Patria indipendente

La scelta

di Walkiria Terradura

Ero guardia davanti al cimitero da dove si poteva dominare tutta la zona circostante. Era una giornata fredda e ventosa di fine maggio e la primavera non era davvero tiepida e splendente come negli anni passati. Guardavo davanti a me e vedevo ancora la neve sui tratturi più alti e gli alberi intorno che mostravano una fitta fioritura di gemme intirizzite. Il freddo e il vento aumentavano e io rabbrividivo sotto il leggero giubbetto di tessuto autarchico che somigliava alla lana, senza averne minimamente i pregi. Avevo un binocolo con la lente sinistra rigata e quasi inservibile, ma era meglio di niente. Lo puntai verso il basso e poi verso l'alto, a destra e a sinistra, sull'intera zona intorno; tutto era tranquillo. Vidi solo, laggiù verso il bosco, una coppia di contadini, un ragazzo e una ragazza molto giovani, che teneramente abbracciati si scambiavano baci. La guerra seminava la morte, ma sembrava rimasta intatta la voglia di amare e di essere. Li riconobbi entrambi. Erano due ragazzi del luogo che avevano promesso di sposarsi non appena fosse finita la guerra. La ragazza si chiamava Elena e a volte l'avevo vista intenta a ricamare gli ultimi capi del suo corredo da sposa, unica e sola dote che i genitori, anche se poveri, davano alle loro figlie femmine. Ai figli maschi invece erano soliti lasciare la casa e la terra, dove perpetuavano schiatta e miseria. Fissai i ragazzi per qualche momento e poi spostai il binocolo puntandolo più lontano, verso il sentiero che si snodava su e giù da Cai Cambiucci. Guardai meglio, tentando di metterlo a fuoco con più chiarezza, il giovane che improvvisamente avevo inquadrato. Vedevo bene la divisa che indossava e il moschetto che teneva in spalla, e lo vedevo procedere lentamente, guardandosi intorno. Non capii chi fosse né da dove venisse e perché fino allora, benché vestito con quella divisa, non fosse stato fermato. La divisa che indossava era certamente quella dei fascisti di Salò, dei repubblichini, come ormai tutti li chiamavano. Mi domandai se quel ragazzo fosse l'avanguardia di altri militi fascisti, ma subito mi risposi che non era possibile: non era certo l'ora per un rastrellamento, né tanto meno lo stile con il quale si annunciavano. Sempre più tesa e sempre più attenta feci scorrere il binocolo lungo tutte le balze e lungo tutti i sentieri che avevo la possibilità di inquadrare, ma non vidi nessuno, all'infuori dei soliti contadini che tornavano dal lavoro e dei soliti pastori che riconducevano le bestie nel chiuso delle stalle. Sulle aie non si notava nulla di particolare, e non mi stupii di vederle deserte, perché solo dopo cena gli uomini andavano a sedervisi per fumare un sigaro o per masticare tabacco, o anche per scambiare qualche parola. Si faceva tardi: stava per scadere il mio turno di guardia, ed ecco che mi trovavo ad affrontare un evento inaspettato. Vedevo il ragazzo vestito da militare venire avanti, sempre più vicino e visibile: non potevo certo farlo arrivare improvviso tra i compagni che seduti o sdraiati sullo spiazzo davanti alla casa-comando, parlavano o pensavano ai fatti propri, aspettando il pasto della sera. Chiamai Cleto che era di guardia dall'altra parte dei cimitero, gli dissi ciò che avevo scoperto e decidemmo di andare subito incontro a quell'ospite inatteso. Gli capitammo davanti all'improvviso, alla svolta del sentiero. Contavo sulla sua sorpresa, ma non su una paura così incontenibile come quella che lo assalì vedendoci. Per un po' rimanemmo silenziosi a guardarci, e la sua paura parve diminuire quando si accorse che eravamo ragazzi più o meno della sua età e che io ero una donna. Dopo averlo disarmato, lo portammo al Comando per essere interrogato. Questa che segue è la sua storia, che ho voluto scrivere per raccontarla ancora a me stessa, ma anche a voi, perché è un'altra piccola tessera di un mosaico impazzito di un'epoca così violenta e così sfortunata. Si chiamava Dante ed era nato a Bologna, dove fino a poco tempo prima aveva vissuto insieme al padre e alla madre. Proprio a Bologna lo avevano preso i fascisti mentre tornava dall'Università, dove era andato per incontrare un amico a cui doveva restituire un testo di anatomia. Era a pochi passi da casa, quando una donna gli gridò: «Scappa, che qui stanno facendo una retata!». Si mise a correre verso un portone socchiuso, ma non fece in tempo ad entrarvi. Gli furono addosso in quattro: urlando improperi e minacce lo spinsero quasi trascinandolo, verso un autocarro fermo nei pressi, già carico di altri ragazzi. "Non sono di leva; lasciatemi andare", urlò con tutto il fiato possibile. A bordo dell'autocarro tutti gridavano le