Nell'orrendo
inferno di Dachau la lucida follia di un deportato
di Giovanni Melodia
Il primo gruppetto di prigionieri politici italiani - una
decina in tutto, non liberati in periodo badogliano (1) - giunsero a Dachau (2),
e io con loro, il 13 ottobre del 1943. Insieme con noi, provenienti loro pure dall'Abbazia di
Sulmona, circa duecento ex partigiani jugoslavi e una trentina di ragazzi greci,
oltre ad alcune centinaia di detenuti per reati comuni, nonché alcuni civili,
rastrellati a casaccio nelle stazioni, nel corso del lungo viaggio in carro
bestiame. Ci avevano preceduti, dall'Italia, il 22 settembre, soltanto
i 1.857 provenienti dalle carceri militari di Peschiera. L'inverno che si presentava assai rigido, fu per noi
drammatico. Tenuti, per l'intera, eterna, giornata, all'aperto nella strada tra
baracca e baracca, nel vento, nel gelo e nell'incessante nevischio, i crani
rasati, mal coperti di luridissimi stracci, pochissimo alimentati, bastonati e
insultati, non eravamo più uomini ma Stücke,
"pezzi", senza più neanche il nostro nome, e ci sentivamo
impazzire. Non pensavamo però che il primo a perdere del tutto la
ragione sarebbe stato lui, il più anziano del nostro piccolo gruppo. Non lo pensavamo perché, fin dal primo giorno, mentre alcuni
di noi cercavano di far barriera alla disperazione parlando, a chi voleva
ascoltarci - anche se il gelo ci spaccava le labbra - dei più svariati
argomenti purché estranei al lager, lui, cattolico di stretta osservanza e
professore di lettere, il suo scudo sembrava averlo trovato in un continuo
pregare, che cercava di stimolare anche negli altri. All'improvviso, un mattino, un urlo rauco, disumano. Lui, il
professore, si è gettato in ginocchio sulla strada, con una lunga scivolata sul
fango ghiacciato e ora, le braccia levate al cielo, malediceva a voce altissima
Iddio che ha creato questa umanità e, subito dopo sua madre, che lo aveva fatto
nascere in questo mondo. Siamo rimasti, tutti, come paralizzati. Da non potergli
correre in aiuto, sollevarlo, intanto che lui, con il viso nel ghiaccio,
sembrava voler cercare una morte immediata. Poi qualcuno, di quelli che gli
erano più vicini, si è mosso, lo ha risollevato, e noi pure ci siamo fatti
intorno; uno di noi ha raccolto i suoi occhiali, glieli ha porti. Allora ho visto. Ho visto che gli occhiali dalle spesse lenti
biconcave da miope non erano più quelli che gli conoscevo, ma erano ridotti ad
una lente sola e lesionata, tenuta assieme da un pezzo di fil di ferro. Era successo poco prima. Senza alcun plausibile motivo uno
degli Zimmerdienst, uno cioè dei
ragazzotti addetti alle pulizie dei cameroni, glieli aveva strappati dal viso e
li aveva ridotti in frantumi, sotto i piedi, sul ghiaccio della strada. Era stato poi un altro e ben diverso Zimmerdienst a raccogliere i frammenti, cercare di costruire intorno
al più grosso di quei pezzetti una specie di montatura. Era stato il gesto assurdo, malvagio, di poco prima, e uno
spintone e un insulto di uno che, per età, avrebbe potuto essergli figlio, che,
in aggiunta a tutto il resto e alla quasi completa cecità, avevano provocato il
tracollo? lo conoscevo bene l'anziano professore. Eravamo stati, lui ed
io, per anni, nello stesso carcere di Civitavecchia, anche se in cameroni
diversi poiché lui era tra coloro che avevano fatto domanda di grazia. Ma
soprattutto eravamo stati insieme, dopo, all'Abbazia di Sulmona, quando, là
trasferiti, venne deciso di dare un colpo di spugna a certe troppo rigide
differenze. Perciò, dopo il tremendo episodio che ci aveva atterriti,
avevo cercato di riprendere con lui il filo di antiche conversazioni. Sembrava tornato normale e non ci fu un solo accenno, da ambo
le parti, a ciò che era accaduto quel mattino. Il suo aspetto era però cambiato. Forse a causa di quella
sola e incompleta lente residua, e la montatura di fil di ferro che gli
scivolava di continuo dal naso, e l'incedere fattosi incerto per lo stesso
motivo. Fui perciò sorpreso, qualche giorno dopo, vedendolo
camminare con passo quasi spavaldo e, cosa ancor più strana, fumare. Soltanto i Kapos (3)
potevano farlo. Come mai lui pure e così apertamente, con aria di sfida? Non feci in tempo, quasi, a chiederglielo. Mi prese
affettuosamente sotto braccio, mi trascinò verso un angolo della strada, mi
fece una lunga confidenza. Con aria segreta e tuttavia trionfante. Era accaduto - mi disse - che aveva trovato, su un pezzo di
