Ennio Odino, riuscì a salvarsi fingendosi morto in mezzo ai cadaveri dei compagni. Al Turchino le vittime furono 59, con un vistoso e chissà se involontario errore di calcolo in eccesso, anche rispetto all’orribile contabilità nazista del dieci per uno. Alle scariche del plotone di esecuzione fornito dalla Marina germanica, riuscì a scampare l’allora guardiamarina Raimondo Ricci, salito in montagna con alcuni compagni subito dopo l’8 settembre 1943, e a maggio 1944 detenuto, nella famigerata IV sezione di Marassi. Ricci ha raccontato di aver udito chiamare il suo numero di matricola e di aver compreso subito di essere destinato alla fucilazione. Misteriosamente il suo numero non venne ripetuto al secondo appello e Ricci vide andare alla morte tanti suoi compagni di lotta. L’ex senatore genovese del Pci ha reso dinnanzi alla corte di Amburgo una lucida e precisa testimonianza, in particolare sulla reale condizione di dominio da parte delle SS sui prigionieri politici della IV sezione di Marassi. Contribuendo così a smontare la tesi difensiva che tentava di scaricare sulla Marina la responsabilità dell’eccidio. Sulla spiaggia dell’Olivetta, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1944, vennero fucilati 22 prigionieri politici e i loro cadaveri, avvolti nel fil di ferro, appesantiti da pietre, furono gettati in mare affinché non restasse traccia del massacro. Strani metodi di eseguire rappresaglie intimidatorie, nei confronti dei partigiani e della popolazione che li appoggiava. A Cravasco i morti furono 18, uno dei condannati riuscì a fuggire durante il trasporto l’altro, Arrigo Diodati, ferito dalle scariche del plotone di esecuzione, si salvò fingendosi morto nella fossa comune. Il 5 luglio scorso, Engel è stato condannato a sette anni di carcere dalla Gross Strafkammer di Amburgo, un organo composto da tre giudici togati e due giurati popolari, paragonabile quindi ad una corte d’assise italiana. In ragione della sua età da vegliardo a Engel è stato per ora risparmiato il carcere. Ed è improbabile che mai ci finisca, comunque vadano le cose. Il suo difensore, l’avv. Udo Kneip, ha già interposto appello. Per la legge tedesca i gradi di giurisdizione sono soltanto due e si tratta quindi di un giudizio di puro merito assimilabile a quello italiano della Corte di Cassazione. Sette anni sono una condanna esigua, un apparente insulto alla giustizia e alla logica, se rapportata alla condanna italiana. «Trent’anni fa Engel avrebbe preso l’ergastolo», ha commentato il presidente della corte, Rolf Seedorf, lamentando che il tempo trascorso non ha consentito di approfondire tutti gli aspetti della vicenda. Lo stesso processo, celebrato appena dieci anni prima, avrebbe visto la presenza, in qualità di imputati o di testimoni, di almeno tre personaggi-chiave: il tenente delle SS, Kaess, l’interprete Nicoletti, e il tenente di Marina Vogt. Seedorf ha spiegato che nel calibrare la pena si è avvalso di una sentenza della Corte Costituzionale federale che consente, se dal reato al processo è trascorso moltissimo tempo, di sostituire l’ergastolo (la pena per il delitto del quale era accusato Engel) con la detenzione da 5 a 15 anni. È stata comunque acclarata la responsabilità totale di Engel, sebbene in concorso con altri soggetti ormai defunti. E dunque il principio è salvo e ha finalmente un nome il boia che mise a morte i martiri del Turchino. L’esito era tutt’altro che scontato in un processo difficile, punteggiato di testimonianze vaghe, contraddittorie quando non chiaramente elusive, evasive o reticenti. La fucilazione di 59 ostaggi innocenti, avvenuta al Passo del Turchino (nell’immediato entroterra occidentale di Genova), all’alba del 19 maggio 1944 fu una bieca rappresaglia ordinata per “vendicare” i cinque marinai tedeschi della Kriegsmarine rimasti uccisi, quattro giorni prima, nello scoppio di una bomba nel cinema Odeon, nel centro di Genova, un locale riservato alle truppe germaniche. L’attentato venne eseguito da formazioni partigiane, particolarmente attive in città, e purtroppo scatenò la furia nazista. Dalla IV sezione del carcere genovese di Marassi, riservata ai detenuti