loro ragioni, ma nessuno sembrava ascoltarli. Subito dopo l'auto- carro si mise in moto sobbalzando e il rumore del motore, spinto al massimo, soffocò le proteste e le grida. Dopo qualche giorno gli fecero indossare la divisa e insieme ad altri fu inviato nella zona di Modena. La preparazione militare fu rapida e sommaria, ma in compenso si parlò molto meriti e del futuro del fascismo, con toni di antico e nuovo fanatismo. Nel frattempo Dante aveva fatto amicizia con due simpatici ragazzi toscani, Andrea e Mario, e si senti meno solo. Fece sapere ai suoi genitori quel che gli era successo e dove ora si trovasse ed essi vennero a visitarlo non appena ebbero i necessari permessi. Passarono con lui un giorno intero ed egli - tra l'altro - cercò di consolarli per i suoi studi interrotti dicendo che da tempo, e non certo per sua colpa, si studiava poco e male, ma che avrebbe ricuperato gli esami perduti appena fosse tornato a casa. Vederlo dottore era sempre stato il sogno della loro vita ed avevano lavorato duramente per fargli proseguire gli studi, perseguendo questo loro sogno con tenacia e speranza immutabili. Gli portarono i saluti di tutti, specie delle zie e di nonno Antonio, gli dissero dei ragazzi del quartiere, suoi amici da sempre, fuggiti o nascosti da qualche parte per sottrarsi alla chiamata militare del governo di Salò. Non fecero commenti su quanto gli era successo, né gli dissero nulla che facesse aumentare la sua rabbia. Li vide così tristi e rassegnati che ebbe pena di loro. Al momento di andarsene gli raccomandarono di essere bravo e buono, la stessa raccomandazione e le stesse parole di sempre, di quando - bambino - lo lasciavano solo dopo averlo accompagnato all'asilo, e in seguito alle, prime classi elementari, o anche semplicemente quando lo portavano in visita da amici e parenti. Voltandosi a salutarlo con la mano, la madre aggiunse: «Sii prudente!». Capì che quell'ultima raccomandazione riassumeva le loro angosce e le loro preoccupazioni. Nei giorni che seguirono vi furono in caserma preparativi e movimenti insoliti e furono revocati tutti i permessi. Si notava un'animazione sempre crescente e una sera arrivarono camion e autoblinde. Era chiaro, secondo gli anziani, che si stava per partire per un'azione di guerra. Infatti poco dopo venne l'ordine di rastrellare le zone vicine, dove i partigiani - gli dissero - stavano diventando sempre più temerari e facinorosi. Sul far del giorno furono letteralmente spinti fuori dalle brande e fu urlato l'ordine di tenersi pronti a partire entro mezz'ora. Dante chiuse nello zaino ciò che gli avevano ordinato di portare, ma volle mettersi in tasca anche la fotografia di Angela, la sua amichetta sedicenne alla quale solo da poco tempo aveva dato il suo primo bacio d'amore. Quando uscirono sul piazzale trovarono gli autocarri che li aspettavano con il motore acceso. Era l'alba, una di quelle albe livide e fredde che ti fanno rimpiangere solo il tiepido calore del letto. Una nebbia intensa nascondeva ogni cosa e a rnalapena Dante poteva vedere il camion che lo precedeva e quello che lo seguiva. Finalmente riuscì a leggere un cartello stradale e capì che stavano dirigendosi verso Carpi, nelle cui vicinanze arrivarono che era giorno pieno. Fu dato l'ordine di scendere dai mezzi, furono raggruppati e poi ancora divisi e si formarono infine tante piccole squadre. Si mossero procedendo per qualche tempo uniti, sempre in silenzio. Poi ad ogni squadra fu comandato di andare avanti in ordine sparso e fu indicata una casa isolata, in alto, intorno alla quale tutte avrebbero dovuto convergere. Così ebbe inizio il rastrellamento. Si udirono dapprima isolati colpi d'arma da fuoco, poi le raffiche delle mitraglie divennero sempre più intense e continue. In posti che si ritennero idonei furono piazzati due mortai da 81, e la sparatoria proseguì con un crescendo impressionante. I partigiani risposero al fuoco. Dante aveva paura e, come in un incubo, udiva qualcuno ripetergli di «farsi sotto», di stanare i ribelli. Andò avanti senza vedere nulla, inciampando ovunque, come un sonnambulo o un ubriaco: la sua paura aumentava ed era madido di sudore. Immaginava i ribelli nascosti dappertutto, in attesa di sparargli alle spalle, che attendevano solo il momento di farlo prigioniero per poi seviziarlo a morte. Pensava che avessero facce perverse e occhi cattivi, le stesse facce che i manifesti fascisti attribuivano ai soldati dell'Armata Rossa, e li pensava tutti con il cipiglio e i baffi di Stalin. Finalmente udì, dopo un tempo che gli sembrò eterno, l'ordine di fermarsi e di attendere perché stavano tornando indietro i plotoni che avevano preso alcuni prigionieri. Li vide passar