Patria indipendente

In ricordo di Primo Levi

 

di Andrea Liparoto

 

«Se c’è Auschwitz, non può esserci Dio». Una affermazione disperata, la constatazione amara di un’assenza incresciosa. A pronunciarla un uomo che per disgrazia di una presunta, “colpevole” appartenenza religiosa, ha subìto un internamento forzato, il cui ricordo ossessivo, quarant’anni dopo, lo ha indotto al suicidio. Sto parlando di Primo Levi di cui l’11 aprile è il quindicesimo anniversario della scomparsa. La sua vita inizia a Torino il 31 luglio del 1919. Dopo aver frequentato la scuola media si iscrive al liceo-ginnasio “Massimo D’Azeglio” dove ha, come insegnante di lettere, Cesare Pavese. Le leggi razziali, emanate quando è studente universitario presso la facoltà di chimica, lo spingono ad un attivo impegno antifascista. Nel 1942 entra nel Partito d’Azione clandestino. Dopo l’8 settembre 1943 si unisce ad un gruppo partigiano operante in Val d’Aosta. Il 13 dicembre dello stesso anno viene arrestato a Brusson. Due mesi dopo, insieme ad altri coraggiosi compagni, viene sbattuto in un treno diretto a Auschwitz. Quarantacinque persone chiuse in un vagone. «Stavamo morendo di sete. Ad un certo punto abbiamo iniziato a raschiare la brina gelata che si era formata sui bulloni...». Questo è ciò che racconta Primo Levi ad un giornalista della Rai che lo intervista nel 1982. Nel lager polacco resta un anno e questa tragica esperienza lo renderà scrittore. Se questo è un uomo è il titolo del romanzo attraverso cui consegna al pubblico la memoria di quell’orrore. Pubblicata per la prima volta dall’editore Da Silva nel 1947, l’opera in questione regalerà al suo autore un successo imprevisto nel 1958, in seguito ad una mostra sulla deportazione tenutasi a Torino. Questa volta a pubblicare il romanzo è la casa editrice Einaudi, buona annusatrice di affari, che dieci anni prima aveva rispedito al mittente Primo Levi il manoscritto. Il libro, tradotto in cinque lingue, fa il giro del mondo. Scuole, università e associazioni private invitano lo scrittore a testimoniare. Tante domande, tanto stupore, tante reazioni addolorate. E poi a casa, soli, di fronte alle pagine... Quasi si prova vergogna di far parte della stessa razza dei manichini di Hitler e si resta storditi per l’inquietudine sollecitata da quella lettura... «Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri. Così morì Emilia, che aveva tre anni; (...) Emilia, figlia dell’ingegnere Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; (...) Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla». E proprio qui, sulla scia di questo stralcio, vorrei appuntare una riflessione. Perché è ancora importante, oggi, leggere Primo Levi? Per dovere di vigilanza. Ma forse per qualcosa di più. Per impartire alla generazione umana in fiore la lezione del rispetto. L’uomo va preso da cucciolo per insegnargli a diventar parte del ventaglio di colori e di valori che gli si prospetterà davanti in pensieri e corpi. Altrimenti continueremo a perdere, a piangere e a partorire con urgenza nuove strategie d’azione contro chi minaccia la convivenza tra i popoli. E la parola guerra non smetterà così di farla da padrona nei parlamenti. Più che mai allora può risultare calzante l’espressione “leggere per non morire”. Per il futuro. Per dare un senso al sacrificio dei combattenti per la libertà. Perché gli uomini di domani non siano artefici della loro estinzione.

Patria indipendente, 31 marzo 2002

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