giornale passatogli da quello stesso scopino che gli aveva in qualche modo
rabberciato gli occhiali, un annunzio funebre. Nel quale, lui che qualcosa
sapeva di tedesco, aveva scoperto che un alto ufficiale delle SS era deceduto,
per causa bellica, proprio nel paese nel quale lui aveva abitato ed insegnato,
prima dell'arresto per antifascismo. Quel ritaglio, con i particolari che conteneva, gli aveva
fatto balenare un'idea. Geniale, secondo lui: trovare il modo di scrivere alla
vedova del caduto, che risiedeva a Monaco, dicendole che il suo congiunto era
spirato tra le sue braccia. Chissà come, con l'aiuto di un kapo, ce l'aveva fatta. E la donna, poiché era la vedova di un
ufficiale SS e la Kommandantur non aveva osato opporsi, era corsa per un
colloquio con lui. Non a mani vuote: cioccolato, sigarette, marmellata. Che il
professore aveva diviso con chi lo aveva segretamente aiutato. Il racconto, tutto d'un fiato, mi sconcertò, tanto più che
l'anziano professore sembrava convinto che le cose sarebbero andate avanti per
sempre e che la vedova dell'SS avrebbe addirittura potuto ottenere la sua
liberazione. E chissà e chissà...Era chiaramente una follia, conseguente a ciò che gli era
accaduto. Evitai comunque di pronunziare l'insidiosa parola ma mi parve giusto
dirgli che i comandanti del lager avrebbero certamente, o prima o poi, scoperto
che il suo racconto non reggeva poiché in quel periodo lui era già in carcere
da anni - come risultava dagli incartamenti che il direttore delle carceri
dell'Abbazia, Corrado De Jean, aveva lasciato finire nelle mani dei tedeschi - e
quindi non poteva aver raccolto dalle labbra del morente le ultime parole, il
suo estremo saluto alla carissima moglie, ai figli... Fui purtroppo un sin troppo facile profeta. Subito dopo il
secondo viaggio della vedova ed un ulteriore pacchetto di viveri, il professore
venne condotto in uno degli uffici del comando del lager, ricevette venticinque
robustissime nerbate sul fondo nudo della schiena, scansò - per intervento, si
disse, della stessa vedova ingannata che giudicò sufficiente l'umiliante
punizione dell'anziano professore - un castigo assai più grave, ma venne
trasferito a Mauthausen (4), dove ha finito i suoi giorni nella cosiddetta «corriera
azzurra», il grosso pullman, cioè, dai finestrini e dal portello saldamente
sigillati, dove interi gruppi di prigionieri trovavano la morte, dopo un'atroce
agonia, a causa dei gas di scarico del motore, i cui tubi di scappa- mento erano
rivolti verso l'interno. Era il 24 aprile del 1945. Lo stesso giorno nel quale le
armate alleate provenienti dall'Est e dall'Ovest si congiungevano, a Torgau,
sull'Elba. Il nazismo crollava, fragorosamente, quasi tutti i lager
erano già stati liberati e fra poco, 5 maggio, sarebbe stata la volta anche di
quell'ultimo: Mauthausen.
NOTE
(1)
Periodo che va dal 26 luglio 1943 (caduta del fascismo)
all'8 settembre 1943 (data della proclamazione dell'armistizio).
(2)
Cittadina a pochi chilometri da Monaco di Baviera. Nella
sua zona sorse uno dei peggiori campi di concentramento della Germania nazista.
Erroneamente molti credono che il campo nacque in conseguenza della guerra
scatenata dalla stessa Germania. In realtà uno dei primi atti di Hitler, dopo
il suo avvento al potere, fu la creazione del campo destinato a rinchiudervi i
suoi oppositori: ebrei, comunisti, socialisti, cattolici. Già nel 1937 il campo
ospitava oltre 10.000 detenuti e quando Hitler invase l'Austria, il 12 marzo del
1938, il campo arrivò a contenere 80.000 oppositori austriaci. Con lo scoppio
della seconda guerra mondiale il campo assunse proporzioni gigantesche tanto che
sorsero intorno numerosi campi satelliti. 1 campi divennero non solo luoghi di
indicibili sofferenze e di torture ma terreni di sterminio dove decine di
migliaia perirono di morte atroce.
(3) I kapos erano i
responsabili di Kommandi di lavoro; venivano scelti fra i detenuti comuni e si
distinsero per la loro inumana ferocia.
(4) Mauthausen: villaggio nei pressi di Linz in Austria.
Quando Hitler nel 1938 incorporò l'Austria nel Reich fu dato contemporaneamente
l'avvio alla costruzione di un lager, anche questo successivamente destinato a
contenere prigionieri soprattutto politici e razziali. Statistiche non mai
completate accertano che perirono a Mauthausen non meno di 150.000 prigionieri
tra i quali 5.750 italiani.
Da Patria
indipendente,
quindicinale della resistenza e degli ex combattenti, n. 6-7, 5-19 aprile
1992