davanti a sé poco dopo, sospinti dai calci dei fucili, tra minacce e improperi: erano giovani come lui, con volti stanchi e storditi che non gli fecero paura, ma anzi gli suscitarono pena, e si senti improvvisamente solidale con la loro lotta difficile e disperata. I prigionieri erano quattro e si tenevano vicini, quasi a prendere coraggio l'uno dall'altro. Li fecero fermare accanto ad un albero e cominciarono a perquisirli. Un ragazzo con i gradi da capomanipolo frugò in tutte le tasche e via via gettava a terra tutto ciò che vi trovava. Caddero nel fango due chiavi, un pacchetto semivuoto di sigarette, un fazzoletto da naso, un paio di occhiali con le lenti incrinate, un'effige di san Giovanni Bosco, un taccuino su cui erano trascritti a matita alcuni versi di Leopardi, e la fotografìa di una ragazzina che aveva la stessa grazia sognante della sua Angela. Non gli furono trovati documenti personali addosso, ma solo alcuni tagliandi di carte annonarie. Gli gridarono che li avrebbero fucilati subito e che avevano pochi momenti per raccomandare la loro sporca anima a Dio. Dante guardava quei prigionieri e disorientato si domandò se fossero quelli i nemici terribili di cui gli si parlava ogni giorno con odio crescente, che persino i cartelli lungo le strade definivano banditi: gli sembravano invece così soli e sperduti, con negli occhi le stesse angosce e gli stessi perché che egli conosceva così bene. Cominciò a sentire forti crampi allo stomaco e lo assalì una gran voglia di vomitare. Divenne pallidissimo e quasi svenne. Chiese di ritornare giù, verso i camion. Con il cuore che gli batteva nel petto colpi impazziti, corse via tenendo una mano sulla bocca, fuggendo lontano da quei ragazzi che gli somigliavano, che avevano come lui un'amichetta che li aspettava per un secondo bacio, che avevano stampato sulla faccia la sua stessa paura di uccidere e di essere uccisi. Si nascose in un fosso respirando a fatica e decise in quel momento, tra le ortiche e il fango, che non sarebbe più tornato nella caserma da dove era partito, dove lo avevano portato a forza per raccontargli menzogne e istigargli odio. Sperava fin da bambino di fare il medico perché voleva salvare vite umane, e ora non poteva assistere inerte alla loro distruzione. Proprio in quel momento udì chiaramente le scariche di mitra sparate sui prigionieri: premette con forza le mani sulle orecchie e ve le tenne a lungo, temendo di udire altri spari. Poco dopo, o forse dopo ore, udì i suoi commilitoni che vociando e ridendo tornavano verso gli autocarri. Dante rimase steso nell'erba sino a notte, immerso nel silenzio più assoluto. Infine si alzò con fatica e cominciò a camminare a tentoni nel buio. Vagò a lungo, solo e disperato, sino a quando non ritrovò la strada maestra. Camminò per giorni, sapendo di andare verso sud, fermando- si solo a bere un po' d'acqua. Sempre camminando sgranocchiò le poche gallette che aveva nello zaino. Lasciava la strada solo quando udiva rumore di motori e quindi vi tornava e ricominciava a camminare, un passo dietro l'altro, sospinto dalla rabbia che dava forza ai suoi muscoli stanchi. Lasciò per sempre la strada quando il transito dei mezzi militari si fece più frequente e da allora percorse soltanto i sentieri in mezzo alla campagna. Su uno di quei sentieri il mio binocolo lo aveva inquadrato. "Vieni - gli dissi alla fine del racconto -. Non puoi rimanere vestito così". Pisa, una delle donne di Cai Buccarini, lavorò di ago e di forbici fino a che non si riconobbe nulla della vecchia divisa, tranne naturalmente il tessuto, ma anche quello ora sembrava diverso. «Vorrei chiamarti Dantino, perché Dante è un nome troppo importante e mi ricorda l'Alighieri, quello infelice, di quando scriveva il Paradiso». Il nome gli piacque e per tutti divenne Dantino. Anche se non entrò nella mia squadra, fummo spesso insieme sino alla fine della guerra. Durante tutto il tempo che rimase con noi si rese utile in ogni modo, aiutando chiunque ne avesse bisogno, prendendosi cura soprattutto dei feriti e dei malati, coerente con la sua vocazione di medico. Ma Dantino non volle mai sparare, né noi glielo chiedemmo. Ripensando alla storia di Dante mi domando quanti siano i giovani arruolati a forza dai fascisti che, non avendo avuto il coraggio di fuggire, abbiano sparato e ucciso; ma soprattutto vorrei sapere QUANTO e COME quelle scelte forzate abbiano pesato sulla loro vita di poi. Ma non lo saprò mai, né saprò mai se Dantino sia riuscito a diventare dottore e a ritrovare il sorriso della sua Angela.

Da Patria indipendente, quindicinale della resistenza e degli ex combattenti, n. 6-7, 5-19 aprile 1992

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