politici, agli antifascisti e agli ebrei, e controllata strettamente dalle SS, vennero prelevati 59 detenuti, scelti con criteri rimasti ignoti, e avviati al massacro. L’esecuzione avvenne in forme talmente crudeli e vessatorie per i morituri che proprio questa circostanza – le modalità disumane della fucilazione – ha consentito ai giudici tedeschi di esaminare il caso (altrimenti cancellato dalla prescrizione, a distanza di 58 anni dai fatti) e di pervenire alla sentenza di condanna nei confronti di Engel. «Lei, dottor Engel, è andato oltre il limite dell’umanità che deve essere osservato anche in quelle circostanze», ha argomentato il presidente della corte, Seedorf. «Ha commesso un atto illegittimo e crudele». Il giudice ha motivato questa conclusione con ampiezza di particolari. I condannati avvicinandosi a piedi al luogo dell’esecuzione, hanno potuto udire le scariche delle armi automatiche che avevano iniziato l’orribile massacro. Hanno dunque compreso di essere destinati a morire. E quando sono stati costretti ad accostarsi alla grande fossa fatta scavare due giorni avanti da un gruppo di detenuti ebrei dello stesso carcere di Marassi (uno di loro, il giovane Giulio Iona, poi scomparso ad Auschwitz, ha lasciato in proposito uno scritto di commovente lucidità), poiché non erano stati bendati, hanno potuto scorgere i corpi dei compagni appena trucidati, ammucchiati uno sopra l’altro. Un calvario nel calvario, un’inutile, gratuita crudeltà che è costata la condanna ad Engel, apparentemente convinto fino all’ultimo, di aver agito da soldato, obbedendo ad ordini superiori. Addirittura di aver eseguito l’ordine impartito da Hitler in persona, dopo l’attentato di via Rasella a Roma, di fucilare dieci italiani per ogni militare tedesco ucciso. Un concetto estremamente ampio di rappresaglia che, ha deciso la corte, non trova riscontro in alcuna legge internazionale di guerra. Neppure Engel ha potuto dimostrare l’esistenza certa di quell’ordine feroce, che non venne mai messo per iscritto dal Führer, e quindi non è rintracciabile in alcuno degli archivi della Wehrmacht. Lo ha confermato un giovane studioso italiano che lavora a Colonia, il professor Carlo Gentile. Né gli è bastato ad evitare la condanna profondersi in una lunga, pedissequa, ricostruzione (peraltro fatta pro domo sua) di quei lontani eventi, tutta mirata a dimostrare che non furono le SS (anzi le SD, la polizia delle SS, della quale Engel era il comandante, nell’Aussenkommando di Genova, che comprendeva parte della Liguria e il Basso Piemonte) a decidere ed attuare la rappresaglia del Turchino. Bensì la Marina da guerra, ansiosa di vendicare col sangue dei “banditi” partigiani, i suoi cinque caduti dell’Odeon. L’ex ufficiale nazista di fronte ai giudici tedeschi di Amburgo ha ammesso la sua corresponsabilità nella strage, poiché approvò la lista dei condannati preparata dal suo braccio destro, il tenente delle SS, Otto Kaess, deceduto nel 1998. «Ho verificato che nella lista non ci fossero né donne e né bambini», ha spiegato Engel, esprimendo rammarico per non aver impedito quella fucilazione ed esprimendo rispetto per le vittime. «Sono morti bene, senza piangere né invocare pietà», ha detto. Molti di loro non avevano che 19 o 20 anni. Ragazzi. Dei 59 martiri del Turchino, dieci sono rimasti senza nome. Soltanto a guerra finita, nel giugno 1945, i loro corpi, seppelliti alla bell’e meglio nella grande fossa comune, riempita di terra e sovrastata da un grande masso, poterono essere riesumati, identificati in larga maggioranza, riconsegnati alle famiglie dolenti e onorati dalla popolazione genovese che si accalcò nelle strade per rendere loro omaggio, prima della definitiva sepoltura. La Corte non ha creduto alla figura di Engel semplice spettatore al Passo del Turchino, che lasciava fare alla Marina. Due testimonianze delle molte ascoltate in aula (una decina, soprattutto di ex componenti della Kriegsmarine), hanno smentito Engel, signore e padrone di Genova, al punto da non dover rendere conto dei suoi atti neppure al comandante della piazzaforte, il generale della Wehrmacht, Günther Meinhold. Il primo testimone a carico è stato l’interprete altoatesino Giuseppe Nicoletti. Scampato alla condanna a morte decisa dal tribunale straordinario di Genova nel 1945 e deceduto a 85 anni, nel 1997, Nicoletti visse e operò al fianco di Engel, nella famigerata Casa dello Studente, luogo di sevizie e di torture, dalla fine di gennaio del 1944 alla Liberazione. Nei verbali dell’interrogatorio reso al Comando Alleato appena finita la guerra, Nicoletti ha lasciato una testimonianza inoppugnabile: «Engel era una persona molto taciturna, riservata e crudele, bestiale anche nei riguardi dei suoi dipendenti che trattava in modo assai duro. Odiava gli italiani in modo particolare. A lui debbonsi accollare le responsabilità di tutti i rastrellamenti di partigiani effettuati in Liguria e tutte le fucilazioni di massa eseguite a Genova e dintorni». Chiaro, no? A dare il colpo di grazia alla tesi difensiva di Engel e del suo difensore, l’avvocato Udo Kneip, è stato un testimone a sorpresa, non citato nell’elenco della pubblica accusa, sostenuta dal procuratore Jochen Kuhlmann. In una intervista pubblicata alla fine di maggio dal Darmstaedter Echo, l’ex nostromo di Marina, Walter Emig, oggi 79enne medico in pensione residente a Darmstadt, presso Francoforte, ha clamorosamente sconfessato Engel. Emig era al Turchino, in quell’alba tragica, come rappresentante della 22ª Flottiglia antisommergibile di stanza a Genova, che aveva subìto perdite nell’attentato dell’Odeon. Ricorda molto bene Engel, «alto di statura, la divisa sembrava una seconda pelle per lui. Una persona che incuteva rispetto», lo ha descritto alla Corte, raccontando che, pistola in pugno, si aggirava attorno al plotone di esecuzione comandato dal tenente di Marina, Vogt, ingegnere navale addetto alla manutenzione delle imbarcazioni da guerra. Vogt (scomparso a metà degli anni Novanta) aveva la passione per le fucilazioni di partigiani e si era messo a disposizione di Engel per quella del Turchino. Il supertestimone Emig ha aggiunto altri agghiaccianti particolari. Ha raccontato che Engel aveva deriso un ufficiale della polizia criminale «che tremava e non riusciva a eseguire il suo ordine di sparare il colpo di grazia agli ostaggi moribondi. “Quello è una pappamolla, adesso gli faccio vedere come si fa”», avrebbe detto Engel, nella versione di Emig, scendendo nella fossa comune con una pistola in pugno. «Sentii due spari – ha rievocato Emig – non posso dire se a sparare fu Engel ma lui era laggiù, in mezzo ai morti». Nessuno dei patrioti fucilati al Turchino era minimamente coinvolto nell’attentato all’Odeon, ma questo allora era un dettaglio insignificante per i “padroni” di Genova e per colui che li comandava. Appunto il maggiore (poi tenente colonnello) Friedrich Engel. Engel, laureato in letteratura tedesca e in storia e filosofia, a gennaio ha compiuto 93 anni ed ha trascorso oltre mezzo secolo indisturbato nella città di Amburgo, lavorando come dirigente di una ditta di import-export di legname. Ha raccontato che finita la guerra, dopo un periodo di prigionia in mano agli americani, era riuscito a fuggire dal campo e si era rifugiato nella Harz, (una regione nel nord della Germania), dove lavorò come taglialegna e bagnino prima di stabilirsi ad Amburgo e rifarsi una vita accanto alla moglie, sposata durante la guerra. In oltre 50 anni, nessuno lo ha praticamente mai disturbato. Una denuncia per i suoi trascorsi nazisti negli anni Sessanta era stata archiviata in Germania dopo una breve istruttoria. Ma anche se lenta, talvolta la giustizia raggiunge il suo bersaglio. Oggi Friedrich Engel continua a pensare che, come ha dichiarato a chi scrive, in una intervista esclusiva pubblicata sul Secolo XIX di Genova, Adolf Hitler avesse avuto ragione a scatenare la guerra invadendo la Polonia. In fondo al cuore è rimasto un purissimo nazista. Ma dopo la sentenza di condanna di Amburgo, anche per i suoi connazionali in Germania e non soltanto per gli italiani, è un uomo che si è sporcato le mani di sangue innocente. E non merita di essere ricordato come un soldato onorevole.

Patria indipendente, 21 luglio 2002

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